venerdì, maggio 25, 2007

Sciopero e convivenza civile


Venerdì, 25 maggio 2007
Stupisce nel leggere ogni tanto qualche notizia di stampa che riferisce lo sdegno di chi, sorpreso da uno sciopero dei trasporti, non esita ad inveire contro l’inciviltà degli scioperanti e reclama un giro di vite repressivo.
In verità la sorpresa è maggiore quando questo sdegno affiora in giornali notoriamente liberisti e progressisti, poiché la stampa più conservatrice non ha mai fatto mistero di ritenere il ricorso all’astensione dal lavoro quale forma di protesta nei confronti dell’impresa una manifestazione ai margini della liceità, oltre che della civiltà comportamentale.
A questo proposito va dato atto della coerenza con la quale i colleghi di Libero o de il Giornale non abbiano scioperato neanche in occasione delle manifestazioni organizzate dal sindacato giornalisti nell’ambito della vertenza per il rinnovo del contratto della categoria, scaduto da oltre due anni, quantunque non si comprenda attraverso quale sistema di lotta alternativa intenderebbero ottenere dai rispettivi datori di lavoro il rinnovo da questi ultimi negato.
Orbene, per quanto non condivisibile, la posizione di quei giornalisti va rispettata, dato che in democrazia ad un sacrosanto diritto di sciopero si contrappone un altrettanto sacrosanto diritto di non scioperare. Ciò che invece non è condivisibile è il giudizio di inammissibilità dell’esercizio delle libertà altrui cui propendono alternativamente i sostenitori ed i contrari allo sciopero.
Né ci sembra giustificato il livore verbale con cui chi subisce dallo sciopero un disagio, assurge saccentemente a censore dei comportamenti altrui e stigmatizza con arrogante superiorità che i disagi da lui patiti, magari perché in viaggio di lavoro, sono certamente più pesanti di quanto non siano quelli sostenuti da chi invece viaggia per diporto.
Che lo sciopero, quale strumento di lotta dei lavoratori per il conseguimento di condizioni lavorative migliori, sia uno strumento di evidente disagio per quanti utilizzano il prodotto da questi reso è un dato di fatto. Anzi, uno sciopero che non determinasse ricadute economiche sul datore di lavoro e che, attraverso quei disagi, non fosse in grado di “sensibilizzare” la pubblica opinione non avrebbe di per sé alcun senso.
Appare del tutto immotivata, se non di pessimo gusto, la considerazione che in epoca di economia globale e di forte competizione lo sciopero finisce non solo per danneggiare l’utenza ma anche per favorire i competitori terzi dei Paesi emergenti che hanno ben diversi indici di produttività e sviluppo, - grazie anche alla mancanza di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, aggiungeremo noi seguendo questo ragionamento. Dunque, secondo questi tribuni della difesa del loro particulare, il terrore che l’emigrato di turno ci porti via il lavoro dovrebbe indurci al buon senso di sopportare qualunque angheria, - sulla scorta di questa visione tutto sarebbe lecito da parte dei cosiddetti padroni, - o salari ai margini della sussistenza o condizioni di lavoro non raramente terzomondiste.
A questi egoismi palesemente un po’ ottusi desidereremmo ricordare che è proprio in ragione di questi approcci ideologici che ogni giorno piangiamo decine di morti nei cantieri, dove le regole minime di prevenzione infortuni sono disattese e trovano occupazione intere comunità di diseredati extracomunitari incapaci di ribellarsi al ricatto padronale cui, da tempo, non si sono piegati i lavoratori italiani. Né appare strano ai predetti egoisti che, nonostante l’impiego di questa manodopera a salari da fame e senza onerose tutele, i prezzi degli immobili siano comunque lievitati oltre ogni umana tolleranza, ad esclusivo beneficio delle imprese di costruzione.
