lunedì, settembre 25, 2006

Editoriale - Le ragioni di questo blog

giovedì, 14 set 2006 ore: 15.23


Nella fase mediatica in cui viviamo l’informazione riveste un ruolo fondamentale nella vita di ciascuno di noi. Tuttavia, in questo scenario il nostro approccio all’informazione, all’insegna dei parametri culturali di cui siamo pervasi, è più di consumatori di informazione, avendo meno percepito il ruolo di produttori d’informazione, senza il cui esercizio, peraltro, l’informazione in sé non esisterebbe. Con questo ruolo di consumatori approcciamo l’informazione molto spesso in modo acritico, trascurando come gli eventi quotidiani, nelle loro molteplici implicazioni, finiscano con l’interferire con la nostra vita reale presente e futura. Così l’11 settembre 2005, con i suoi fatti dolorosi per l’intera umanità, forse per qualcuno era solo una sequenza horror dal vivo mentre in tv la tragiche immagini scorrevano. Solamente dopo qualche tempo ci si è resi conto di quanto quelle informazioni avevano, di fatto, stravolto le nostre radicate abitudini di viaggiare e l’approccio generale al problema della sicurezza dell’esistenza o alla questione islamica, apparentemente così lontana sino ad allora da noi. Analogamente è avvenuto per altre informazioni, come la riforma delle pensioni o le vicende Unipol, per citarne alcune tra le più recenti, che, se da un lato ci vengono propinate da giornali e televisioni con ostentato sdegno, al di là di qualche rimbrotto di quanti ne percepiscono immediatamente la ricaduta e la valenza, finiscono per i più per essere confinate nel grande archivio degli accadimenti “inevitabili” e per quali i commenti servono a niente, tanto qualcuno – un molok contro cui non si può combattere – ha già deciso o comunque se ne sta occupando e nulla si può fare se non prendere atto della protervia umana.
In questo scenario di increscioso imbarbarimento delle coscienze, humus assai prolifico per chi gestisce il potere avulso dai veri bisogni del cosiddetto paese reale, ci fanno anche parlare attraverso fantomatici dati attinti da improbabili “sondaggi d’opinione” attraverso i quali si sciorinano numeri su presunte condivisioni di questo o quel provvedimento, senza che, in realtà, alcun intervistatore ci abbia mai posto un quesito.
Allora, ecco l’idea per un blog che, lungi dal volersi sostituire ai tradizioni organi di stampa, intende invece creare uno speaker’s corner dove aprire non solo un dibattito ma, ancor più una vigile, attenzione sui temi della vita quotidiana che avranno certamente le ricadute cui si accennava: la cassa integrazione alla Fiat non è un argomento che riguardi solo Torino o i lavoratori di quell’azienda, ma ricade sull’intera collettività nazionale che è chiamata a pagare di tasca propria l’erogazione di quel sussidio. Si badi, qui non si intende discutere del concetto di solidarietà umana dovuto nei confronti di chi versa in stato di bisogno, anche se anche questo potrebbe esser del tutto legittimo. Per quanto di nostro intendimento sull’esempio appena fatto riterremmo piuttosto doveroso aprire un dibattito sulla legittimità di un sistema industriale che scarica sistematicamente sulla collettività errori ed inefficienze imprenditoriali con altrettanta sistematica assoluzione dei suoi apparati dirigenziali e decisionali.
Allora le colpe sono del mercato che decide di andare in crisi o, peggio come asserito da qualche bislacco politico del passato, in vena di grottesche quanto idiote dichiarazioni, che la crisi dell’auto italiota fosse da attribuire all’esterofilia degli italiani, più propensi a comprare straniero che prodotti nazionali (si ricorderà lo stressante comprate italiano!) . Di certo, nessuno ha avuto il pudore di ammettere che forse qualche testa d’uovo di viale Marconi aveva cannato i modelli e la qualità di quelle auto non giustificava il prezzo che qualche altra testa d’uovo aveva fissato per il loro acquisto, almeno in raffronto a modelli similari concorrenti.
Certo, saltuariamente come a riprova che l’eccezione conferma la regola, qualche mandarino viene mandato a casa, ma nel frattempo di danni deve averne fatti tanti e comunque nel varcare la soglia della matrigna azienda è sempre in buona compagnia di miliardarie liquidazioni di ben servito, che gli leniscono l’immenso dolore.
