La grande bufala del contributivo
Dopo anni di dibattiti e polemiche, affiora la verità sul calcolo
contributivo delle pensioni – Il metodo applicato alle pensioni di vecchiaia si
rivela più remunerativo del retributivo – Il contributivo penalizza solo le
pensioni di anzianità che in tanti vorrebbero ripristinare
Sabato, 3 febbraio 2018
Chi
può dimenticare la lunga e durissima battaglia tra i sostenitori del metodo
contributivo e quelli del metodo retributivo per il calcolo delle pensioni?
Alla fine la professoressa Fornero, ministro del governo Monti, varò l’improvvida
riforma che introduceva proprio il sistema in questione per il calcolo delle
pensioni e, contestualmente, varava un meccanismo pensionistico ancorato ad un
minimo di contributi e ad un poderoso innalzamento dell’età per accedere alla
quiescenza. Il nuovo sistema, al di là dall’aver placato le polemiche, sta
mostrando i suoi benefici sul piano dei risparmi, ma i suoi tragici effetti
sociali su migliaia di individui che, a causa dell’elevata età, si ritrovano
senza lavoro e con l’impossibilità di accedere alla tanto sospirata pensione.
Nell’articolo
seguente, a firma di Giuliano Cazzola, che della riforma Fornero è stato uno
dei sostenitori e che è stato pubblicato lo scorso 29 gennaio su Il Diario del
Lavoro – quotidiano on line - cominciano ad emergere i limiti del meccanismo
contributivo, che si sta rivelando una poderosa via per allargare le differenze
sociali e penalizzare i tanti che svolgono professioni scarsamente retribuite.
Si è piantata nella testa della
gente l’idea che per fare giustizia sarebbe indispensabile ricalcolare con il metodo
contributivo i trattamenti erogati con quello retributivo. L’opinione
pubblica è stata convinta dalla grancassa dei talk show che le
pensioni retributive siano furti legalizzati a danno dei giovani costretti a
condizioni miserevoli, anche in quiescenza, a causa del calcolo
contributivo. Sono cominciate, quindi, le liste di ‘’proscrizione’’ in
cui vengono sottoposte alla gogna del ludibrio pubblico e dell’invidia sociale
le categorie i cui trattamenti non sarebbero coperti dai contributi
versati.
Non si capisce, ancora, dove
voglia arrivare questa persecuzione: ad un obiettivo minimo, per sua natura di
carattere temporaneo, come potrebbe essere quello di individuare un percorso
più equo per la ritenuta di un contributo di solidarietà da applicare sul
differenziale tra i due conteggi (nel caso in cui quello retributivo sia più
favorevole) oppure, addirittura, ad un intervento strutturale di applicazione
retroattiva del sistema contributivo anche alle pensioni in essere. Poi, di
mezzo, si è messo il disegno di legge Richetti che aveva individuato un
capro espiatorio nei vitalizi dei parlamentari, garantendo nello stesso
tempo che non sarebbe mai stato applicato il ricalcolo alle pensioni dei
lavoratori.
Una
promessa da marinaio, visto che una legge ordinaria poteva essere cambiata da
una successiva di tenore diverso. Ma il ricalcolo continua ad aleggiare nel
firmamento delle pensioni alla stregua di un angelo vendicatore che prima
o poi verrà sulla terra a compiere giustizia. A pagare il fio dovrebbero
essere gli assegni più elevati, anche se non se ne comprendono le ragioni visto
che dei supposti benefici del calcolo retributivo ha fruito la quasi totalità
dei trattamenti in essere ed in particolare le pensioni di importo medio e
medio alto, in larga misura erogate a titolo di anzianità a persone ancora
in età inferiore a 60 anni, per le quali, oltre al vantaggio del calcolo, si è
aggiunto quello della durata dell’erogazione.
Nei
mesi scorsi, l’Inps ha voluto ‘’aprire le porte’’ sulle pensioni dei magistrati
che, mediamente, sono d’importo superiore a 100mila euro l’anno (non si
dimentichi lo stipendio del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione,
nel disordine della demagogia imperante, è divenuto il massimale per i
trattamenti della PA e non solo). Bene. l’Inps ha dovuto riconoscere che
‘’l’eventuale ricalcolo con il sistema contributivo non ridurrebbe di molto
l’importo degli assegni perché tale metodo premia proprio chi accumula molti
anni di contributi e ritarda il pensionamento’’ (nel caso dei magistrati in
media fino al 70°anno).
