sabato, dicembre 02, 2017

PD, la fine del sogno democratico



Opposizione, destino segnato per il PD di Matteo Renzi – Come dilapidare uno storico patrimonio politico in un lustro – Con l’attuale segreteria il PD non sembra più aver speranza di tornare a governare.
                                (fonte: Corsera)

Sabato, 2 dicembre 2017
Dopo la débâcle siciliana ancora una volta con i ballottaggi alle circoscrizionali di Ostia la sinistra è risultata fuori dalla competizione politica, segno di un’onda lunga che s’allarga sempre più e che pone una seria ipoteca sulle speranze nutrite in casa PD di successo alle prossime nazionali.
In ragione di queste avvisaglie che c’è da chiedersi quali siano i motivi del lento ed inesorabile franare del consenso della sinistra, poiché con il passaggio del testimone tra Matteo Renzi e Paolo Gentiloni alla guida del governo era sembrato si fosse cominciato a porre un argine all’inarrestabile montare delle diffidenza verso la leadership del partito democratico alla guida della politica italiana, sebbene la scissione consumatasi all’interno del PD e la nascita di Mdp, - riferimento della sinistra integralista e ortodossa, che nel ballottaggio ha indirizzato i voti del proprio elettorato sulla candidata pentastellata, - sia stata il sintomo di una spaccatura tra renziani e antirenziani difficilmente sanabile. La risposta in ogni caso è complessa e pecca di superficialità chi attribuisce a questa o a quella ragione singola i motivi della disaffezione verso il PD. Le vicende che hanno investito il partito di Renzi vanno considerate nel loro insieme, poiché i provvedimenti varati dal segretario democratico come capo del governo presentano un filo conduttore, che ha contribuito man mano ad elevare la muraglia che separa due anime della sinistra, figlie della stessa madre, ma ormai estranee l’una all’altra.
L’avvento alla segreteria del PD di Matteo Renzi ha rappresentato l’inizio di un processo di rifondazione dei democratici, che hanno spostato, forse con eccessiva velocità, la loro posizione dalla sinistra tradizionale verso il centro della politica, forse perché convinti dall’avversione radicata nel popolo italiano verso la sinistra e la sua ideologia o dall’illusione che da sempre regge il mito che è al centro che si conquista il potere di governo.
In realtà la prima ragione non è poi così solida, dato che alle scorse politiche il PD di Bersani conquistò la maggioranza. La seconda è probabilmente erronea per ragioni storiche. Il centrismo ha avuto successo in un epoca in cui la DC era forza egemone grazie ai fortissimi legami con un’economia autoreferenziale, un processo industriale in consolidamento, che favoriva la mediazione di fenomeni di migrazione interna significativi, i rapporti con la chiesa, una scolarizzazione medio-bassa, una spesa pubblica fuori controllo, che sosteneva interventi assistenzialistici e clientelari. I profondi cambiamento di scenario dovuti alla globalizzazione internazionale dei mercati e delle economie, l’integrazione monetaria europea ed i vincoli imposti dalle autorità di controllo, hanno non solo messo a nudo la fragilità del tessuto sociale, economico e politico del paese, ma hanno impresso un radicale cambiamento di cultura delle masse, che oggi invocano legalità, trasparenza, buon governo, laicità, equità e meritocrazia, cioè ingredienti di una politica complessiva che nulla ha in comune con la ricetta con cui la Balena Bianca aveva governato per un cinquantennio il paese.
L’errore di valutazione era già stato commesso nell’epopea Berlusconi, che per un ventennio aveva attinto ad una ricetta di consenso basato sull’assistenzialismo alle imprese, sull’occhiolino al clientelismo, sull’arrangiarsi e sulla convinzione che il taglio al welfare, figlio della concertazione, fosse stato superato da un benessere più diffuso, che consentiva di dirottare le risorse impiegate sino ad allora verso gli investimenti pubblici. Peccato che tale destinazione sia rimasta più sulla carta che concretizzata nei fatti, poiché quelle risorse sono andate distrutte in spesa improduttiva e in iniziative prive di valore aggiunto.
Alla fine, anche a causa della crisi internazionale che ha colpito duramente le economie planetarie, il neo-liberismo berlusconiano ha dovuto fare i conti con un sistema pensionistico al collasso, con un debito pubblico stratosferico, con un industria tecnologicamente obsoleta, con una pubblica amministrazione ipertrofica e parassitaria, con un Europa non più disposta a chiudere un occhio e ad accollarsi, in una crisi mondiale tra le peggiori nella storia dell’umanità, il peso delle politiche disinvolte e irresponsabili condotte in Italia e in alcuni altri paesi del bacino mediterraneo.
E’ in questo scenario che il PD, dopo le draconiane misure prese dal governo di salvezza nazionale di Mario Monti, vince con Pier Luigi Bersani le elezioni e poi con il governo di Enrico Letta, prima, e quello del “golpista” Matteo Renzi, dopo, imbocca la via dell’inesorabile declino, vittima dell’abbaglio di un centrismo ideologico vuoto di contenuti e infarcito d’illusori, successi come la straordinaria vittoria alle elezioni europee.
Iniziano così le campagne populiste degli ottanta euro, seguite da quelle perfide dell’abolizione dell’articolo 18 e del Jobs Act e della Buona Scuola, sino all’Italicum e alla riforma costituzionale, con tanto di referendum su cui si schianteranno le ambizioni renziane. E sono queste campagne la causa dell’acuirsi della stagione dei dissidi interni al partito democratico, in cui si scontrano un’anima garantista della storia operaia e un’idea populista di riformismo, che intende far tabula rasa dei valori fondanti della sinistra.
Lo scontro tra le due anime è sempre più radicale. L’anima renziana, rappresentata dai fuorusciti della componente di sinistra della vecchia DC, traghettata prima nella Margherita e successivamente approdata nel PD allo scioglimento dell’Ulivo, dentro il quale era confluita nel 2005, diviene rapidamente egemone e pretende d’imporre la propria linea politica, isolando in un ghetto senza alcun peso il dissenso rappresentato da Civati, Bersani, Fassina, D’Alema, Cofferati, Epifani, D’Attorre, Bindi, Speranza, Zoggia, Pollastrini e tanti altri, che alla fine lasceranno il partito democratico, alcuni dopo breve tempo dall’insediamento di Matteo Renzi, il grosso dopo la sonante sconfitta sul referendum costituzionale.
Al momento attuale, fallito ogni tentativo non solo di riconciliazione, ma anche d’alleanza elettorale così come richiesto dalla nuova legge elettorale, la sinistra si presenta frastagliata e incapace d’esprime un progetto univoco di governo, con ciò ipotecando pesantemente l’ipotesi di un ritorno alla guida del paese da parte delle destre, che proprio alle amministrative hanno dimostrato una straordinaria capacità tattica di coalizione profittando della guerra fratricida in corso nella compagine opposta.
In questo scenario l’unico vero oppositore delle destre coalizzate sembra essere il Movimento 5 Stelle, il cui successo è però pregiudicato dalla scelta di rifuggire da qualunque alleanza, con la quale avrebbero la strada spianata verso Palazzo Chigi.
Troppi errori, dunque, nella gestione Renzi del PD. Troppi errori che peseranno a lungo e che, come era accaduto al tempo della caduta del governo Berlusconi, hanno ingrossato le file dell’astensione e dell’antipolitica: un patrimonio politico dilapidato, causa l’ottusa cecità di un manipolo di personaggi convinti che strizzare l’occhio e accreditarsi con i santuari post-capitalisti e la finanza spavalda potesse costituire il passaporto per il successo.


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