Lette al contrario le argomentazioni di questi sedicenti liberisti dissimulano il disprezzo per i bisogni degli altri, senza distinzione alcuna, che anzi debbono essere sacrificati all’altare del dio profitto, motore dello sviluppo.
Allora se questi sono i risultati che ci dovrebbero rendere degni della convivenza civile, come qualcuno ha scritto, non se ne abbia a male il lettore se gli dichiariamo sin da esso la nostra scelta a vivere in una indegnità della quale ci sentiamo fieri e che rifiuta l'omologazione come lasciapassare per la civiltà.
A prescindere da queste considerazioni, che certamente sono figlie di una matrice ideologica ben connotata, va per equità riconosciuto l’abuso che in alcune circostanze si fa dello sciopero, anche se da qualche decennio la caduta delle ideologie ci ha liberato dalle tante manifestazioni di protesta a favore di questa o quella remota etnia in lotta per l’indipendenza o per rivendicare la democrazia, confinando lo sciopero in un recinto molto più confacente l’effettiva rivendicazione di aspetti legati alla realtà del lavoro. Ciò non significa che non vi siano ugualmente abusi o strumentalizzazioni di altra natura; quantunque la ricerca del verificarsi degli eventi vada condotta alle origini delle cose e non deve potersi dedurre semplicisticamente dall’osservazione degli effetti.
Nel caso degli scioperi dei trasporti, ancorché inveire contro piloti od assistenti di volo in astensione di protesta, sarebbe più opportuno un approfondimento sulle modalità gestionali della nostra Compagnia di Bandiera, alla guida della quale si sono succeduti negli anni boiardi di stato, galoppini di partito, manager improvvisati, fiancheggiatori del sindacato, e così via il cui obiettivo, come dimostrato dai risultati, non è stata la buona gestione dell’azienda, ma la massimizzazione del loro personale tornaconto, con tanto di compromessi, accordi sottobanco, connivenze e favori alla politica in carica. Questo esemplare modo di gestire, - non certamente limitato al settore d’esempio, ma comune a tutte le realtà nelle quali il confine tra interesse imprenditoriale privato ed interesse collettivo si è palesato assai labile, - ha generato categorie ed interessi corporativi notevoli con conseguenti rivendicazioni a tutto campo, all’insegna del tutto è lecito. Basti pensare che sino a qualche anno fa le lavoratrici dell’aria godevano di un mensile diritto al riposo durante il ciclo mestruale (sic!), riposo non previsto per qualunque lavoratrice in altro settore d’attività.
Assodato, dunque, che lo sciopero produce inevitabilmente disagi e che questi disagi sono certamente tanto più tangibili quanto più il settore in cui si verifica eroghi servizi essenziali alla collettività, certamente è necessario un intervento che disciplini le modalità attraverso le quali è possibile minimizzarne il cosiddetto costo sociale, con tanto di sanzioni, anche dure ed estreme, nei confronti di riottosi o trasgressori di queste regole; ma ciò nulla toglie alla legittimità del diritto medesimo ed alla libertà democratica con quale deve esserne garantito l’esercizio.
Che questa regolamentazione debba prevedere che per tutelare i diritti dell’utenza, per esempio, nel trasporto aereo lo sciopero possa essere effettuato dalle ore ventiquattro alle sei del mattino, quando il traffico aereo è del tutto fermo e con buona pace di quei colleghi che lamentano disagi indicibili causa gli scioperi in cui ultimamente sono incappati, ci parrebbe del tutto suggestivo.
La democrazia, al di là degli idealismi, impone i suoi costi e se qualche disagio deve essere sopportato in nome della sua difesa, che ben venga. Meglio un disagio e la liberta di poterne denunciare onere e consistenza piuttosto che la sua assenza in una società del silenzio.

