Il retro pensiero dei giudici della Consulta: “Rispettare la Costituzione? Idea ragionevole, purché non costi troppo”
Volentieri pubblichiamo un articolo di Salvatore Rotondo a proposito della sentenza della Consulta che ha bocciato i numerosi ricorsi di sospetta illegittimità costituzionale del decreto Poletti sul taglio della perequazione delle pensioni.
La notizia ieri del parere sfavorevole
della Corte Costituzionale al ricorso contro il blocco della perequazione è
stata una doccia fredda per sei milioni di pensionati. L’annuncio era tutto
contenuto in una breve nota dell’ufficio stampa di Palazzo della Consulta: “La
Corte Costituzionale ha respinto le censure di incostituzionalità del
decreto-legge n. 65 del 2015 in tema di perequazione delle pensioni, che ha
inteso ‘dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte
Costituzionale n. 70 del 2015’. La Corte ha ritenuto che – diversamente dalle
disposizioni del ‘Salva Italia’ annullate nel 2015 da tale sentenza – la nuova
e temporanea disciplina prevista dal decreto-legge n. 65 del 2015 realizzi un
bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della
finanza pubblica”. Certo
l’avvocato Pietro Frisani non aveva garantito nulla: un avvocato che
assicurasse la vittoria, anche nella più facile delle cause, dimostrerebbe di
essere tutt’altro che un serio professionista. Viceversa Frisani ha sempre
detto che occorreva mettere in conto una sorpresa negativa. E purtroppo per noi
è andata proprio così. Ora si tratta di superare l’amarezza e, dopo aver
eliminato i residui tossici, distillare da questa esperienza quanto rimane di
positivo.
Non sto
proponendo un gioco di prestigio o di mentirci addosso per anestetizzare la
delusione. Sto dicendo che poteva andare peggio. Sì, peggio di così. Avremmo
potuto arrenderci senza lottare. E di questo ci saremmo dovuti vergognare. A
vergognarsi invece devono essere altri. I politici che hanno deciso di rubare
dalle tasche dei pensionati. E soprattutto i giudici. Perché se è vero che i
politici si sono limitati a perpetuare un antico vezzo, radicato nel loro dna
alla pari dell’inettitudine, i magistrati invece hanno subordinato la giustizia
a una esigenza economica. Diciamola tutta: disonorando la loro missione si sono
inginocchiati davanti a quel dio denaro regolatore del bene e del male.
“Io,
Giuliano Amato, giuro sul mio onore di osservare lealmente la Costituzione e le
altre leggi dello Stato, esercitando le mie funzioni di giudice della Corte
Costituzionale nell’interesse supremo della Nazione”. Lo stesso giuramento è
stato pronunciato nel giorno della nomina da ciascuno degli altri 14 magistrati
che oggi fanno parte della Consulta: Alessandro Criscuolo, Giancarlo Coraggio,
Paolo Grossi, Giorgio Lattanzi, Aldo Carosi, Marta Cartabia, Mario Rosario
Morelli, Giancarlo Coraggio, Daria De Pretis, Nicolò Zanon, Silvana Sciarra,
Franco Modugno, Augusto Barbera e Giulio Prosperetti.
Hanno tutti
giurato fedeltà alle leggi “nel supremo interesse della Nazione”. Cadendo,
proprio loro, personaggi di altissima cultura giuridica, nel più grossolano
degli abbagli. Ritenendo che l’interesse supremo della nazione possa comportare
alle volte il martirio della giustizia. Ma non è questo che intendevano i padri
della Costituzione quando hanno formulato il giuramento. Non è per questo che
hanno giurato la prima volta in Italia Gaspare Ambrosini, Gaetano Azzariti,
Ernesto Battaglini, Giuseppe Capograssi, Giuseppe Cappi, Giovanni Cassandro,
Mario Bracci, Giuseppe Castelli Avolio, Mario Cosatti, Enrico De Nicola,
Antonino Papaldo, Nicola Jaeger, Giuseppe Lampis, Francesco Pantaleo Gabrieli e
Tommaso Perassi. Il senso vero di quel giuramento, per come era stato
formulato, è che l’interesse della nazione si può onorare unicamente osservando
con lealtà la Costituzione e le altre leggi dello Stato. E non che si debba
onorare soltanto quando fare giustizia non crea problemi alle finanze.
Nei miei
commenti ho scritto tante volte che “c’è un giudice a Berlino”. Il mugnaio di
Potsdam a quel giudice si era rivolto per ribellarsi al sopruso di un nobile. E
lo ha trovato al suo posto, pronto a onorare il suo ruolo. Buon per lui. Noi
invece sulla porta di piazza Quirinale 41 abbiamo trovato un biglietto con su
scritto “ASSENTI A TEMPO INDETERMINATO”, senza neppure un “TORNIAMO SUBITO”.
L’Inps aveva
calcolato che una bocciatura del bonus Poletti, che aveva sbeffeggiato la
precedente sentenza della Corte, sarebbe costata 30 miliardi. I giornali hanno
messo tutti in risalto questa cifra stratosferica brandita come un’arma di
ricatto nei confronti di chi doveva decidere: “Attenti giudici, avete nelle
vostre mani il destino del Paese”. Il fatto poi che questo dato quantifichi in
30 miliardi il furto ai danni dei pensionati da parte dello Stato non ha
sollevato scandalo né problemi di coscienza.
Ed ecco
allora i giudici svestirsi delle loro pompose, lunghe toghe nere, maniche
e collo merlettati, per indossare i panni meno vistosi dei burocrati di Stato.
Sono sicuro che tutti e 15 alla prima occasione, in cui occorrerà minor
ardimento, torneranno a fare i giudici. Perché in fondo, molto in fondo, il
nostro è un Paese democratico che non può tollerare più di tanto l’appiattimento
delle sentenze sulle ragioni dell’economia. Pazientiamo. E nel frattempo? Che
cosa rimane della nostra fiducia nella giustizia? Un pugno di polvere.
E per
chiudere mi domando: anche il Tar del Lazio, a febbraio, giudicherà “non
irragionevole” che l’Istituto di previdenza dei giornalisti abbia tagliato
un’ulteriore fetta delle pensioni erogate, con una decisione interna
amministrativa e senza alcuna copertura di legge? Sfido la scaramanzia fidando
che non si possa davvero arrivare a tanto. Non posso e non voglio crederci.
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