Gli esempi potrebbero continuare all’infinito anche attingendo ai fatti di attualità, da tal sindaco di un’importante metropoli del nord, che non vedremo probabilmente mai alla fermata del tram per recarsi a lavoro, nella nebbia dei mattini padani, magari a zero gradi di temperatura, che lancia la salvifica idea di tassare i non residenti che accedono alla città a bordo della propria auto per così risolvere i problemi dell’inquinamento atmosferico; all’assedio della pubblicità di pannolini con le ali e di smacchiatori miracolosi in grado di rimuovere anche le macchie dell’anima, i cui costi finali ricadono in ogni caso sul cittadino consumatore.
Poi leggiamo che un aereo di linea inquina quanto 500 auto messe insieme o che un buon 10-15% del prezzo dei prodotti che abitualmente consumiamo sconta il costo della pubblicità. Ma questo poco importa, dato che è più semplice vessare il bancario di Mediglia che al mattino si reca a lavoro a Milano preferendo la propria auto ai due o 3 mezzi pubblici che sarebbe costretto a prendere, tra mille difficoltà e ritardi, per effettuare l’identico tragitto, piuttosto che i potentati aerei imponendo loro l’ammodernamento delle flotte.
C’è da chiedersi se quel tal sindaco abbia mai letto i giornali ed abbia mai sentito delle vere e proprie rivolte di quei pendolari – non si sa se preventivamente recalcitranti al balzello preannunciato o encomiabili ecologisti antesignani, alla luce del promesso provvedimento – che hanno più volte inscenato clamorose azioni di protesta contro le vergognose e croniche disfunzioni del sistema di trasporto pubblico.
Naturalmente il discorso diverrebbe del tutto ozioso qualora il nostro oculato primo cittadino dichiarasse assolutamente consono con i minimi principi di attenzione alla qualità della vita che per 1.200 euro al mese è doveroso uscire di casa alle 6 del mattino e farvi ritorno alle 19, - ché sarai un po’ stanco ma non inquini.
Analogo ignavo silenzio deve registrarsi sul fronte della rendicontazione di spesa per parcheggi, da realizzarsi con gli introiti delle multe per infrazioni stradali. Anche questo caso, al di là della modesta spesa realizzata per costruirne di nuovi rispetto agli introiti realizzati, il costo orario è ormai tale che, per decenza e buon gusto, gli addetti dovrebbero sentirsi in dovere al momento di pagare di offrirti una tazza di tè o qualche altro genere di conforto.
In questo scenario è nostro intendimento dare la parola a tutti, attraverso l’apertura di un dibattito sugli argomenti che ciascuno riterrà opportuno segnalare all’altrui attenzione.
Con l’intento di offrire la massima libertà d’espressione il blog non sarà soggetto ad alcuna censura, salvo quando i commenti espressi non dovessero travalicare la decenza di linguaggio ed il buon gusto in generale, oltre a configurare ipotesi perseguibili di reato, di cui comunque gli inserzionisti resterebbero pienamente responsabili, escludendosi da parte degli autori del sito ogni corresponsabilità o condivisione implicita di quanto da terzi espresso.
Parimenti saranno oggetto di opportuni provvedimenti tutti gli atti, le azioni e le dichiarazioni tese a compromettere la credibilità del sito e dei suoi autori.
Il nostro augurio è che il dibattito possa fornire non solo un’occasione di approfondimento e di presa di coscienza collettiva sulle problematiche del nostro tempo, ma altresì un valido contributo di confronto per chi, delegato a gestire in rappresentanza della collettività, troppo spesso, dimentico delle istanze del paese reale, si avviluppa in un’idea di paese ad uso e consumo delle proprie ambizioni e demagogia.

