Democrazia e riforma elettorale
Martedì, 22 maggio 2007
Tra i temi caldi del confronto politico in atto spicca quello della riforma del sistema elettorale, riforma resasi urgente dopo i cambiamenti introdotti dalle precedenti norme approvate con il governo Berlusconi nella passata legislatura.
Come è prassi, quando le forze politiche sono chiamate a ripensare i meccanismi attraverso i quali si legittima la rappresentanza parlamentare, il dibattito è divenuto assai acceso, poiché il varo della nuova legge finirà certamente per modificare il peso dei partiti e le rispettive capacità di influenza, oltre che gli equilibri di potere nell’ambito delle singole aggregazioni.
Chi si fosse pertanto illuso che l’esigenza di un sistema elettorale nuovo abbia a cuore un sostanziale riavvicinamento della politica al cittadino ha di certo sbagliato le previsioni, in quanto tale obiettivo non sarebbe che incidentale rispetto alla finalità primaria di ridisegnare i criteri di rappresentatività a svantaggio delle minoranze più deboli ed a vantaggio di chi effettivamente detiene maggio potere all’interno dei partiti di maggioranza.
Un assaggio di questa propensione è stato offerto dalla legge in atto, che ha conferito ai vertici di partito il potere di stilare la nomenklatura da presentare al corpo elettorale: non più candidati eletti con le preferenze degli elettori, ma elettori chiamati ad esprimere il loro consenso direttamente ai partiti, che a loro volta hanno predisposto una graduatoria degli eleggibili in base a criteri non supportati da alcuna effettiva capacità di controllo del popolo sovrano.
Con questo meccanismo si è ottenuta una sorta di fidelizzazione coatta del candidato al vertice del partito, cui sarebbe automaticamente riservato diritto di procrastinare la carriera politica dei fedelissimi o di stroncare quella dei dissenzienti dalla sua linea.
Tutto ciò ci sembrerebbe una chiara contraddizione del principio stesso di democrazia, nella quale non solo dovrebbe vigere un principio di confronto continuo tra i partiti, ma dovrebbe esser viva la dialettica all’interno degli stessi, nella considerazione imprescindibile che ogni membro di partito è portatore delle istanze e degli interessi dei suoi rappresentati e, pertanto, non deve mortificare queste prerogative facendosi condizionare da un vertice che con ogni probabilità non lo rimetterebbe più in lista a causa dell' espresso dissenso dalla sua linea politica.
Una nuova riforma elettorale dovrebbe dunque passare anche attraverso una democratizzazione della vita interna dei partiti, con lo scopo di conferire la necessaria garanzia di indipendenza ai suoi membri. Per contro, abbiamo esempi di partiti con vertici autoreferenziali, che occasionalmente indicono i previsti congressi di confronto su linea politica e leadership.
Sarebbe pertanto auspicabile che ogni partito ricorresse alle cosiddette primarie, così da dare ai propri iscritti un democratico strumento di individuazione delle candidature di maggior peso da proporre poi al vaglio del corpo elettorale.
Un altro aspetto con cui la riforma del sistema elettorale dovrà confrontarsi è l’eccessiva frammentazione della rappresentanza partitica. Al di là della questione del legittimo diritto a costituire movimenti politici che aspirano a giocare un ruolo nelle determinazione delle scelte politiche del governo del Paese, vi è un problema di governabilità e di stabilità di governo che non può più essere eluso. Partiti dal peso del tutto trascurabile sono oggi in grado di condizionare la sopravvivenza di intere coalizioni, imponendo scelte che, in quanto espressione di una sparuta minoranza, non sempre vanno nella direzione dell’interesse collettivo.
In uno scenario complesso nel quale l’esigenza di continuità è requisito essenziale per la realizzazione di progetti e riforme di lungo respiro, questi partiti devono in qualche modo essere messi in condizione di limitare la loro capacità di condizionare, - o di ricattare, come accade in qualche caso, - la stabilità del sistema. E allora urgente individuare un meccanismo di soglia al di sotto del quale a questi partiti non deve essere consentito l’accesso in parlamento, in modo da favorire l’aggregazione tra piccole componenti, spesso del tutto similari, ma divise esclusivamente da simboli diversi o da campanilistiche radicazioni territoriali. La convivenza è in qualche misura anche compromesso ed è quindi legittimo ritenere che partiti piccoli si debbano adeguare a queste regole.