martedì, maggio 22, 2007

Democrazia e riforma elettorale


Martedì, 22 maggio 2007
Tra i temi caldi del confronto politico in atto spicca quello della riforma del sistema elettorale, riforma resasi urgente dopo i cambiamenti introdotti dalle precedenti norme approvate con il governo Berlusconi nella passata legislatura.
Come è prassi, quando le forze politiche sono chiamate a ripensare i meccanismi attraverso i quali si legittima la rappresentanza parlamentare, il dibattito è divenuto assai acceso, poiché il varo della nuova legge finirà certamente per modificare il peso dei partiti e le rispettive capacità di influenza, oltre che gli equilibri di potere nell’ambito delle singole aggregazioni.
Chi si fosse pertanto illuso che l’esigenza di un sistema elettorale nuovo abbia a cuore un sostanziale riavvicinamento della politica al cittadino ha di certo sbagliato le previsioni, in quanto tale obiettivo non sarebbe che incidentale rispetto alla finalità primaria di ridisegnare i criteri di rappresentatività a svantaggio delle minoranze più deboli ed a vantaggio di chi effettivamente detiene maggio potere all’interno dei partiti di maggioranza.
Un assaggio di questa propensione è stato offerto dalla legge in atto, che ha conferito ai vertici di partito il potere di stilare la nomenklatura da presentare al corpo elettorale: non più candidati eletti con le preferenze degli elettori, ma elettori chiamati ad esprimere il loro consenso direttamente ai partiti, che a loro volta hanno predisposto una graduatoria degli eleggibili in base a criteri non supportati da alcuna effettiva capacità di controllo del popolo sovrano.
Con questo meccanismo si è ottenuta una sorta di fidelizzazione coatta del candidato al vertice del partito, cui sarebbe automaticamente riservato diritto di procrastinare la carriera politica dei fedelissimi o di stroncare quella dei dissenzienti dalla sua linea.
Tutto ciò ci sembrerebbe una chiara contraddizione del principio stesso di democrazia, nella quale non solo dovrebbe vigere un principio di confronto continuo tra i partiti, ma dovrebbe esser viva la dialettica all’interno degli stessi, nella considerazione imprescindibile che ogni membro di partito è portatore delle istanze e degli interessi dei suoi rappresentati e, pertanto, non deve mortificare queste prerogative facendosi condizionare da un vertice che con ogni probabilità non lo rimetterebbe più in lista a causa dell' espresso dissenso dalla sua linea politica.
Una nuova riforma elettorale dovrebbe dunque passare anche attraverso una democratizzazione della vita interna dei partiti, con lo scopo di conferire la necessaria garanzia di indipendenza ai suoi membri. Per contro, abbiamo esempi di partiti con vertici autoreferenziali, che occasionalmente indicono i previsti congressi di confronto su linea politica e leadership.
Sarebbe pertanto auspicabile che ogni partito ricorresse alle cosiddette primarie, così da dare ai propri iscritti un democratico strumento di individuazione delle candidature di maggior peso da proporre poi al vaglio del corpo elettorale.
Un altro aspetto con cui la riforma del sistema elettorale dovrà confrontarsi è l’eccessiva frammentazione della rappresentanza partitica. Al di là della questione del legittimo diritto a costituire movimenti politici che aspirano a giocare un ruolo nelle determinazione delle scelte politiche del governo del Paese, vi è un problema di governabilità e di stabilità di governo che non può più essere eluso. Partiti dal peso del tutto trascurabile sono oggi in grado di condizionare la sopravvivenza di intere coalizioni, imponendo scelte che, in quanto espressione di una sparuta minoranza, non sempre vanno nella direzione dell’interesse collettivo.