Telecom ancora al bivio - Il telefono la nostra croce



venerdì, 15 set 2006 ore: 16.03
E così si torna all’antico. Dopo qualche anno di tregua, seguita al cambio di proprietà da Colaninno a Tronchetti Provera, duratane la quale non sono comunque mancati interventi di ingegneria finanziaria ad opera del nuovo management, che così vasta eco hanno avuto sugli organi di stampa nazionali ed internazionali, ecco che la Telecom torna a far parlare di sé e questa volta non per annunciare positivi risultati o iniziative industriali di rinnovato rilancio, quanto per prefigurare l’inizio di una probabile riedizione dell’ennesima via crucis.La società è piena di debiti e, dunque, preannuncia l’avvio di una cura dimagrante il cui iter oltre che l’esito sono ancora tutti da scoprire.Di certo si sa al momento che rientrerebbe nei suoi piani la dismissione della controllata brasiliana, il cui valore non è comunque tale da lasciar presagire una rapida guarigione del malato grazie all’introitazione del suo controvalore di vendita.
Allora qual’è la medicina più adeguata? E individuata la medicina, quali sono le reali prospettive di rilancio della storica società di telefonia italiana?
La risposta è ardua considerando le decisioni che il CdA Telecom ha assunto nelle scorse ore. Lo scorporo della società di gestione della rete telefonica cellulare TIM, infatti, prelude a qualche ulteriore mossa in serbo che, come un coniglio dal cilindro del prestigiatore, prima o poi salterà fuori per la gioia degli amanti del thriller.Questa società, nata peraltro da una costola della Telecom nella quale era stata poco tempo fa riassorbita insieme alla sorella TIN.IT, anche lei prima scorporata dalla TIM per ottimizzare le attività collegate ad internet e poi nuovamente incorporata per ragioni non del tutto chiare, è valutata tra i 35 ed i 40 miliardi di euro, che rendono più comprensibile non solo le ragioni dello scorporo, ma anche quale dovrebbe essere il destino del comparto telefonia cellulare nel quadro dell’indebitamento della casa madre.Lo scenario è ancora più ingarbugliato qualora si tenga conto dei lunghi contatti ed annesse trattative che il gruppo di Tronchetti Provera ha intavolato con Murdock, l’ormai mitico tycoon australiano padrone in mezzo mondo di tv e carta stampata, al punto da non potersi escludere che un intesa con il magnate per l’ingresso del feudo Tronchetti nell’appetitoso business della tv digitale sarebbe possibile solo con l’azzeramento dell’indebitamento che in questo momento appesantisce i conti della Telecom.
Ma a parte queste considerazioni frutto delle elucubrazioni di chi scrive e, pertanto, prive di elementi di riscontro, dato l’alone di mistero che circonda l’affaire Sky/Pirelli e la cui valenza sarebbe del tutto giornalistica qualora stessimo parlando di un’azienda privata qualsiasi, c’è da chiedersi se sia lecito che la proprietà della storica società di gestione telefonica, di controllo pubblico sino agli anni ’90, possa avere licenza di fare e disfare a proprio piacimento in un settore strategico per il paese, in cui la presenza dell’imprenditoria nazionale si ferma ormai al portone della stessa Telecom.Non può trascurarsi, infatti, che Wind ed Omnitel, – ora Vodafone, – che rappresentano oltre il 40% del mercato telefonico cellulare, sono passate allo straniero. Se alle due prima elencate società aggiungiamo anche la H3G, gestore del sistema UMTS, di proprietà dei cinesi di Taiwan, la percentuale predetta lievita ulteriormente. Vi è infine la miriade di gestori di telefonia fissa, nata l’indomani del processo di rottura del monopolio SIP, che restringono ulteriormente il peso della Telecom, che comunque rimane unica proprietaria degli impianti di trasmissione per la telefonia tradizionale.
E’ evidente che le decisioni sul futuro di una società di tale rilevanza non possono essere assunte né in base a mere logiche finanziarie di natura speculativa, né in base ad un principio di libertà imprenditoriale che cozzi contro gli interessi nazionali, ma debbono necessariamente passare il vaglio delle autorità di governo e, se necessario, del parlamento, competenti in materia di scelte come quelle enunciate.