Non è pensabile che in un paese evoluto al già noto Partito dei Pensionati si affianchino quello delle Ballerine o dei Camionisti, per quanto rappresentativi di categorie socialmente numerose. Questi movimenti, ancorché non vogliano rimanere delle lobby con adeguato peso, qualora intendano entrare in maniera diretta nello scenario dell’esercizio della politica, debbono sapere che vi è una soglia minima, ma significativa, al di sotto della quale detto accesso non è consentito, dato che la democrazia non può degradarsi a palcoscenico sregolato di istanze sì rispettabili, ma comunque particolari, il cui interesse non sia condiviso da una quota significativa degli elettori.
Riamane infine la questione del turno unico o del doppio turno sul quale il dibattito le posizioni delle varie parti in causa appaiono estremamente varie.
A prescindere dalle sofisticate disquisizioni sulla scelta del metodo francese o tedesco o spagnolo, riteniamo il doppio turno, con il secondo di ballottaggio tra i due partiti o le colazioni che abbiano ottenuto i maggiori consensi senza superare il 50% dei voti espressi, quello che meglio risponde all’esigenza di rinforzare la stabilità dei governi, in quanto costringe l’elettorato dei partiti e delle coalizioni non ammesse al secondo turno a schierarsi a favore di uno dei due contendenti in ballottaggio e, dunque, a consolidarne il successo finale.
In questo quadro d’ipotesi, sarebbe auspicabile venisse richiesto con le nuove norme che ogni partito o coalizione in gioco esprimesse un leader candidato alla presidenza del governo in caso di vittoria, inamovibile per tutta la durata del mandato, pena il ritorno alle urne, e così legittimato dal voto popolare. Ciò accantonerebbe qualsiasi ipotesi di presidenzialismo caldeggiata da qualcuno, che nel nostro Paese, contraddistinto da debole senso democratico, potrebbe innescare pericolosi desideri di deriva autoritaria in coloro che in tal maniera dovessero essere eletti.
Come è prassi, quando le forze politiche sono chiamate a ripensare i meccanismi attraverso i quali si legittima la rappresentanza parlamentare, il dibattito è divenuto assai acceso, poiché il varo della nuova legge finirà certamente per modificare il peso dei partiti e le rispettive capacità di influenza, oltre che gli equilibri di potere nell’ambito delle singole aggregazioni.
Chi si fosse pertanto illuso che l’esigenza di un sistema elettorale nuovo abbia a cuore un sostanziale riavvicinamento della politica al cittadino ha di certo sbagliato le previsioni, in quanto tale obiettivo non sarebbe che incidentale rispetto alla finalità primaria di ridisegnare i criteri di rappresentatività a svantaggio delle minoranze più deboli ed a vantaggio di chi effettivamente detiene maggio potere all’interno dei partiti di maggioranza.
Un assaggio di questa propensione è stato offerto dalla legge in atto, che ha conferito ai vertici di partito il potere di stilare la nomenklatura da presentare al corpo elettorale: non più candidati eletti con le preferenze degli elettori, ma elettori chiamati ad esprimere il loro consenso direttamente ai partiti, che a loro volta hanno predisposto una graduatoria degli eleggibili in base a criteri non supportati da alcuna effettiva capacità di controllo del popolo sovrano.
Con questo meccanismo si è ottenuta una sorta di fidelizzazione coatta del candidato al vertice del partito, cui sarebbe automaticamente riservato diritto di procrastinare la carriera politica dei fedelissimi o di stroncare quella dei dissenzienti dalla sua linea.
Tutto ciò ci sembrerebbe una chiara contraddizione del principio stesso di democrazia, nella quale non solo dovrebbe vigere un principio di confronto continuo tra i partiti, ma dovrebbe esser viva la dialettica all’interno degli stessi, nella considerazione imprescindibile che ogni membro di partito è portatore delle istanze e degli interessi dei suoi rappresentati e, pertanto, non deve mortificare queste prerogative facendosi condizionare da un vertice che con ogni probabilità non lo rimetterebbe più in lista a causa dell' espresso dissenso dalla sua linea politica.
Una nuova riforma elettorale dovrebbe dunque passare anche attraverso una democratizzazione della vita interna dei partiti, con lo scopo di conferire la necessaria garanzia di indipendenza ai suoi membri. Per contro, abbiamo esempi di partiti con vertici autoreferenziali, che occasionalmente indicono i previsti congressi di confronto su linea politica e leadership.