In uno scenario complesso nel quale l’esigenza di continuità è requisito essenziale per la realizzazione di progetti e riforme di lungo respiro, questi partiti devono in qualche modo essere messi in condizione di limitare la loro capacità di condizionare, - o di ricattare, come accade in qualche caso, - la stabilità del sistema. E allora urgente individuare un meccanismo di soglia al di sotto del quale a questi partiti non deve essere consentito l’accesso in parlamento, in modo da favorire l’aggregazione tra piccole componenti, spesso del tutto similari, ma divise esclusivamente da simboli diversi o da campanilistiche radicazioni territoriali. La convivenza è in qualche misura anche compromesso ed è quindi legittimo ritenere che partiti piccoli si debbano adeguare a queste regole.
Non è pensabile che in un paese evoluto al già noto Partito dei Pensionati si affianchino quello delle Ballerine o dei Camionisti, per quanto rappresentativi di categorie socialmente numerose. Questi movimenti, ancorché non vogliano rimanere delle lobby con adeguato peso, qualora intendano entrare in maniera diretta nello scenario dell’esercizio della politica, debbono sapere che vi è una soglia minima, ma significativa, al di sotto della quale detto accesso non è consentito, dato che la democrazia non può degradarsi a palcoscenico sregolato di istanze sì rispettabili, ma comunque particolari, il cui interesse non sia condiviso da una quota significativa degli elettori.
Riamane infine la questione del turno unico o del doppio turno sul quale il dibattito le posizioni delle varie parti in causa appaiono estremamente varie.
A prescindere dalle sofisticate disquisizioni sulla scelta del metodo francese o tedesco o spagnolo, riteniamo il doppio turno, con il secondo di ballottaggio tra i due partiti o le colazioni che abbiano ottenuto i maggiori consensi senza superare il 50% dei voti espressi, quello che meglio risponde all’esigenza di rinforzare la stabilità dei governi, in quanto costringe l’elettorato dei partiti e delle coalizioni non ammesse al secondo turno a schierarsi a favore di uno dei due contendenti in ballottaggio e, dunque, a consolidarne il successo finale.
In questo quadro d’ipotesi, sarebbe auspicabile venisse richiesto con le nuove norme che ogni partito o coalizione in gioco esprimesse un leader candidato alla presidenza del governo in caso di vittoria, inamovibile per tutta la durata del mandato, pena il ritorno alle urne, e così legittimato dal voto popolare. Ciò accantonerebbe qualsiasi ipotesi di presidenzialismo caldeggiata da qualcuno, che nel nostro Paese, contraddistinto da debole senso democratico, potrebbe innescare pericolosi desideri di deriva autoritaria in coloro che in tal maniera dovessero essere eletti.
Non resta che augurarci che il governo attuale esca dalla ridda delle ipotesi e ben presto si appresti a formulare una proposta al parlamento su un’ipotesi di riforma seria, e soprattutto duratura, del sistema elettorale, che permetta di giungere per tempo alle prossime elezioni con uno strumento di effettiva e rigenerata democrazia, - dati i tempi lunghi di approvazione che sono necessari per provvedimenti di legge di questa natura. Qualunque sia in ogni caso la proposta che verrà approvata, confidiamo vengano gettate le basi per ripristinare il rapporto di sana corrispondenza tra paese legale e quello legale, rapporto che oggi sembra vivere la sua peggiore esperienza dalla fondazione della repubblica.