In settori economici in cui il processo di liberalizzazione è iniziato ben prima che in quello delle telecomunicazioni, per esempio in quello del trasporto aereo, il governo ha ritenuto doveroso intervenire, al di là di qualsiasi valutazione sulla bontà degli indirizzi assunti, per tutelare un patrimonio, che comunque si giri la frittata, ha pagato il contribuente italiano e che, causa quelle scelte, sta ancora pagando. Allo stesso modo riteniamo che nella vicenda Telecom la politica non può restare alla finestra ed assistere inerte agli esercizi di alchimia finanziaria che a qualche metro dal davanzale si stanno sperimentando in barba ad ogni principio di trasparenza.Ancora una volta vi è il concreto rischio che nei cosiddetti salotti buoni, o nei quartierini secondo i punti di vista, i furbetti di turno preparino l’ennesimo piattino, dimentichi che i progetti messi in cantiere significano anche posti di lavoro e redditi di famiglie, interessi di piccoli risparmiatori che non hanno voce in capitolo e comunque costi per l’intera collettività.

Pensione mon amour: solo un miraggio?




venerdì, 15 set 2006 ore: 18.04

Che quello attuale sia un governo con il cuore che pulsa sinistra è fuori discussione. E non solo per la sua dichiarata collocazione elettorale e le componenti all’interno della sua coalizione, ma per fatti riscontrabili accaduti nei primi cento giorni dal suo insediamento.
A differenza di quanto fece il governo precedente, che durante i primi cento giorni pensò bene di mettersi al lavoro per varare uno straordinario provvedimento di legge per detassare del tutto lasciti ed eredità (i 300 milioni previsti quale limite d’esenzione non furono ritenuti sufficienti ed, alla luce degli spropositati quanto ingiustificati aumenti del costo della vita, non si comprende se per chiaroveggenza dei proponenti o perché, avvezzi a navigar nell’elusione endemica, quegli stessi proponenti era consapevoli che ogni italiano possedeva beni oltre quella ridicola cifra da destinare ai posteri), gli attuali governanti hanno pensato bene di aprire - di fatto ancora niente – il dibattito su come riformare il mercato del lavoro, - su cui ci soffermeremo prossimamente, - e l’aberrante sistema pensionistico varato nel corso della precedente legislatura.
Com’è tristemente noto, il ministro Maroni, - che ci si augura non abbia prima o poi a fare come il suo sodale di partito Calderoli a proposito della vergognosa legge elettorale da lui medesimo ideata e dalla quale, in un inconsueto rigurgito di buon senso, ha preso le distanze (l’insuccesso è sempre orfano, recita un vecchio adagio), - ha pensato bene che per risolvere i gravissimi problemi economici di deficit pubblico era necessario intervenire sul sistema pensionistico, modificando i requisiti minimi di accesso all’assegno di anzianità. Ovviamente poco rilevava che il suo compagno di banco in quel governo, tal Tremonti, delegato all’importantissimo ministero dell’economia imponesse nell’ambito della legge finanziaria, sempre nell’ottica di ridurre il deficit nazionale e con dichiarata osservanza delle direttive comunitarie, ridicoli provvedimenti di condono, con i quali, a prezzo di svendita, si cancellavano annosi e gravissimi reati di evasione fiscale nei confronti di coloro che, effettivamente, avevano contribuito a vestire lo stivale non delle classiche mutande, ma di un osceno e ridottissimo tanga. Nella logica del meglio poco che nulla, quindi, si pensò che l’introitazione di condoni, cartolarizzazioni, sanatorie edilizie ed altre amenità simili avrebbe contribuito a risanare i conti, dimenticando che una sana e seria lotta all’evasione, non solo dichiarata ma effettivamente perseguita, avrebbe prodotto risultati molto più apprezzabili di quelli nei fatti consuntivati.
In questo quadro di fantasiose iniziative, il predetto Maroni giunse alla conclusione che un vigoroso aiuto all’equilibrio dei conti pubblici sarebbe potuto derivare dall’inibizione per legge di andare in pensione a tutti i disgraziati che raggiungevano il 57mo anno di età nel 2008, ancorché titolari di 35 anni di contribuzione. Per costoro, l’accesso al nirvana veniva posticipato al compimento del 60mo anno di età, e sempre che tale traguardo fosse raggiunto nel 2010, poiché, dal 2011, l’età si sarebbe innalzata a 61 anni.
