Sciopero e convivenza civile
Venerdì, 25 maggio 2007
Stupisce nel leggere ogni tanto qualche notizia di stampa che riferisce lo sdegno di chi, sorpreso da uno sciopero dei trasporti, non esita ad inveire contro l’inciviltà degli scioperanti e reclama un giro di vite repressivo.
In verità la sorpresa è maggiore quando questo sdegno affiora in giornali notoriamente liberisti e progressisti, poiché la stampa più conservatrice non ha mai fatto mistero di ritenere il ricorso all’astensione dal lavoro quale forma di protesta nei confronti dell’impresa una manifestazione ai margini della liceità, oltre che della civiltà comportamentale.
A questo proposito va dato atto della coerenza con la quale i colleghi di Libero o de il Giornale non abbiano scioperato neanche in occasione delle manifestazioni organizzate dal sindacato giornalisti nell’ambito della vertenza per il rinnovo del contratto della categoria, scaduto da oltre due anni, quantunque non si comprenda attraverso quale sistema di lotta alternativa intenderebbero ottenere dai rispettivi datori di lavoro il rinnovo da questi ultimi negato.
Orbene, per quanto non condivisibile, la posizione di quei giornalisti va rispettata, dato che in democrazia ad un sacrosanto diritto di sciopero si contrappone un altrettanto sacrosanto diritto di non scioperare. Ciò che invece non è condivisibile è il giudizio di inammissibilità dell’esercizio delle libertà altrui cui propendono alternativamente i sostenitori ed i contrari allo sciopero.
Né ci sembra giustificato il livore verbale con cui chi subisce dallo sciopero un disagio, assurge saccentemente a censore dei comportamenti altrui e stigmatizza con arrogante superiorità che i disagi da lui patiti, magari perché in viaggio di lavoro, sono certamente più pesanti di quanto non siano quelli sostenuti da chi invece viaggia per diporto.
Che lo sciopero, quale strumento di lotta dei lavoratori per il conseguimento di condizioni lavorative migliori, sia uno strumento di evidente disagio per quanti utilizzano il prodotto da questi reso è un dato di fatto. Anzi, uno sciopero che non determinasse ricadute economiche sul datore di lavoro e che, attraverso quei disagi, non fosse in grado di “sensibilizzare” la pubblica opinione non avrebbe di per sé alcun senso.
Appare del tutto immotivata, se non di pessimo gusto, la considerazione che in epoca di economia globale e di forte competizione lo sciopero finisce non solo per danneggiare l’utenza ma anche per favorire i competitori terzi dei Paesi emergenti che hanno ben diversi indici di produttività e sviluppo, - grazie anche alla mancanza di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, aggiungeremo noi seguendo questo ragionamento. Dunque, secondo questi tribuni della difesa del loro particulare, il terrore che l’emigrato di turno ci porti via il lavoro dovrebbe indurci al buon senso di sopportare qualunque angheria, - sulla scorta di questa visione tutto sarebbe lecito da parte dei cosiddetti padroni, - o salari ai margini della sussistenza o condizioni di lavoro non raramente terzomondiste.
A questi egoismi palesemente un po’ ottusi desidereremmo ricordare che è proprio in ragione di questi approcci ideologici che ogni giorno piangiamo decine di morti nei cantieri, dove le regole minime di prevenzione infortuni sono disattese e trovano occupazione intere comunità di diseredati extracomunitari incapaci di ribellarsi al ricatto padronale cui, da tempo, non si sono piegati i lavoratori italiani. Né appare strano ai predetti egoisti che, nonostante l’impiego di questa manodopera a salari da fame e senza onerose tutele, i prezzi degli immobili siano comunque lievitati oltre ogni umana tolleranza, ad esclusivo beneficio delle imprese di costruzione.
Lette al contrario le argomentazioni di questi sedicenti liberisti dissimulano il disprezzo per i bisogni degli altri, senza distinzione alcuna, che anzi debbono essere sacrificati all’altare del dio profitto, motore dello sviluppo.
Allora se questi sono i risultati che ci dovrebbero rendere degni della convivenza civile, come qualcuno ha scritto, non se ne abbia a male il lettore se gli dichiariamo sin da esso la nostra scelta a vivere in una indegnità della quale ci sentiamo fieri e che rifiuta l'omologazione come lasciapassare per la civiltà.
A prescindere da queste considerazioni, che certamente sono figlie di una matrice ideologica ben connotata, va per equità riconosciuto l’abuso che in alcune circostanze si fa dello sciopero, anche se da qualche decennio la caduta delle ideologie ci ha liberato dalle tante manifestazioni di protesta a favore di questa o quella remota etnia in lotta per l’indipendenza o per rivendicare la democrazia, confinando lo sciopero in un recinto molto più confacente l’effettiva rivendicazione di aspetti legati alla realtà del lavoro. Ciò non significa che non vi siano ugualmente abusi o strumentalizzazioni di altra natura; quantunque la ricerca del verificarsi degli eventi vada condotta alle origini delle cose e non deve potersi dedurre semplicisticamente dall’osservazione degli effetti.