giovedì, maggio 17, 2007

I mandarini del terzo millennio



Giovedì, 17 maggio 2007

Nonostante si stiano vivendo gli albori del terzo millennio e giganteschi passi avanti abbia fatto l’uomo in termini di scoperte e conoscenze, fitto rimane ancora il mistero sulle origini del genere umano. La scienza in proposito tante supposizioni ha fatto, ma la chiave primordiale è ancora lungi dall’essere individuata.
Chi scrive un po’ per convinzione religiosa, un po’ per romanticismo, preferisce in ogni caso la tesi secondo cui il buon Dio, forse stanco di aggirarsi per l’universo con il codazzo di angeli e cherubini, per crearsi qualche stringente impegno, decise un bel giorno di cimentarsi nella creazione dell’uomo, probabilmente ignaro delle sciagure e degli affanni che questo avrebbe provocato a se stesso ed a Lui per primo.
Ci piace però immaginare il Vecchio chino sulla mota ed intento a far palle di fango e gioire alla trasformazione delle stesse in umani ignudi e infreddoliti, dopo averci alitato sopra.
Certo, com’è esperienza di tutti gli inventori, non tutte le palle di fango si saranno trasformate in umani secondo le attese. Anzi è probabile che di tentativi a vuoto ne avrà sperimentati tanti prima di arrivare al perfezionamento della tecnica creativa.
C’è però il triste presentimento che scarti di lavorazione e prototipi imperfetti non siano finiti al macero, ma che siano stati immessi in circolazione e, data la loro natura, abbiano trovato rifugio nei palazzi della politica, luogo loro più congeniale,.
Sì, perché dopo la lettura negli scorsi giorni del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, La Casta, in cui vengono elencati con precisione e dovizia di particolari i privilegi che la classe politica si è arrogata nel corso degli anni in questa Italietta di furbi, saltimbanchi, onesti simulati e ladri dissimulati, ogni dubbio sul fango che alligna nei santuari del potere è definitivamente caduto, confortato – ma sarebbe meglio dire sconfortato, - dai dati di fatto circostanziati dai due citati.
La lettura del libro disorienta realmente anche i più disillusi, poiché tale e tanta è la quantità delle ingiustizie in essere a danno del cittadino comune, che vien da chiedersi se ormai andare a votare non sia solo un macabro rituale con il quale ciascuno si sceglie il boia.
Si apprende infatti che i politici, in disprezzo al rigore tanto predicato ai cittadini, oltre a retribuzioni da nababbi, godono di auto con autista, con relativo lavaggio, rimessaggio (pelle di daino inclusa) e telepass; di vacanze in posti ameni al costo di un letto nell’ostello della gioventù; di treni ed aerei gratuiti, cinema gratuiti, mense principesche a prezzi da esproprio proletario, parrucchieri gratuiti (per gli uomini) e rimborso spese per la mise (per le donne), pensioni scandalose, si badi!, dopo appena una legislatura, trattamenti previdenziali per il compagno/la compagna (non legittimo consorte!) da fare invidia ad un marito od una moglie in servizio permanente effettivo, di contributo affitto e di contributo di disagiata sede, di rimborso per spese telefoniche e di rimborso degli effetti personali dichiarati rubati (basta dichiarare, direttamente al competente ufficio parlamentare), di sussidio milionario per portaborse veri o finti.
La lista delle inimmaginabili nefandezze è talmente lunga che, per riportarla tutta, sarebbe necessario ritrascrivere il volume già citato, privando peraltro i curiosi del macabro piacere dell’approfondimento.
Per nostro conto ciò che sconcerta è il coraggio con il quale questa casta di mandarini, - e non bramini come Stella e Rizzo definiscono i ribaldi, - si presenti ancora nelle pubbliche piazze e nei talk show di giullari compiacenti a menare il torrone sul risanamento, il rigore, i tagli alla spesa sociale, il costo della sanità, le pensioni (degli altri), l’istruzione, e così via, come se le migliai di miliardi che rappresentano il costo del loro parassitario mantenimento e dei loro gadget fosse avulso dalla contabilizzazione nella spesa pubblica e non provenisse dalle tasche di quegli ebeti spettatori che molto spesso, anziché dar di stomaco davanti alla sceneggiata, dissennatamente prendono per oro colato le dichiarazioni dei loro idoli e corrono a praticare l’ennesimo buco nella cintura dei calzoni.
A tal proposito, mai mente fu più illuminata di quella di Erasmo da Rotterdam quando, nell’elogiar la follia, rammentava che senza una buona dose di pazzia gli uomini non riuscirebbero a sopravvivere.
In epoche remote il sovrano era tale per volontà di Dio e grazia del popolo. Oggigiorno, in cui la democrazia dovrebbe aver mutato le forme di governo, quella nostrana ci sembra abbia perpetuato l’origine divina dei governanti, che spesso si pongono protervamente al di sopra della legge comunemente applicabile a qualsiasi cittadino a guisa degli antichi sovrani, e salvaguardato la formula della grazia del popolo, dato che fintamente si va a votare esclusivamente per legittimare quanto è già stato deciso nella stanze dei partiti (si guardi alla legge elettorale Calderoli, da lui stesso definita senza ritegno alcuno una porcata).