C’è da credere che solo per ipocrisia e non certo per buon gusto, il provvedimento in questione non sia stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana con la dicitura “con l’augurio di un repentino trapasso!”, apposta prima della rituale tiritera sull’obbligo di rispettare e far rispettare la legge, dato che con sfrontatezza da parte degli stessi autori dell’improvvida legge si affermò che i benefici della riforma avrebbero prodotto i loro effetti appena dal 2016.
In buona sostanza con questo provvedimento intere schiere di cittadini, nati tra il 1951 ed il 1953, si sono ritrovati assurdamente penalizzati nell’esercizio di un loro sacrosanto e profumatamente pagato diritto, quantunque coltiveranno la speranza di passare alla storia grazie all’alto contributo versato alla patria e, chissà, magari i loro figli un giorno orgogliosi porteranno a spasso il cane in un luogo loro intitolato,quale “piazza Martiri di Maroni”.
Ma l’ex ministro non ritenne avrebbe potuto guadagnarsi onori ed apprezzamento maggiori se avesse modificato il sistema pensionistico suo e dei suoi amici parlamentari? O come al solito vale il predicare bene e il razzolar malissimo?
Riprendendo il discorso sui nuovi governanti, abbiamo assistito ad una ripresa del dibattito, con interventi traboccanti solidarietà verso gli sfortunati Martiri di Maroni, di Fassino, Prodi, Giordano, Bertinotti e così via, tutti rassicuranti sull’opportunità di una riforma correttiva che ripristini la parità di trattamento dei cittadini senza discriminazioni di sesso, religione, idee politiche e, - sarebbe il caso di aggiungere, - anno di nascita.
Tuttavia, non c’è al momento da farsi grandi illusioni, poiché il nostro è il paese in cui nulla è più definitivo di ciò che è provvisorio, come ci insegna la storia, ed i benpensanti, che alzavano gli scudi all’opposizione al tempo in cui il governo Berlusconi varava l’improvvida riforma, o che promettevano in campagna elettorale la cancellazione tout court della norma incriminata – quest’impegno è persino scritto, nero su bianco, nel programma della sinistra, - sono gli stessi che nell’attuale dibattito o si sono intiepiditi o propongono soluzioni rabberciate che, in ogni caso, sembrano preludere al tradimento degli impegni assunti verso gli elettori.
Noi vigileremo attentamente e come sempre terremo conto dei fatti, che di dichiarazioni e promesse non è mai morto nessuno. In ogni caso, confidiamo, al di là delle manfrine e dei rituali, che questi governanti vogliano esser di parola, poiché, in caso contrario, non riteniamo il paese sia più disposto a dar loro fiducia, secondo il principio che è meglio l’imbroglione ché da lui sai cosa aspettarti.

Riforma Biagi del mercato del lavoro - Una generazione allo sbando


martedì, 19 set 2006 ore: 18.00

Continuando con l’elenco delle urgenze di intervento in capo all’amministrazione Prodi, necessarie a rendere più civile il paese, non può non sottolinearsi come sia ormai improcrastinabile procedere con assoluta priorità alla modifica della riforma Biagi varata dal governo Berlusconi, che, a suo dire, nell’intento di conferire la reclamata flessibilità al mercato del lavoro e favorire l’inserimento dei giovani nel mondo produttivo, - nel quale avevano stentato sino a quel momento a trovare una collocazione, - ha in definitiva generato un mostruoso meccanismo di stabile precariato del quale, come al solito, stanno avvantaggiandosi imprese di tutte le dimensioni e le neonate società di intermediazione di manodopera, sorte come funghi dopo il varo della nuova legge.
E così, mentre un’intera generazione di condannati al precariato dell’esistenza, con suggestive targhette di co.co.co, , contrattisti a progetto, contrattisti di staff leasing ed aberranti neologismi simili, affollano aziende, fabbriche, negozi, pizzerie, ospedali e persino pubblici uffici, percependo retribuzioni ai margini della sussistenza a fronte di una prestazione lavorativa che nulla ha da recriminare a quella di un qualche collega più fortunato, o meglio meno sfortunato, con buona pace dell’etica e del progresso, qualche mentecatto, dissimulando la propria ottusa cecità, continua ad osannare i vantaggi che sono derivati alla modernità ed all’economia dello Stivale dal varo di questa straordinaria riforma.