Proprio
così: il sistema retributivo non è una sorta di Eldorado se messo a confronto
con gli stenti e lo stridore di denti imposti dal contributivo. Un
lavoratore ‘’povero’’ diventa un pensionato ‘’povero’’ in ambedue i
sistemi. Un lavoratore ad alto reddito, invece, è maggiormente penalizzato, sul
piano del rendimento dei suoi contributi, dal calcolo retributivo che non da
quello contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i
versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2%
per ogni anno di servizio fino a 45mila euro di stipendio. Per le quote
eccedenti, invece, l’aliquota è decrescente (dal 2% fino allo 0,90%). In
pratica il percettore di una retribuzione elevata che vada in quiescenza
col retributivo e 40 anni di versamenti non percepisce l’80% canonico
della retribuzione pensionabile, ma il 60%.
Nel
retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto massimo di 40 anni:
quelli lavorati in più subiscono il prelievo sulla retribuzione, ma ‘’non
fanno’’ anzianità. Nel regime contributivo, invece, contano tutti i
versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione
migliore, perché il montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente
di trasformazione più elevato in relazione all’età del pensionamento. I
lavoratori con retribuzioni maggiori, peraltro, versano i contributi soltanto
su di un massimale attualmente di circa 100mila euro l’anno (al di sopra non
sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono
considerate retribuzione pensionabile, mentre viene favorita la loro
allocazione ad una forma di previdenza complementare). Ciò spiega perché
sarebbero i redditi più elevati e le carriere più lunghe ad essere premiate (o
quanto meno risparmiate) dal ricalcolo.
Non
a caso il legislatore ha sempre scoraggiato (nella legge di stabilità del 2015
ha addirittura punito) chi si fosse avvantaggiato applicando il calcolo
contributivo. Del resto non sono mai i grandi privilegi a fare la
differenza, ma quelli piccoli; per la semplice ragione che questi ultimi sono
infinitamente più numerosi dei primi. Uno studio di Fabrizio e Stefano
Patriarca ha dimostrato che i veri protagonisti dello squilibrio tra
pensioni contributive e retributive sono i trattamenti di anzianità, ovvero
proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, ad
ogni piè sospinto. Considerando, come nello studio, le pensioni di anzianità
maturate (in media a 58,5 anni di età) da 486mila lavoratori dipendenti privati
tra il 2008 e il 2012, per un importo medio di quasi 2mila euro lordi mensili,
la spesa per questa platea è stata di 12 miliardi di euro. La parte non
giustificata da contributi versati è in media pari al 28% e si concentra prevalentemente
(in quota del 37% dei pensionati) nelle fasce con più di 2500 euro mensili, che
accumulano il 63% dello squilibrio complessivo.
Lo
studio, pertanto, calcola che sui 12 miliardi di spesa circa 3,5 miliardi
siano dai versamenti contributivi. Lo squilibrio diminuisce nel caso di
pensionamento di vecchiaia (al 15% medio) per effetto della più ridotta attesa
di vita. Aggiungendo anche le pensioni di anzianità (2008-2012) dei dipendenti
pubblici, (il cui squilibrio tra calcolo contributivo e retributivo è
valutato in 2,5 miliardi) la parte sale nell’insieme a 6 miliardi. Il bello
però deve ancora venire. Più aumenta l’importo dell’assegno (oltre i 44mila ero
l’anno) più si riduce la parte, perché sul valore dell’assegno opera la
soprarichiamata modulazione al ribasso dei trattamenti fino a ridursi al 5% per
pensioni intorno ai 12mila euro lordi mensili.
Ma
ormai è inutile aspettarsi un qualche criterio di coerenza. Nell’Italia della
deriva demagogica non c’è alcun bisogno di argomenti fondati. Fanno tanto
comodo e sono così gratificanti i luoghi comuni!
Giuliano Cazzola
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