venerdì, dicembre 14, 2007

Michela Vittoria Brambilla: ascesa e fasti di una politica di razza


Venerdì, 14 dicembre 2007
Da qualche tempo si aggira per i salotti di emittenti televisive private e pubbliche un’avvenente signora, non bellissima, ma carica di un fascino fisico decisamente dirompente, dai lunghi capelli colore arancia matura che si definisce una politica.
La signora, che ama vestire di scuro, probabilmente per meglio contrastare il colore della chioma, e che di nero sembrerebbe indossare anche ciò che normalmente non si vede, ma che lei maliziosamente lascia sbirciare ogni volta che se ne presenta l’occasione, - forse convinta di poter così dirottare l’attenzione dell’ascoltatore medio da ciò che dice a ciò che la qualifica come donna, - quale mezzo per la conquista del consenso, è l’ultimo acquisto del Signore di Arcore, Silvio Berlusconi, che non ha esitato un attimo ad arruolarla nel team dei personaggi più rappresentativi di Forza Italia, probabilmente folgorato da tutt’altro che dal suo modesto talento politico.
La signora Michela Vittoria Brambilla, al cui nome risponde il personaggio, è una giovane arrampicatrice di quotata schiatta. Figlia di Vittorio, noto industriale siderurgico brianzolo, è lei stessa imprenditrice nel settore degli alimenti per animali, attività grazie la quale si è guadagnata i vertici dei giovani imprenditori aderenti a Confcommercio.
Laureata in filosofia alla Cattolica, ha subito il fascino della politica nel 2006, quando è stata candidata nelle liste del movimento del Cavaliere in Veneto. Il mancato successo elettorale non ha disincentivato le sue ambizioni, così l’anno seguente ha pensato bene di autoproclamarsi Presidente dell’Associazione Nazionale Circoli della Libertà, entrando in pericolosissima rotta di collisione con il suo fondatore Marcello Dell’Utri. La postuma benevola benedizione del nazareno Silvio, che dai tempi di Titti la Rossa, - come era stata definita l’ex magistrato Tiziana Parenti confluita nelle liste di Forza Italia negli anni novanta, - ha sempre avuto nel bene e nel male la sindrome del rosso, l'ha tolta da ogni impiccio.
Ambienti qualificati di Forza Italia, vicini al Cavaliere in persona, la vorrebbero in tale rapida ascesa politica da indicarla addirittura come la più probabile erede di Berlusconi alla guida del movimento politico, quantunque, tra l’ostentazione di un malizioso merletto d’autoreggente ed un sorriso ammaliante, con falsa modestia la signora smentisca questo ruolo di predestinata.
Ciò che comunque sconcerta della signora Michela Vittoria non è tanto la rapidità folgorante della carriera all’interno di una Forza Italia che, si sa, è tana di volponi e di concorrenti agguerriti, - ma è il maglio di re Silvio a dettare legge, - quanto la sostanziale pochezza politica che mette in evidenza in ogni occasione in cui è chiamata a confrontarsi con avversari, che, quantunque modesti in qualche caso, hanno il pregio d'apparire eminenti statisti al suo cospetto.
Non c’è comunque né da fregarsi le manida farsi ingannare dalla pochezza del personaggio, poiché il furbo Berlusconi, profondo conoscitore delle debolezze umane, sa bene che nell’epoca dell’antipolitica e del tutto-fa-spettacolo tra Casini o Fassino e la Brambilla, l’ascolto alla fine predilige la seconda, visto che la politica è ancora faccenda da uomini e degli uomini è nota la debolezza verso elementi che con la politica c’entrano come i cavoli a merenda.
Questo è indiscutibilmente uno dei punti di forza della strategia di Berlusconi, il saper scegliere i piazzisti giusti in base al segmento di mercato. Così c’è Bonaiuti, che va bene per l’elettorato anziano, con il suo faccione da signore attempato, che predica con garbo e con altrettanta decisione le ragioni del suo capo. Bondi, con l’aria del ragioniere all’assemblea di condominio, che parla all’uomo della strada, magari incespicando e sputacchiando, ma sicuro di esser convincente grazie sdegnosa e lucida veemenza con cui riesce a dar corpo a quattro concetti sgangherati. C’è poi l’ex-socialista ed ex-associato alla P2, Cicchitto, che si rivolge alla classe superiore, con lo stile che gli deriva dal suo essere politico di lungo corso e dunque in grado di dar corpo con la sapiente maestria acquisita alla corte di Bettino Craxi persino alle ombre. Mancava un volto che si potesse riferire ai giovani, visto che l’esperienza della Gardini, che più che addetta stampa è lei ad essere una stampa, si è rivelata disastrosa. E allora spazio alla Brambilla, che per le giovani rappresenta l’incarnazione del successo, l’affrancamento femminile, oltre che la fascinosità con la quale si possono assecondare le vie del successo; per i maschietti un piacevole oscuro oggetto del desiderio la cui vista attizza i sensi, ma, allo stesso tempo, un modello credibile da emulare nella scalata al potere ed all’emersione sociale.
E poi, non si era accusata la politica di lasciare scarso spazio alle donne? Non erano i partiti i primi a predicare bene e razzolare male su quest’argomento? E non s’era detto che una buona percentuale delle liste elettorali avrebbe dovuto essere riservata alle donne? E allora vai con la Zanicchi, con la Gardini, con la Colli, con la Brambilla e qualche altra, anche se la politica, per parecchie di queste, non ci azzeccava niente: nella politica spettacolo, nell’era del trionfo dell’apparenza sull’essere, conta il gesto e più del risultato. D’altra parte se qualcuna di queste signore è stata trombata – e non ce ne voglia il lettore per l’equivocità del termine in questo caso – fa parte delle regole del gioco, dato che la politica è fatta anche d’insuccessi, senza distinzione di sesso, razza e religione.
Comunque alla brillante signora Brambilla vorremmo dare un suggerimento, considerato che le mezze misure non sempre pagano. La brava Sharon Stone è passata alla storia grazie ad un ormai mitico incrocio di gambe, in virtù del quale il suo successo, pur meritato, è diventato esponenziale. Se la Michela Vittoria ci riservasse un play-back di quella performance ci toglieremmo anche il dubbio che il suo rossiccio sia colore originale.
Certo, che la storia sia maestra di vita è cosa nota, così come è noto che in un modo o nell’altro vi sono cicli nell’esistenza umana che ripropongono situazioni vissute, che si credeva non avrebbero mai più potuto riproporsi. Così nessuno penserebbe mai che un giorno potrebbe ritornare un imperatore a cui salti in mente di nominare senatore il proprio somaro, come accadde nell’antica Roma. Tuttavia non bisogna farsi trarre in inganno dalla ricerca delle eguaglianze, dato che la storia si manifesta anche sotto camuffate spoglie. A questa stregua, sebbene non ci siano più gli imperatori, ma non è detto che somari o animali d’altra specie non possano assurgere a ranghi di rilievo.