Che la riforma in questione sia da cestinare senza giudizio d’appello è cosa fin troppo evidente, dato che a fronte di queste forme d’impiego prive della più elementare forma di continuità, non si sono realizzate le tanto sperate condizioni di arricchimento professionale atte a colmare l’eterno gap tra scuola e mondo del lavoro, poiché dopo un primo contratto di precariato spesso non si assiste ad una stabilizzazione di rapporti, ma di regola si procede alla stipulazione di nuovi contratti analoghi ai precedenti con nuovi soggetti, così perpetuando un micidiale manpower revolving, che alla fine abbatterà sì anche la qualità ma sicuramente riduce i costi ed ingrassa i profitti.
Un esempio di questa giostra della carne umana è offerto dagli innumerevoli call center che costellano la penisola: le grandi aziende terziarizzano attività a basso valore aggiunto, come centralini, assistenza post vendita, informazioni, ecc., con significativi risparmi sui bilanci, affidandole a specialisti, non di rado improvvisati, di tali segmenti di business – come si suole ormai dire con ampollosa terminologia esterofila, - che assoldano stuoli di studenti, laureandi, diplomati e specializzati disperati, prestatori a part-time e maturi bisognosi per l’esecuzione di un’attività “facile” ma remunerata in maniera ridicola e comunque senza futuro, dato che gli strumenti graziosamente concessi dal governo precedente rendono ciò perfettamente lecito.
E’ bene subito precisare che chi scrive non ha alcun preconcetto verso i meccanismi di cui si parla, poiché gli stessi, pur se in altra forma e con nomi diversi, sono da tempi remoti utilizzati in parecchi paesi del mondo, proprio per offrire un’opportunità di reddito ai giovani che vogliono realizzare una certa indipendenza economica dalla famiglia d’origine.
Ciò che non è condivisibile e che costituisce un’indubbia patologia del loro funzionamento in Italia è l’uso indiscriminato che di tali meccanismi è consentito. A questo proposito, infatti, andavano fissati limiti credibili di fronte ai quali l’accesso a tale contrattualistica avrebbe dovuto essere inibito. A mero titolo d’esempio, andavano posti limiti alla ripetibilità dei contratti, l’obbligo che gli stessi fossero contenuti nell’ambito di una percentuale limitatissima rispetto al totale della forza dipendente; che fossero rilasciati al termine del periodo attestati di valutazione sull’effettiva acquisizione della professionalità per la quale il contratto era stato stipulato; che l’età del contrattista non dovesse superare un limite prefissato senza eccezione alcuna; che i contratti fossero stipulati solo per esigenze produttive congiunturali o per le quali non fossero già intervenuti contratti a termine di qualsivoglia natura, e così via, in modo da sbarrare la strada ai tanti abusi, più o meno leciti, che il permissivismo della legge medesima ha consentito. Naturalmente i rispetto dei vincoli avrebbe dovuto essere esercitato sotto la stretta sorveglianza di organi ispettivi, peraltro già presenti in ambito locale.
Un altro aspetto su cui varrebbe la pena sviluppare qualche approfondimento è relativo alle ragioni per le quali in Italia il provvedimento è stato accolto con sostanziale indifferenza da parte dei giovani, dato che l’entusiasmo degli industriali non può che comprendersi.
In Francia, dove il governo ha tentato di introdurre una legge simile per la liberalizzazione del marcato del lavoro, abbiamo assistito non solo ad una levata di scudi di politici e sindacati, ma alla protesta delle famiglie ed alle manifestazioni di piazza, non sempre pacifiche, delle categorie sociali colpite, tanto che, dopo un lungo e travagliato braccio di ferro, il governo ha dovuto invertire una vergognosa retromarcia ed accantonare ogni velleità di ammodernare la vita dei suoi giovani concittadini al pari dei loro cugini italiani.
E’ del tutto superfluo rammentare che il civismo, la coscienza sociale, il senso patrio d’appartenenza e quell’insieme di valori che costituiscono l’essenza del vero cittadino passano attraverso la capacità dello stato di garantire alla collettività un livello d’esistenza adeguato, che garantisca dignità e, per quanto possibile, certezze di visibilità futura. Tali obiettivi si realizzano sì con l’impegno di una classe dirigente seria, responsabile e capace di interpretare i bisogni del contesto in cui è chiamata ad operare e di cui è l’espressione delegata, ma altresì con volontà di creare condizioni di benessere comune cui ciascuno concorre attraverso il lavoro e la dignità dello stesso.