Sicché, invece di scendere in strada con zappe e forconi per metter fine al drenaggio quotidiano di linfa vitale cui i profeti del rigore lo sottopone, il popolo beota applaude, partecipa, si compenetra, incapace di razionalizzare che quando si parla di sacrifici ci si riferisce ai suoi, non certo a quelli della casta che, con falso dolore, ne reclama la necessità.
Si guardi alla vicenda delle pensioni, giusto per citare un tema sul quale converge la sensibilità della casta dei mandarini. Chi si appella alla necessità di innalzare l’età per accedere alla tanto meritata quiescenza o all’esigenza di ridurre i relativi assegni, con la nobile motivazione di dover garantire una pensione anche ai giovani, è colui che per primo ricorre al lavoro nero o sbandiera i benefici occupazionali della vergognosa legge Biagi, che perpetuando il precariato ha di fatto sancito, per gli stessi giovani, l’impossibilità definitiva del diritto ad una vecchia dignitosa. Rimane il motivato sospetto che la necessità dei tagli reclamati risponda più all’esigenza di non compromettere la procrastinazione dei propri privilegi che non la preoccupazione per il destino delle nuove generazioni.
Ovviamente non sarebbe lecito pensare che tutto il popolo vada in giro con le classiche melanzane sugli occhi, dato che ai beoti veri (tanti) vanno a sommarsi gli ignavi (meno) e gli opportunisti (pochi). Questi ultimi son coloro che occupando posticini di sottogoverno, godendo di un’occupazione frutto di clientela, svolgendo attività border line con la benevola protezione del mandarino di turno, e così via, costituiscono la schiera dei cortigiani interessati al mantenimento di una situazione di caos e d’ingiustizia, nella consapevolezza che la mediocrità di cui sono portatori riserberebbe loro ben altro destino qualora implodesse il regime nel quale invece prosperano ed allignano.
Costoro sono quelli che ad ogni occasione scendono in pista per la difesa dell’ordine costituito, convinti che il sistema mai cambierà e che, dunque, per sopravvivere non rimane che difendere il mandarino, magari coprendo di contumelie chi si azzarda a denunciarne il malcostume.
C’è infine un’altra categoria, costituita da coloro che, quantunque con le pezze sul fondo schiena, sono sinceramente non solo incapaci di vedere al di là del loro naso ma son sempre pronti a reggere il bordone a chi loro la racconta. Pervasi da esemplare fideismo, questi novelli Tafazzi, amano martellarsi stoicamente i testicoli e non mettono mai in dubbio l’onestà intellettuale dei loro politici di riferimento.
Con un’Italia così composta, in cui si è dichiarata guerra agli stupefacenti, ma quotidianamente si ammannisce al popolo qualche tonnellata gratuita di oppio per istupidirne la mente e l’orgoglio, le speranze che la casta faccia ammenda sono assai flebili.
Noi che amiamo coltivare qualche illusione di speranza, nell’attesa che comunque tutti i nodi arrivino al pettine, esortiamo gli onorevoli papponi, - con tante scuse per una categoria che si guadagna da vivere in maniera certamente discutibile, ma senza ammiccamenti e ipocrisie, - di smettetela di parlarci di etica, di darci lezioni di correttezza e di elencarci quotidianamente i disastri del bilancio pubblico. Che comincino lor per primi a dare esempio, recidendo la prassi ignobile di sfruttare il lavoro di tanti disgraziati malpagati ed in nero, reclutati per portar borse sicuramente prestigiose, ma anche loro senza un lavoro regolare, ed avviando la campagna di moralizzazione di cui il Paese ha tanto bisogno.
Qualche decennio fa, all’epoca della Balena Bianca, qualche moralista politico della prima repubblica, aveva coniato lo slogan secondo il quale gli Italiani erano accusati di vivere al disopra delle loro possibilità. Alla luce dei dati di fatto, sembra evidente come tale accusa fosse riferita non ai comuni cittadini, ma a coloro che si annidavano e si annidano nei palazzi del potere, - per quanto sia cosa risaputa che è comodo far di tutta l’erba una fascina.
Per contro, qualora chi denuncia gli stomachevoli privilegi di cui godono avesse preso abbagli, si abbia il coraggio di insorgere e chiedere che venga perseguito nelle giuste sedi per aver diffuso false notizie atte a turbare l’ordine pubblico, oltre ad aver diffamato la rispettabilità e la buona reputazione di integerrimi servitori dello stato.
Se invece quanto denunciato corrispondesse a verità, come temiamo, allora si abbia almeno il coraggio della vergogna e, in un rigurgito d’onore perso, si proceda magari alla nomina di un comitato di saggi, estranei alla casta, che faccia il punto della situazione e proponga la dovuta pulizia, così da dare al Paese il senso di un pentimento che, anche se tardivo, comunque sarebbe d’apprezzare.Comunque vale ricordare le profetiche parole del Vangelo: fango foste, da fango avete vissuto e irrimediabilmente fango ritornerete.