giovedì, dicembre 13, 2007

Gli autogol del Cavaliere


Giovedì, 13 dicembre 2007
E’ singolare che per alcuni individui siano stati messi in commercio dizionari della lingua italiana diversi da quelli che vengono invece forniti ai comuni mortali. Dipenderà forse dal fatto che questi personaggi hanno una intelligenza ed una cultura al di fuori del normale, e quindi non hanno bisogno di consultare terminologia per loro banale o, - come nel caso di certi computer il cui software è preinstallato, embebbed come si definisce con termine informatico, - innestata nel loro DNA, o dal fatto che questi termini non sembrano utili per qualificare o definire il loro modo di operare. In ogni caso questi dizionari sono dei veri e propri bigini minimali, bignami della lingua italiana, dove termini come pudore, dignità, rossore, e similari non esistono, nel presupposto che i loro utilizzatori mai saranno presi dal senso di questi sentimenti comuni che invece connotano la vita di qualsiasi essere umano.
A questa categoria di eletti – e se mai dubbi ci fossero stati, questi elementi li rimuovono – appartiene senza ombra di dubbio il signor Silvio Berlusconi, l’Unto del Signore, il Cavaliere Banana, che non perde occasione per ostentare al mondo le sue invidiabili ed innate qualità di personaggio mai stimolato da un minimo senso di pudore, di dignità, di rossore e senso esasperato del ridicolo, aggiungeremmo noi, nel frenare le interessatissime – che se non fossero interessate allora sarebbero sintomo di grave farneticazione – accuse di falsità, vilipendio, comunismo ed altre scemenze simili a chiunque lo becchi in fallo nel commettere illeciti della più svariata natura, alla cui propensione sembra altrettanto chiaramente votato.
Dopo le decine di processi per corruzione, falso in bilancio, fondi neri all’estero, da cui è uscito non perché lindo come un angelo del Signore come si professa, ma solo in virtù di prosaiche amnistie e prescrizioni, alla stregua di un qualsivoglia zanza di periferia, durante i quali non ha risparmiato contumelie di ogni natura ai suoi accusatori ed alla magistratura inquirente, adesso, entrato a pieno titolo in un’inchiesta di presunta corruzione di parlamentari, ha già predisposto batterie contraeree e truppe cammellate per aprire un nuovo fronte di insulti ed accuse su chi del caso sta indagando.
Naturalmente in questa guerra senza quartiere non si muove solo, ma come al solito si avvale dello stuolo di predicatori, insolenti, reggi-bordone e cover girl che pur di difendere il capo non esitano a scadere a loro volta in un ridicolo incontenibile e disgustoso.
E così mentre il comune cittadino, che sarebbe ulteriormente perseguito, quantomeno per vilipendio, se solo si avventurasse a dichiarare un millesimo delle corbellerie che lui dichiara contro i magistrati, è costretto a mettersi nelle mani della giustizia affinché si faccia luce sulla sua presunta colpevole condotta, lui ed i suoi sodali si sperticano in auto assoluzioni alla sola insinuazione di dubbio, reclamando contro l’irriducibile teppaglia rossa che si anniderebbe nei tribunali, nei CSM e persino nella Corte Costituzionale.
Non si rende conto il poveretto, oppure rendendosene conto lo fa ad arte abituato com’è alla vita-spettacolo, che anche il più stupido dei cittadini di questa disgraziata repubblica non crede più a questo complotto infinito nei suoi confronti e a queste falangi segrete di comunisti beceri che puntualmente scatenano l’offensiva contro l’integerrimo cittadino Berlusconi senza macchia, con il solo obiettivo di fargli una cortesia, trasformandolo nella vittima predestinata del presunto odio neobolscevico.
Neanche Bettino Craxi, a cui il signor Berlusconi deve tanto delle sue discusse fortune, negli anni bui dell’esilio ad Hammamet ebbe una così straripante convinzione del fumus persecutionis cui si sentiva oggetto, probabilmente perché e a differenza del suo discepolo non aveva maturato una dose d’arroganza tale da renderlo in perpetuo ed irreversibile delirio d’onnipotenza, sotto il cui nefasto impulso si perde, appunto, il senso del pudore, del rossore e della dignità.
Il signor Saccà, direttore di Rai International, dalle intercettazioni telefoniche del quale si è mossa l’inchiesta, sembra aver confermato parecchi dei casi dai quali nascono gli addebiti a carico dell’Eletto di Arcore, pertanto l’interessato inquisito dovrebbe avere il buon senso di trovare gli argomenti a propria discolpa smentendo lo stesso Saccà con dati di fatto, non accusando con volgarità da mercato ortofrutticolo quella magistratura che, anzi, ogni tanto si rammenta di fare il proprio dovere.
E se Saccà è stato frainteso o non ha detto o fatto ciò di cui lo si accusa in solido con Berlusconi, lo si lasci verificare senza sollevare polveroni o gridando ancora una volta all’attentato regio anche quando si tratta solo di improvvidi autogol