Nel caso degli scioperi dei trasporti, ancorché inveire contro piloti od assistenti di volo in astensione di protesta, sarebbe più opportuno un approfondimento sulle modalità gestionali della nostra Compagnia di Bandiera, alla guida della quale si sono succeduti negli anni boiardi di stato, galoppini di partito, manager improvvisati, fiancheggiatori del sindacato, e così via il cui obiettivo, come dimostrato dai risultati, non è stata la buona gestione dell’azienda, ma la massimizzazione del loro personale tornaconto, con tanto di compromessi, accordi sottobanco, connivenze e favori alla politica in carica. Questo esemplare modo di gestire, - non certamente limitato al settore d’esempio, ma comune a tutte le realtà nelle quali il confine tra interesse imprenditoriale privato ed interesse collettivo si è palesato assai labile, - ha generato categorie ed interessi corporativi notevoli con conseguenti rivendicazioni a tutto campo, all’insegna del tutto è lecito. Basti pensare che sino a qualche anno fa le lavoratrici dell’aria godevano di un mensile diritto al riposo durante il ciclo mestruale (sic!), riposo non previsto per qualunque lavoratrice in altro settore d’attività.
Assodato, dunque, che lo sciopero produce inevitabilmente disagi e che questi disagi sono certamente tanto più tangibili quanto più il settore in cui si verifica eroghi servizi essenziali alla collettività, certamente è necessario un intervento che disciplini le modalità attraverso le quali è possibile minimizzarne il cosiddetto costo sociale, con tanto di sanzioni, anche dure ed estreme, nei confronti di riottosi o trasgressori di queste regole; ma ciò nulla toglie alla legittimità del diritto medesimo ed alla libertà democratica con quale deve esserne garantito l’esercizio.
Che questa regolamentazione debba prevedere che per tutelare i diritti dell’utenza, per esempio, nel trasporto aereo lo sciopero possa essere effettuato dalle ore ventiquattro alle sei del mattino, quando il traffico aereo è del tutto fermo e con buona pace di quei colleghi che lamentano disagi indicibili causa gli scioperi in cui ultimamente sono incappati, ci parrebbe del tutto suggestivo.
La democrazia, al di là degli idealismi, impone i suoi costi e se qualche disagio deve essere sopportato in nome della sua difesa, che ben venga. Meglio un disagio e la liberta di poterne denunciare onere e consistenza piuttosto che la sua assenza in una società del silenzio.
In verità la sorpresa è maggiore quando questo sdegno affiora in giornali notoriamente liberisti e progressisti, poiché la stampa più conservatrice non ha mai fatto mistero di ritenere il ricorso all’astensione dal lavoro quale forma di protesta nei confronti dell’impresa una manifestazione ai margini della liceità, oltre che della civiltà comportamentale.
A questo proposito va dato atto della coerenza con la quale i colleghi di Libero o de il Giornale non abbiano scioperato neanche in occasione delle manifestazioni organizzate dal sindacato giornalisti nell’ambito della vertenza per il rinnovo del contratto della categoria, scaduto da oltre due anni, quantunque non si comprenda attraverso quale sistema di lotta alternativa intenderebbero ottenere dai rispettivi datori di lavoro il rinnovo da questi ultimi negato.
Orbene, per quanto non condivisibile, la posizione di quei giornalisti va rispettata, dato che in democrazia ad un sacrosanto diritto di sciopero si contrappone un altrettanto sacrosanto diritto di non scioperare. Ciò che invece non è condivisibile è il giudizio di inammissibilità dell’esercizio delle libertà altrui cui propendono alternativamente i sostenitori ed i contrari allo sciopero.
Né ci sembra giustificato il livore verbale con cui chi subisce dallo sciopero un disagio, assurge saccentemente a censore dei comportamenti altrui e stigmatizza con arrogante superiorità che i disagi da lui patiti, magari perché in viaggio di lavoro, sono certamente più pesanti di quanto non siano quelli sostenuti da chi invece viaggia per diporto.
Che lo sciopero, quale strumento di lotta dei lavoratori per il conseguimento di condizioni lavorative migliori, sia uno strumento di evidente disagio per quanti utilizzano il prodotto da questi reso è un dato di fatto. Anzi, uno sciopero che non determinasse ricadute economiche sul datore di lavoro e che, attraverso quei disagi, non fosse in grado di “sensibilizzare” la pubblica opinione non avrebbe di per sé alcun senso.