giovedì, maggio 10, 2007

Riforma pensioni – L’ennesima farsa del governo


Giovedì, 10 maggio 2007

Alla fine il tanto atteso incontro governo sindacati è avvenuto, ma in un clima che di collaborazione tra le parti al tavolo non ne ha visto l’ombra, dato che, contrariamente a quanto da mesi si andava sbandierando, Padoa Schioppa, incaricato di condurre l’incontro in nome dell’esecutivo, ha pensato bene di sbattere la scarpa sul podio emulando Kruscev alla orami mitica assemblea dell’ONU.
E sì, perché dopo mesi di schermaglie, abboccamenti, allusioni, il ministro dell’economia ha ribadito quella che sembrava una posizione improponibile o la posizione per la quale il tavolo stesso della concertazione era stato allestito: nessuna cancellazione di scalone sull’età pensionabile introdotto dalla riforma Maroni senza una contestuale revisione dei coefficienti di rendimento introdotti dalla riforma Dini. Come dire, è ipotizzabile di concedere qualcosa da una parte se si riesce a togliere da un’altra.
Ovviamente, le organizzazioni sindacali, pur se con diversi toni, hanno preso immediatamente le distanze da dichiarazioni che, per la natura e la pesantezza, oltre che per la valenza chiaramente ricattatoria, non solo non sembrano lasciare alcun margine alla discussione ma contraddicono in modo netto ed inequivoco lo stesso programma che l’attuale coalizione ha portato al governo del Paese. Né va dimenticato che la questione pensioni fu stralciata dall’ultima finanziaria e rimandata ad una trattativa tra le parti sociali, stanti i punti di dissenso riesumati par pari da Padoa Schippa.
Il ministro dell’economia non è certo uno sprovveduto e, dunque, se queste dichiarazioni ha fatto all’apertura del tavolo di trattativa ben le avrà concordate con il presidente Prodi, da cui avrà ottenuto tutte le garanzie necessarie atte a tutelare la sua credibilità.
Appare perciò assai suggestivo, per non dire privo della minima credibilità, che Prodi, davanti alle inferocite dichiarazioni di protesta del sindacato ed alle ennesime prese di distanza di buona parte della coalizione che lo regge, abbia immediatamente cercato di buttare acqua sul fuoco con un enigmatico “non ci sono contraddizioni all’interno del Governo”, quasi che le dichiarazioni di Padoa Schioppa non fossero state rilasciate qualche ora prima, ma recuperate dalla cineteca di palazzo Chigi, e il risentito dissenso dei partiti di Giordano e Diliberto fosse un abbaglio degli Italiani.
Il valente capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, a cui probabilmente va il merito di aver profetizzato la coglionaggine di chi ha affidato a questa coalizione le proprie speranze di una migliore equità sociale, ha ultimamente rincarato la dose, attribuendo tendenziale, - ed aggiungiamo noi, inguaribile, - demenzialità a coloro che voteranno ancora per questa sinistra alle imminenti amministrative di domenica e lunedì prossimi. Ed il rischio è che abbia nuovamente ragione, per due ordini di motivi tra loro complementari.
Il primo motivo è nella evidente smentita di un impegno assunto con il popolo sovrano, a cui si è promesso di intervenire per correggere una norma iniqua e perversa, voluta da un dirottatore improvvisato, che aumenta l’età di quiescenza in una notte e genera gravissime disparità di trattamento tra i cittadini, oltre a modificare in peggio le norme di un contratto sociale in essere con tutti coloro che per anni hanno versato contributi nella “certezza” di principi di diritto.
La seconda ragione è di ordine politico, di cui stupisce come non se ne afferri la gravità della probabile ricaduta. La prossima tornata elettorale vede, infatti, il Paese sull’orlo di un collasso di fiducia, avvilito dal maglio di un risanamento voluto a tutti i costi a tambur battente e pagato lacrime e sangue in termini di occupazione, di capacità d’acquisto, di balzelli e sacrifici. Che questo crollo di fiducia venga adesso rinforzato da dichiarazioni persino di tradimento di uno degli impegni prioritari previsti nel programma di governo appare un’azione palesemente suicida.
Avevamo preconizzato che un tradimento delle aspettative della gente sarebbe stato l’epitaffio con cui questo governo avrebbe celebrato la sua fine ed avrebbe peraltro inscritto un’ipoteca di lungo termine alle ambizioni di riproporsi alla guida del Paese, ma evidentemente Prodi e sodali, - pur dovendo registrare le dure ma corrette prese di posizioni della cosiddetta sinistra radicale, - devono aver fatto valutazioni che sfuggono al comune senso della logica.
A noi duole dover constatare che il Cavaliere di Arcore ancora una volta ci ha azzeccato almeno sul concetto, ché la demenzialità sospettata è probabile che più che degli elettori sia degli eletti, ai quali più che la soddisfazione e la gratitudine di chi li ha insediati nei palazzi d’inverno sta a cuore la fornitura, con i soldi dei contribuenti, delle pelli di daino agli ex membri della Corte Costituzionale o la mensa a prezzi da esproprio proletario degli strapagati membri del parlamento, sempre a spese del contribuente. Che ci sia tanta gente che porti a casa un pezzo di pane onesto, alzandosi quando fuori è ancora buio e magari in bicicletta, sotto la pioggia, vada a sciropparsi otto ore di duro lavoro in catena di montaggio; o dei tanti disoccupati ultracinquantenni, scacciati dall’azienda e condannati ai margini della società perché non riescono a trovare più un’occupazione, troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per ritrovar lavoro; beh, tutto questo alla politica, a questa politica, sembra non interessare molto.
In questo che sempre più si legittima come il Paese di Pulcinella, non perché a questo personaggio non abbia effettivamente dato i natali, quanto perché con maestria di tutto si fa per emularne le gesta sciocche, stupisce che la fertile inventiva di qualche ex-democristiano traghettato non abbia suggerito l’assunzione di provvedimenti di legge ad hoc per risolvere definitivamente i problemi dell’INPS e dell’equilibrio dei conti dello Stato: una bella legge che ti mandi sì in pensione a sessanta o sessantacinque anni, ma che preveda l’erogazione dell’assegno previsto per il massimo di un decennio, così la spesa è certa e chi vivrà….s’arrangi. D’altra parte una legge così fatta ben si potrebbe armonizzare con un provvedimento sull’eutanasia, che ci sbarazzerebbe di quella zavorra che tanto preoccupa i ragionieri della pubblica finanza senza troppo clamore e con serenità di coscienza.L’importante è poter avere i soldi per salvaguardare il diritto ad un buon film al cinematografo, gratis, al povero parlamentare, pesantemente stressato dopo una durissima giornata di lavoro al servizio del Paese, a cui peraltro i problemi di pensione della gente comune non interessano affatto.