sabato, dicembre 08, 2007

Italiani: il Censis scatta l’annuale foto di gruppo


Sabato, 8 dicembre 2007

E’ di ieri la pubblicazione da parte del Censis del Rapporto sulla Situazione Sociale del Paese 2007 dalla quale viene rappresentata la fotografia dell’Italia così come scattata sulla base dei dati riferiti all’anno precedente. Il quadro che ne viene fuori è a dir poco sconfortante, dato che i riferimenti della fotografia scattata sono decisamente negativi sebbene rappresentativi di una realtà effettiva ed ineluttabile, che mette in luce un Paese decisamente allo sbando.

Per non correre il rischio di esagerare nel fornire una descrizione sospetta di emozioni personali, è opportuno riferire con le parole del Censis alcuni dei commenti più salienti della realtà rilevata, dalla quale emergono tutti i blocchi e i problemi che impediscono a una "dinamica evolutiva di pochi" di diventare "uno sviluppo di popolo": la "buona ripresa" tarda ad arrivare, mentre il Paese si disperde in una "poltiglia di massa", una "mucillagine di elementi individuali e di ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni".

Già questo commento sarebbe sufficiente a chiudere ogni discussione, con tanto di strascichi di appassionata polemica, sullo stato della nostra realtà: un Paese in cui si registra il trionfo di un individualismo disperato, in cui ciascuno calpesta l’altro nel tentativo non di emergere, ma di sopravvivere nel nauseabondo puzzo di guano in cui si dibatte quotidianamente, nella più totale assenza di quella doverosa azione di coesione e supporto delle istituzioni. Eppure il Censis nel suo rapporto sembra disperatamente rifiutare l’immagine di un’Italia in “inesorabile declino ed in corsa verso un irreversibile impoverimento economico oltre che sociale” e cerca nel profondo della nostra società quegli indicatori che, quantunque frutto di un esasperato individualismo, possono rappresentare un opportunità di evoluzione. Fa così riferimento a quelle “minoranze vitali” fautrici di una ripresa economica "ormai da tempo provata da una apprezzabile crescita degli indici del fatturato industriale e del terziario e dalla crescita sostenuta delle esportazioni". Una ripresa che però non riesce a coinvolgere l'intero sistema sociale, per via di problemi vecchi, come l'antico divario Nord-Sud, mai migliorato e semmai aggravato negli anni, e le sempre maggiori "degenerazioni antropologiche". "In ogni settore - ricorda il Censis - è tutto un tessere di astuzie, piccole illegalità, connivenze. Salvo poi, con l'esercizio antico di una doppia morale, scandalizzarsi per furberie più altisonanti. Perchè l'Italia continua ad essere un Paese troppo indulgente con se stesso" e, ci sembra poter aggiungere, in cui la disperazione ha stravolto il concetto di talento: una cosa è avere nel DNA la capacità di far fronte alle avversità della vita, con fantasia e creatività, un’altra è il ricorso sistematico ad un radicato senso del malaffare, furbesco ma criminoso, per risolvere i problemi.