Sino a quando nella mente di qualche governante rimarrà la convinzione che democrazia sia da intendere come lo strumento per realizzare le esigenze di un élite ai danni delle reali necessità della stragrande maggioranza dei cittadini e che la felicità del popolo si consegue con un’automobile, un telefono cellulare, un lavoretto precario e tante cambiali, allora non v’è speranza alcuna.
Osannare l’accesso al consumismo sfrenato come demiurgo delle afflizioni umane, mezzo di promozione sociale e non creare, contemporaneamente, le condizioni affinché questo dio ancorché falso divenga effettivamente accessibile, significa solo propagandare nuove forme di oppio per il popolo e gettare i semi nefasti per far germogliare nel tempo nuovi e non sempre incruenti conflitti tra generazioni e ceti sociali.
Oggigiorno va di moda parlare di sviluppo sostenibile, di consumi sostenibili e così via, così che il “sostenibile” sembra essere divenuto una condizione ineludibile dell’azione umana. A questa stregua e se ciò è fondato, sarà opportuno avviare un dibattito sul mercato sostenibile del lavoro, in quanto causa l’attuale penuria d’impiego non è più possibile continuare a guardare ad un futuro senza famiglie, senza lavoro, senza casa, senza pensione e con l’arrogante presenza di un’élite dominante, che continua a tenerti ai margini di un’esistenza dignitosa e che, sorpresa a barare, alle giuste proteste si permette persino di ribaltare l’accusa tacciandoti di ignavia o di incapacità a sostenere i doverosi sacrifici di cui è cosparsa la via della redenzione.
Al di là di queste chiacchiere tese a tutelare la propria posizione di rendita una cosa è certa: i giovani esigono un lavoro che sia tale, non occupazione precaria e mal pagata che mortifica la loro dignità di uomini e di cittadini; un lavoro che permetta loro di costruirsi un futuro, come hanno fatto i loro padri, magari con sacrifici maggiori, ma nella certezza che il domani offre ancora opportunità e non unicamente solitudine e disperazione.

Telefoni, furbi e spioni





venerdì, 22 set 2006 ore: 15.41
E così l’affare s’ingrossa. Dopo il trhiller lungi dall’essere concluso dello scorporo TIM e dei buchi nel bilancio, la vicenda Telecom s’arricchisce di ulteriori elementi di giallo. E sottolineiamo ulteriori, dato che il coinvolgimento dell’azienda telefonica nella nota vicenda delle intercettazioni telefoniche per mano del suo ex responsabile della sicurezza, Giuliano Tavaroli, e dei suoi sodali, Emanuele Cipriani e Marco Mancini, l’uno titolare della “Polis distinto” e vice direttore del Sismi l’altro, era ben nota, ma mancavano ai magistrati che indagano sulla complessa vicenda gli elementi certi per spiccare i mandati di cattura contro la banda degli spioni, com’è stata ribattezzata la collaborazione criminosa dei tre personaggi.La vicenda è ancora molto lontana dall’aver individuato i tasselli di un puzzle assai intricato, nella cui composizione vi è persino la morte ancora tutta da chiarire di Adamo Bove, ex responsabile della sicurezza TIM, che aveva fornito poco prima di morire ai magistrati che indagano sul sequestro di Abu Omar ad opera di agenti CIA, con la copertura dei nostri servizi segreti, i numeri delle utenze coperte in uso ai nostri 007.In buona sostanza il giallo è intricatissimo e l’arresto di Cipriani, Mancini e Tavaroli, peraltro implicati nel Laziogate ai danni di Marrazzo e della Mussolini, ha portato alla luce uno sconvolgente sistema di spionaggio, intercettazioni telefoniche e schedature al confronto del quale i casi SIFAR degli anni ’60 e le schedature FIAT degli anni ’70 appaiono come innocenti giochi di società. In tutto questo il ruolo di Tronchetti Provera, a cui Tavaroli rispondeva direttamente ed esclusivamente, dato che per ammissione di Armando Focaroli, responsabile dei servizi auditing di Telecom, a lui era riservato l’accesso indiscriminato ai sistemi di sicurezza della società