Appare del tutto immotivata, se non di pessimo gusto, la considerazione che in epoca di economia globale e di forte competizione lo sciopero finisce non solo per danneggiare l’utenza ma anche per favorire i competitori terzi dei Paesi emergenti che hanno ben diversi indici di produttività e sviluppo, - grazie anche alla mancanza di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, aggiungeremo noi seguendo questo ragionamento. Dunque, secondo questi tribuni della difesa del loro particulare, il terrore che l’emigrato di turno ci porti via il lavoro dovrebbe indurci al buon senso di sopportare qualunque angheria, - sulla scorta di questa visione tutto sarebbe lecito da parte dei cosiddetti padroni, - o salari ai margini della sussistenza o condizioni di lavoro non raramente terzomondiste.
A questi egoismi palesemente un po’ ottusi desidereremmo ricordare che è proprio in ragione di questi approcci ideologici che ogni giorno piangiamo decine di morti nei cantieri, dove le regole minime di prevenzione infortuni sono disattese e trovano occupazione intere comunità di diseredati extracomunitari incapaci di ribellarsi al ricatto padronale cui, da tempo, non si sono piegati i lavoratori italiani. Né appare strano ai predetti egoisti che, nonostante l’impiego di questa manodopera a salari da fame e senza onerose tutele, i prezzi degli immobili siano comunque lievitati oltre ogni umana tolleranza, ad esclusivo beneficio delle imprese di costruzione.
Lette al contrario le argomentazioni di questi sedicenti liberisti dissimulano il disprezzo per i bisogni degli altri, senza distinzione alcuna, che anzi debbono essere sacrificati all’altare del dio profitto, motore dello sviluppo.
Allora se questi sono i risultati che ci dovrebbero rendere degni della convivenza civile, come qualcuno ha scritto, non se ne abbia a male il lettore se gli dichiariamo sin da esso la nostra scelta a vivere in una indegnità della quale ci sentiamo fieri e che rifiuta l'omologazione come lasciapassare per la civiltà.
A prescindere da queste considerazioni, che certamente sono figlie di una matrice ideologica ben connotata, va per equità riconosciuto l’abuso che in alcune circostanze si fa dello sciopero, anche se da qualche decennio la caduta delle ideologie ci ha liberato dalle tante manifestazioni di protesta a favore di questa o quella remota etnia in lotta per l’indipendenza o per rivendicare la democrazia, confinando lo sciopero in un recinto molto più confacente l’effettiva rivendicazione di aspetti legati alla realtà del lavoro. Ciò non significa che non vi siano ugualmente abusi o strumentalizzazioni di altra natura; quantunque la ricerca del verificarsi degli eventi vada condotta alle origini delle cose e non deve potersi dedurre semplicisticamente dall’osservazione degli effetti.
Nel caso degli scioperi dei trasporti, ancorché inveire contro piloti od assistenti di volo in astensione di protesta, sarebbe più opportuno un approfondimento sulle modalità gestionali della nostra Compagnia di Bandiera, alla guida della quale si sono succeduti negli anni boiardi di stato, galoppini di partito, manager improvvisati, fiancheggiatori del sindacato, e così via il cui obiettivo, come dimostrato dai risultati, non è stata la buona gestione dell’azienda, ma la massimizzazione del loro personale tornaconto, con tanto di compromessi, accordi sottobanco, connivenze e favori alla politica in carica. Questo esemplare modo di gestire, - non certamente limitato al settore d’esempio, ma comune a tutte le realtà nelle quali il confine tra interesse imprenditoriale privato ed interesse collettivo si è palesato assai labile, - ha generato categorie ed interessi corporativi notevoli con conseguenti rivendicazioni a tutto campo, all’insegna del tutto è lecito. Basti pensare che sino a qualche anno fa le lavoratrici dell’aria godevano di un mensile diritto al riposo durante il ciclo mestruale (sic!), riposo non previsto per qualunque lavoratrice in altro settore d’attività.
Assodato, dunque, che lo sciopero produce inevitabilmente disagi e che questi disagi sono certamente tanto più tangibili quanto più il settore in cui si verifica eroghi servizi essenziali alla collettività, certamente è necessario un intervento che disciplini le modalità attraverso le quali è possibile minimizzarne il cosiddetto costo sociale, con tanto di sanzioni, anche dure ed estreme, nei confronti di riottosi o trasgressori di queste regole; ma ciò nulla toglie alla legittimità del diritto medesimo ed alla libertà democratica con quale deve esserne garantito l’esercizio.
Che questa regolamentazione debba prevedere che per tutelare i diritti dell’utenza, per esempio, nel trasporto aereo lo sciopero possa essere effettuato dalle ore ventiquattro alle sei del mattino, quando il traffico aereo è del tutto fermo e con buona pace di quei colleghi che lamentano disagi indicibili causa gli scioperi in cui ultimamente sono incappati, ci parrebbe del tutto suggestivo.
La democrazia, al di là degli idealismi, impone i suoi costi e se qualche disagio deve essere sopportato in nome della sua difesa, che ben venga. Meglio un disagio e la liberta di poterne denunciare onere e consistenza piuttosto che la sua assenza in una società del silenzio.
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