giovedì, giugno 04, 2015

Amministrative, il preludio alla resa dei conti



Il confronto elettorale finisce 5 a 2, ma parlare di vittoria del PD appare azzardato – I candidati Paita e Moretti più che sconfitti sono stati umiliati – Forse il premier avrebbe bisogno di un bagno di umiltà – In Campania vince De Luca, ma causa la legge Severino non potrà governare

Giovedì, 4 giugno 2015
Nonostante il premier Renzi non abbia ancora aperto bocca, sono in tanti nel PD a parlare di vittoria elettorale in questa tornata di amministrative. E a guardare i numeri, - cinque regioni conquistate contro due cedute al centrodestra, - tutto lascerebbe intendere che di vittoria schiacciante si sia trattato. Tuttavia i numeri dicono ben poco se non vengono letti e interpretati rispetto alla realtà e la loro lettura, - pur se conferma la supremazia del partito di Renzi, - ridimensiona abbondantemente il risultato elettorale del PD, al punto da trasformare la dichiarata vittoria in un pericoloso campanello d’allarme ed in un definitivo richiamo al centrosinistra a modificare radicalmente la rotta.
L’analisi dei risultati elettorali è chiara ed allo stesso tempo ineccepibile. In primo luogo parlare di vittoria quando il 50% del corpo elettorale ha chiaramente snobbato la chiamata elettorale è decisamente fuorviante, non fosse perché dietro il pesante astensionismo, cresciuto di quasi dieci punti rispetto alle elezioni precedenti, c’è sempre più evidente la sfiducia nei confronti di una politica incapace di offrire un’immagine di serietà, onestà ed equità. In secondo luogo perché la destra, nei numeri, ha dimostrato di tenere, quantunque con una redistribuzione al suo interno della destinazione di voto; e Matteo Renzi ha pienamente dimostrato l’incapacità di eroderne la base elettorale e di diventare attrattiva credibile per l’elettorato moderato. In terza istanza – certamente la più seria ed allarmante – perché il vistoso incremento dell’astensione ha affondato le radici tra le schiere di senza lavoro, tra i pensionati e giovani privi di speranza, che con il rifiuto delle urne hanno voluto inviare al segretario del PD e capo del governo, una mozione di sfiducia senza precedenti sulle sue capacità di trascinare il paese fuori dalle secche di una recessione sempre più feroce.
In quarto luogo, comunque s’intenda girare la classica frittata, il risultato complessivo del PD si ridimensiona su quel 25% bersaniano tanto svillaneggiato da Renzi e soci, distante a parità di partecipazione elettorale anni luci dal 40% conseguito appena un anno fa alle europee.
Che poi parecchi esponenti del cerchio magico renziano si arrampichino sugli specchi addossando a Civati o a Cofferati, che il PD hanno lasciato per i forti dissensi con l’attuale nomenklatura, o alle improvvide conclusioni della Commissione Antimafia presieduta da Bindi, il deludente risultato elettorale è il sintomo della pochezza oramai irreversibile che ha infettato i gangli di una sinistra sempre più protesa a spostare l’asse della sua visione politica verso il centro, ma che nel goffo tentativo rischia di somigliare sempre più all’accozzaglia di fine corsa di tal Bettino Craxi, che non brillava per attenzione al sociale ed ai problemi delle categorie più deboli e aveva fatto della deriva muscolare uno strumento per rendere digeribili scelte politiche impopolari suggerite da innominabili gruppi di pressione.
Così per Renzi essersi illuso di aver domato il consenso popolare con misure arroganti nei confronti dei pensionati e con gli sberleffi alle decisioni della Corte Costituzionale; con una legge elettorale spacciata per democratica, ma che nei fatti perpetua l’arroganza del potere nell’imporre i nomi degli amici e sodali da inviare in parlamento; con l’annientamento della dignità dei lavoratori a cui si cancella la tutela del posto di lavoro; con una riforma del mercato del lavoro che condanna all’eterno precariato; con una riforma della scuola invisa a docenti, famiglie e studenti; con ridicoli proclami di riforma del senato e di abolizione di enti parassitari come le province; con mance da ottanta euro  e premi maternità da ventennio; con sbruffonesche minacce di revisione delle pensioni applicando calcoli peggiorativi; con farse miserabili sulla cancellazione dei privilegi dei mandarini della politica; con l’arrogante rifiuto di ascoltare e dialogare con il sindacato; il passaggio dall’euforico sogno di un partito della nazione alla crudezza realtà è stato repentino. I sondaggi d’altra parte confermano che da un clamoroso 70% oggi l’ex sindaco deve contentarsi di un 38% di gradimento in costante erosione.
Ma ciò che pesa come una macchia indelebile sull’operato di Renzi, che certamente è stato sottovalutato e che denota quanto in fondo il suo modo d’intendere la politica non sia poi così diverso da coloro che sino a ieri riteneva meritevoli di rottamazione, è il modo con il quale si è arrivati alla scelta dei candidati alla presidenza della Liguria e della Campania. Nel primo caso e nonostante le irregolarità nelle primarie denunciate da Cofferati e Civati, si è ostinatamente favorita la candidatura di Raffaella Paita, una candidata dell’entourage Burlando già inquisita per le disastrose alluvioni e perciò invisa alla maggioranza dei Liguri. Nel secondo caso, sebbene anche Vincenzo De Luca fosse il trionfatore delle primarie nella regione, il suo status di condannato e quindi di ineleggibile a norma della legge Severino e l’apparentamento di numerose liste di comodo infarcite di pregiudicati, avrebbe dovuto suggerire scelte alternative. La sete di potere ha invece suggerito di chiudere tutte e due gli occhi su una situazione che sarebbe stata elemento di accesissimo scontro se avesse interessato forze avversarie, offrendo così all’elettorato un’immagine di partito assai discutibile e incline all’opportunismo di maniera.
Dunque risultati elettorali deludenti, all’insegna degli errori di una segreteria di partito che ha sprecato il vantaggio iniziale in battaglie su temi sovrastrutturali rispetto ai bisogni veri dei cittadini. Senza contare che ha preferito la sponda della destra in disfacimento di Silvio Berlusconi all’unità del proprio partito e che ha negato con sbruffoneria spavalda, sovente sopra le righe, il confronto con le forze sociali e il resto delle forze politiche di sinistra. In definitiva il bilancio di un anno di governo di Renzi il rottamatore, se si chiude con un cauto apprezzamento da parte di un Europa, che ha trovato in lui il diligente esecutore di ciò che si potrebbe definire “il lavoro sporco”, - quello ordinato al tempo a Berlusconi ed eseguito in parte da Monti, - sul piano interno deve incassare il crollo della fiducia del paese nelle sue capacità di imprimere la svolta tanto attesa e di attuare quelle coraggiose riforme a favore dell’occupazione e della tutela dei redditi.
D’altra parte fino a quando il signor Matteo Renzi, anche lui affetto da precoce delirio d’onnipotenza, insisterà nel ritenersi il novello Marchese del Grillo e continuerà a parafrasare la sua famosa battuta “Perché io so’ io e voi non siete un cazzo” sarà difficile  parlare in questo paese di una vera e nuova fase della politica.
Nella foto, Alessandra Moretti candidata PD in Veneto

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