La barbarie del linguaggio
Siamo nell'epoca
dell'imbarbarimento dei costumi e del linguaggio - Una moda che non risparmia
nessuno - La democrazia come alibi dell'offesa e del turpiloquio - E' la caduta
verticale dei valori e dell'etica
Lunedì, 15 luglio 2013
A sfogliare i giornali o ad
ascoltare le notizie da un qualsiasi emittente radiotelevisiva ci si rende
conto che sempre più viviamo un'epoca di impazzimento e di barbarie, un'epoca
in cui i valori del vivere civile, della democrazia e persino quelli della
buona educazione non sono semplicemente cambiati, ma sono stati addirittura
stravolti al punto che un improvvisato esegeta di quei termini si troverebbe
oggi in serio imbarazzo, dovendo attribuire a quelle espressioni un significato
profondamente diverso da quello che avevano in passato, se non addirittura
opposto.
Quest'imbarbarimento è
particolarmente più evidente ed incisivo nel linguaggio, oggi più immediato
rispetto a quello del passato, molto più diretto e preciso, un linguaggio che
pare sforzarsi di dare un'immagine immediata di ciò che è il pensiero, i
sentimenti, le pulsioni interiori. Non che la chiarezza sia di per sé un
aspetto negativo. Ma quando la chiarezza diviene un veicolo per trasportare
volgarità o per esternare nefandezze di cui in ogni epoca la vergogna dovrebbe
costituire freno, allora essa assume il significato ineluttabile di spia di un
disagio sociale profondo, sintomo di una decadenza etica pericolosa che
minaccia la stessa convivenza e trascina verso l'indecenza della barbarie.
Così anche sui giornali oltre che
in tv è ormai consuetudine sentire eminenti personaggi della politica e della
vita pubblica intercalare i loro discorsi con riferimenti ad attributi sessuali
vari, come inseguendo la moda che ha definitivamente sdoganato lo scurrile lessico
da angiporto e da goliardi, rendendolo eloquio salottiero e d'intrattenimento.
E a questa moda nessuno si esimi, uomini o donne che siano, quasi illudendosi
che la scurrilità, il trivio fosse in grado di conferire maggiore forza
persuasiva alle proprie tesi, come se le critiche all'altrui comportamento
dovessero divenire più incisive se l'avversario anziché babbeo viene
apostrofato come attributo testicolare.
Chi non rammenta la recente
kermesse organizzata da Giuliano Ferrare con lo slogan "siamo tutti
puttane"? Quasi la perifrasi "donne di facili costumi" o
prostitute o il raffinato meretrici non fosse sufficiente a dare idea di ciò cui
s'intendeva far riferimento. Lo stesso personaggio, d'altra parte, era già
reduce da una villana esibizione dagli schermi di La7, nel corso della quale aveva avuto uno scontro verbale con
Enrico Mentana ed aveva sciorinato una sapiente performance del suo repertorio.
Né di diverso tenore è qualche
suo eminente collega di Libero o de il Giornale, che non di rado ha
rammentato ai propri lettori che certe stupidaggini politiche vanno qualificate
in modo appropriato e non con generici e clementi termini come idiozia o
cretinata. Probabilmente il lettore medio, presunto dai gusti forti, non è in
grado di attribuire la giusta gravità ad una iniziativa definita scemenza, da
più credito e valore alla minchiata, alla quale si sente elettivamente prossimo
e più avvezzo: "ecco un giornalista che parla come pensa e che senza
infingimenti ipocriti qualifica le cose per quel che sono".
Sia ben chiaro che il discorso
qui affrontato non muove certo da una concezione bacchettona della
comunicazione: non ci scandalizza di certo un modo di parlare che indubbiamente
è molto più vicino al quotidiano linguaggio comune. Tuttavia e a prescindere
dalla ricchezza della nostra lingua, in grado di far emergere in svariati modi il
dissenso forte, il disappunto, lo stupore, e quant'altro implichi
l'esternazione di sentimenti decisi, rimaniamo dell'opinione che il ruolo di
chi scrive è anche quello di far cultura oltre che d'informare, e appiattirsi
su un lessico scarno ed essenziale sarà pure popolare, ma tradisce in certa
misura la missione di chi quel ruolo dovrebbe assolvere.
C'è poi un livello
d'interlocuzione istituzionale nel quale, senza scomodare il linguaggio della
diplomazia, certe licenze non sono ammesse. Il linguaggio della politica, per
quanto accusato troppe volte d'ermetismo
e di vaghezza, non può prescindere da regole di bon ton, non fosse
perché per bocca dei suoi leader e di coloro che si dichiarano rappresentanti
del popolo è lo specchio universale di un'intera cultura, dei valori etici di
una comunità, della civiltà di un popolo. Ed esempi di questa contravvenzione
alle regole ve ne sono tanti, dai discorsi di Grillo contro gli avversari a
quelli di Berlusconi verso chi ha votato a sinistra, dai demenziali improperi
di tanti leghisti verso gli immigrati, i neri o qualche ministro inviso, ai
deliri di Vittorio Sgarbi .
In queste circostanze la
scurrilità offre anche il preciso valore che ha ormai assunto la democrazia nel
paese, una democrazia falsa e ipocrita
in cui la libertà si estrinseca con la contumelia, con l'offesa grave proferita
al riparo dell'immunità, non con la garanzia di libera espressione del proprio
pensiero senza ledere la dignità altrui. Reclamare la democrazia solo per
autorizzarsi il vilipendio delle istituzioni e dei suoi servitori o per
imbrattare impunemente il nome altrui e operazione squallida ed esecranda, che
rende laido pattume chi ne profitta e abusa e che, per di più, mette a nudo lo
squallore delle frustrazioni che infettano l'animo di chi vi ricorre.
E se questa è democrazia o
civiltà, ciascuno giudichi da sé.
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