mercoledì, maggio 02, 2007

Libertà di parola e terrorismo


Mercoledì, 2 maggio 2007
E' probabile che Andrea Rivera al concerto di ieri non abbia brillato in opportunismo nel dire ciò che ha detto, ma da qui a definirlo un terrorista, come ha fatto prontamente e protervamente l 'Osservatore Romano, sicuramente ne corre.
Il neo-eversivo, reo di aver utilizzato il palco del concerto romano del 1° maggio per esprimere un suo personale punto di vista sul modernismo della Chiesa, accusata di ipocrisia per aver consentito i funerali a famigerati delinquenti come l'ex dittatore cileno Pinochet ed ad un membro della banda della Magliana, oltre che all'altrettanto noto e non stinco di santo Francisco Franco ex dittatore spagnolo, ed averli invece negati a Welby, morto volontariamente per dar fine alle mille sofferenze provocategli da un terribile male, ha dovuto subire l'attacco scomposto e virulento del clan Vaticano, inviperito dalla denuncia subita innanzi al milione di persone che seguivano l'evento.
E sin qui, nulla di eclatante: uno accusa, peraltro motivatamente, esprimendo il proprio punto di vista, sicuramente criticabile, ma in piena libertà di coscienza e democraticamente, e l'accusato si difende, ricorrendo maldestramente all'invettiva, - per quanto la stessa non faccia certo onore al pulpito da cui proviene.
E se tutto fosse finito lì la questione non avrebbe meritato certo l'attenzione della cronaca.
Ma così non è. Perché, - udite, udite, - in difesa del clan, che ultimamente non sembra più potersi permettere di dare lezioni di bon ton e di tolleranza a chicchessia, scendono in campo non solo i politici di turno ma anche neofiti paladini della fede, questa volta con la casacca del sindacalista.
L'improvvida quanto improvvisata concione di Rivera ha visto, infatti, prima la presa di distanza dei sindacati, organizzatori della manifestazione, poi la condanna della stampa, che nel migliore dei casi ha affibbiato al reprobo l'etichetta di "poco furbo" (vedi articolo di Franco Bomprezzi su Affari Italiani) ed infine la solita sfilata dei reggi moccolo del circo politico, alla ricerca di qualche augurale benedizione pontificia.
Che politici, politicanti e politicucci, per ragioni che spaziano dall'opportunismo alla conclamata ipocrisia, ci abbiano abituato ad esternare secondo l’interesse del momento, era cosa nota, ma che al coro degli opportunisti di maniera si unissero anche i sedicenti paladini degli interessi dei lavoratori ci appare oltre ogni misura. E che anche dalla stampa, che a freddo ha avuto modo di valutare l'episodio arrivino sostanziali dichiarazioni di condanna è, a dir poco, sconvolgente.
Qui non si intende entrare nel merito delle affermazioni di Andrea Rivera, che fanno perno su una sua personale interpretazione ideologica di fatti incontestabilmente veri, ma la canea sollevatasi impone una riflessione profonda sul senso della democrazia e sul diritto all’esercizio di uno dei suoi beni più preziosi come la libertà di parola.
Né si può essere tacciati, con bonomia quasi deridente, di scarsa furbizia per aver espresso il proprio punto di vista da chi della liberta di parola e dalla difesa di questo sacro valore ha fatto la propria professione, specialmente se il punto di vista incriminato fa riferimento a fatti veri. Salvo che l'autore dell'articolo non abbia voluto comunicarci che a dir la verità si è fessi e che è consigliabile tacere per passar da furbi.
Si può convenire sulle considerazioni che temi quali quelli affrontati da Rivera meriterebbero un'attenzione ed un approfondimento ben maggiore di quanto non ne consenta una battuta ad una folla pronta ad osannare anche le imbecillità, ché il rischio della demagogia populista è sempre dietro l'angolo. Ma dall'altro lato, non è lecito sparare sul pianista sol perché non si gradisce il pezzo che suona, al di là di come suona e dell'impegno che profonde.
Sarebbe stato logico, pertanto, che al buon Rivera si fosse garbatamente rammentato che in una società matura i temi in questioni non possono essere oggetto di arringhe sessantottine; ma criminalizzare il giovanotto, come ha fatto il Vaticano, o abiurarne le affermazioni, come hanno fatto i sindacati, o suggerirne l'internazione come ha fatto la politica, o sbeffeggiarlo come ha fatto qualche organo di stampa, finisce solo per accomunare in un kitsch meschino accusato e accusatori, superficiale il primo, vili e blasfemi gli altri.
Ci augureremmo che la Chiesa, forse in profonda crisi di identità e credibilità dopo la scomparsa del pilastro Woitila ed alla ricerca di un prestigio morale un pò troppo appannato dal vento oscurantista della restaurazione inaugurato dall'era Ratzinger, ritrovi il senso della misura e si apra al dibattito con il dissenso e l'evoluzione dei valori e, dunque, faccia ammenda delle ignobili e faziose accuse rivolte a Rivera: non si affermano le proprie ragioni criminalizzando gli avversari, salvo che oltre le mura di S. Pietro non si stia pensando di rispolverare l'inquisizione, che di santo aveva poco, o non sia mai smesso di vendere indulgenze.
Allo stesso modo auspichiamo un maggiore senso della misura in coloro che sono deputati per diretto coinvolgimento e per missione alla difesa di uno dei diritti fondamentali dell'umanità, nutrendo il dovuto rispetto per quanti profittano, anche inopportunamente, di ogni occasione per esprimere il proprio punto di vista, assumendosi certamente la responsabilità di ciò che dicono.
Siamo figli di un'epoca in cui correvano slogan come "più case, meno chiese", sicuramente espressione di faziosità e pochezza di vedute, ma non è con becero materialismo storico che si liquida la contrapposizione delle idee.
Con questa logica, ai sedicenti arbitri, forse un pò strabici, che ritengono di aver il diritto di segnalare il fuori gioco anche quando questo è molto dubbio, desideriamo rammentare che è a chi non ha peccati che tocca scagliare la prima pietra.