telefonica, nell’ambito della quale poteva assumere le iniziative da lui ritenute più opportune, al di fuori di qualsiasi procedura e senza obbligo di motivazione, rimane ancora da definire, visto che delle iniziative e dell’operato del suo stretto collaboratore non poteva essere completamente all’oscuro.Non poteva essere altresì all’oscuro degli oltre 20 milioni di euro che il Tavaroli aveva versato alla Polis Distinto in circa sette anni di stretta collaborazione tra gli apparati di sicurezza della Pirelli/Telecom e questa società d’investigazione privata, dato che il denaro usciva dalle casse delle sue società e sui bilanci ve ne doveva essere evidenza, visto che non si trattava di somme irrisorie.Nel dicembre del 2004, inoltre, il Tavaroli, che tutto appare alla luce degli intrighi tranne che uno sprovveduto, rilasciò una corposa intervista a L’Espresso con la quale, oltre a rivelare l’esistenza di un vero e proprio centro segreto di ascolto e di intercettazione con annesso archivio, dal nome Amanda, e di cui era deus ex machina, magnificava la quantità e la qualità dei dati immagazzinati, quantunque omettendo ogni riferimento all’uso che degli stessi si faceva e si intendesse fare.E’ evidente che tali dichiarazioni, - da escludersi siano state rilasciate in sussistenza di un patologico delirio d’onnipotenza dell’interessato, - costituivano un probabile messaggio per chi avesse orecchi e dovesse intendere, dato che l’interessato, godendo di un giro di conoscenze e presunte protezioni di altissimo livello, aveva sicuramente valutato le conseguenze che da quelle serafiche ammissioni avrebbero potuto derivare.Anche in questa circostanza, Tronchetti Provera si affretto a precisare di essere completamente all’oscuro dell’esistenza delle cose rese pubbliche dal suo stretto collaboratore, che se lascia dubbiosi in ordine alle responsabilità a lui in capo sull’obbligo di vigilare dell’operato del sottoposto, specialmente per il ruolo da questi ricoperto, non può non destare più di qualche perplessità l’implicita ammissione di non sapere cosa ti accade in casa, in considerazione del fatto che è molto improbabile che il Tavaroli avesse messo su le strutture di cui si vantava in una notte o nei ritagli di tempo, magari a conclusione della normale giornata lavorativa.Il gip Paolo Belsito ha comunque dichiarato “Non si può dubitare che, nella stragrande maggioranza dei casi, le investigazioni avessero come destinatario, qualcuno posto al di sopra di Tavaroli”, che lascia preludere quale direzione abbiano preso le indagini per identificare eventuali mandati o cupole.Gli sviluppi assolutamente certi che sono da attendersi dalla vicenda crediamo serviranno a chiarire parecchie zone ancora in ombra, quantunque non ci si debbano fare eccessive illusioni sulla possibilità che della spy story alla fine ci vengano rivelati tutti i dettagli: com’è nella tradizione di questo tipo di indagini e non sappiamo in virtù di quale giustificata necessità, i nomi dei politici contenuti negli archivi della triade, per esempio, sono già stati secretati, mentre è noto che vi compaiano i nomi di Geronzi, Gnutti, Benetton, De Benedetti e tantissimi altri, noti e meno noti, a cui tale ossequiosa riservatezza non è stata concessa. Per quanto ci riguarda, la nostra attenzione alla questione rimane alta non tanto per l’altisonanza dei nomi coinvolti, sia in qualità di autori dei reati che in quanto vittime dei reati medesimi, quanto per il significato che vicende come queste assumono nell’ambito del nostro sistema democratico, che giorno dopo giorno dimostra come l’infezione della corruzione, del mal costume, del ricatto, della fragilità dei controlli è ormai divenuta una metastasi che avvelena l’intera convivenza sociale, con scarse, se non nulle, probabilità di guarigione e dove la consolidata prassi di comminare tiepidi castighi non è deterrente, ma poderoso stimolo alla proliferazione di comportamenti emulativi.