Sarebbe pertanto auspicabile che ogni partito ricorresse alle cosiddette primarie, così da dare ai propri iscritti un democratico strumento di individuazione delle candidature di maggior peso da proporre poi al vaglio del corpo elettorale.
Un altro aspetto con cui la riforma del sistema elettorale dovrà confrontarsi è l’eccessiva frammentazione della rappresentanza partitica. Al di là della questione del legittimo diritto a costituire movimenti politici che aspirano a giocare un ruolo nelle determinazione delle scelte politiche del governo del Paese, vi è un problema di governabilità e di stabilità di governo che non può più essere eluso. Partiti dal peso del tutto trascurabile sono oggi in grado di condizionare la sopravvivenza di intere coalizioni, imponendo scelte che, in quanto espressione di una sparuta minoranza, non sempre vanno nella direzione dell’interesse collettivo.
In uno scenario complesso nel quale l’esigenza di continuità è requisito essenziale per la realizzazione di progetti e riforme di lungo respiro, questi partiti devono in qualche modo essere messi in condizione di limitare la loro capacità di condizionare, - o di ricattare, come accade in qualche caso, - la stabilità del sistema. E allora urgente individuare un meccanismo di soglia al di sotto del quale a questi partiti non deve essere consentito l’accesso in parlamento, in modo da favorire l’aggregazione tra piccole componenti, spesso del tutto similari, ma divise esclusivamente da simboli diversi o da campanilistiche radicazioni territoriali. La convivenza è in qualche misura anche compromesso ed è quindi legittimo ritenere che partiti piccoli si debbano adeguare a queste regole.
Non è pensabile che in un paese evoluto al già noto Partito dei Pensionati si affianchino quello delle Ballerine o dei Camionisti, per quanto rappresentativi di categorie socialmente numerose. Questi movimenti, ancorché non vogliano rimanere delle lobby con adeguato peso, qualora intendano entrare in maniera diretta nello scenario dell’esercizio della politica, debbono sapere che vi è una soglia minima, ma significativa, al di sotto della quale detto accesso non è consentito, dato che la democrazia non può degradarsi a palcoscenico sregolato di istanze sì rispettabili, ma comunque particolari, il cui interesse non sia condiviso da una quota significativa degli elettori.
Riamane infine la questione del turno unico o del doppio turno sul quale il dibattito le posizioni delle varie parti in causa appaiono estremamente varie.
A prescindere dalle sofisticate disquisizioni sulla scelta del metodo francese o tedesco o spagnolo, riteniamo il doppio turno, con il secondo di ballottaggio tra i due partiti o le colazioni che abbiano ottenuto i maggiori consensi senza superare il 50% dei voti espressi, quello che meglio risponde all’esigenza di rinforzare la stabilità dei governi, in quanto costringe l’elettorato dei partiti e delle coalizioni non ammesse al secondo turno a schierarsi a favore di uno dei due contendenti in ballottaggio e, dunque, a consolidarne il successo finale.
In questo quadro d’ipotesi, sarebbe auspicabile venisse richiesto con le nuove norme che ogni partito o coalizione in gioco esprimesse un leader candidato alla presidenza del governo in caso di vittoria, inamovibile per tutta la durata del mandato, pena il ritorno alle urne, e così legittimato dal voto popolare. Ciò accantonerebbe qualsiasi ipotesi di presidenzialismo caldeggiata da qualcuno, che nel nostro Paese, contraddistinto da debole senso democratico, potrebbe innescare pericolosi desideri di deriva autoritaria in coloro che in tal maniera dovessero essere eletti.
Non resta che augurarci che il governo attuale esca dalla ridda delle ipotesi e ben presto si appresti a formulare una proposta al parlamento su un’ipotesi di riforma seria, e soprattutto duratura, del sistema elettorale, che permetta di giungere per tempo alle prossime elezioni con uno strumento di effettiva e rigenerata democrazia, - dati i tempi lunghi di approvazione che sono necessari per provvedimenti di legge di questa natura. Qualunque sia in ogni caso la proposta che verrà approvata, confidiamo vengano gettate le basi per ripristinare il rapporto di sana corrispondenza tra paese legale e quello legale, rapporto che oggi sembra vivere la sua peggiore esperienza dalla fondazione della repubblica.
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