In questa prospettiva queste “minoranze vitali” non sono capaci di divenire “sistema” o di costituire “tessuto”, a causa di un meccanismo non socializzabile di “frontiera lecita”, che in ogni caso ha consentito una crescita del PIL ed un miglioramento dei fondamentali economici, ma non una allargamento della base della ricchezza.

Il Censis rileva come nel corso del 2006 ci sia stato un forte consolidamento dei profitti per le imprese, tendenzialmente al di sopra del 10%, e comportamenti virtuosi e innovativi nell'industria manifatturiera e anche nelle imprese agricole, protagoniste almeno in parte di "un lento ma progressivo progresso di riorganizzazione e riposizionamento complessivo". Ma "lo sviluppo non filtra sia perché non diventa processo sociale, sia perché la società sembra adagiarsi in quell'inerzia diffusa che è antropologia senza storia, senza chiamata al futuro". Tra i principali fattori inerziali il Censis cita i dati della contabilità nazionale: da un lato un andamento degli investimenti fissi lordi delle pubbliche amministrazioni "per il terzo anno di segno negativo", a fronte di una spesa pubblica in crescita e monopolizzata dal pubblico impiego, dalla sanità e dalle pensioni”.
C'è dunque "un inguaribile strabismo delle politiche di bilancio che, non riuscendo a stabilizzare e ridurre le spese correnti, hanno più agevolmente compresso le spese di investimento". Il debito pubblico "pesa come un macigno non solo sui conti, ma anche sulla libertà psicologica dei cittadini". A questo si aggiunge "l'erratica scoperta di tesoretti e la loro destinazione erroneamente politica".
La vitalità riscontrata nel settore delle imprese non si traduce in un'analoga condizione per le famiglie. Gli italiani, osserva il Censis, "giungono alla fine del 2007 ancora con il fiato corto, forse più che per una sensazione di scarsa fiducia nel futuro che per oggettive difficoltà o incertezze economiche".

I consumi hanno ripreso però a crescere: +1,6 per cento nel 2006, +2 per cento nel primo semestre del 2007, ma il reddito disponibile stenta ad aumentare, e pertanto frena la richiesta di mutui (+7 per cento nel primo semestre 2007 a fronte di un +21,1 per cento del corrispondente periodo del 2006) e quella del credito al consumo. Anche perché fra i 2,4 milioni di famiglie che hanno in piedi un mutuo e che hanno un reddito medio basso, l'innalzamento dei tassi sta creando problemi, afferma il direttore del Censis Giuseppe Roma: "circa 420 mila si trovano in difficoltà mentre 110 mila potrebbero avere gravi problemi di insolvenza". Ma anche chi non ha questo tipo di problema, deve cercare di arrangiarsi per via dell'erosione del potere d'acquisto dei salari: da qui le scelte di acquisti “low cost”.

Questo è un fenomeno gravissimo, segnale di una tendenza terzomondista dell’economia e dei consumi: la micidiale erosione delle disponibilità economiche, largamente impiegate per far fronte ad una tassazione vorace ed opprimente, si è tradotta nel progressivo annullamento per la spesa voluttuaria e per la cultura e comincia ad intaccare i consumi primari, come gli alimentari, con sempre maggior ricorso ad hard discount e prodotti non di marca.

A tutto ciò fa da contraltare la rarefazione di nuove opportunità di lavoro, che nel caso delle donne ci vede ormai fanalino di coda dei Paesi industrializzati e superati persino dalla Grecia, e lo stato di perenne precarietà del lavoro acquisito. Non occorre avere nozioni di economia per sapere che senza la creazione di nuove fonti di reddito ed un allargamento della base dei suoi percettori non può esserci aumento dei consumi e, dunque, l’innesco del circolo virtuoso promotore dello sviluppo. Ciononostante, i nostri governanti appaiono assolutamente incapaci di cogliere la portata scellerata della loro azione amministratrice e non hanno mosso un dito per rompere la spirale precarietà-disoccupazione nella quale si dibattono giovani ed ultracinquantenni. La loro azione appare anzi serva di un sistema di imprese affamato di profitti e sempre più concentrato ad analizzare la convenienza a delocalizzare piuttosto che a ridistribuire in reddito parte dei pingui proventi realizzati anche con l’introduzione dell’euro.

Ne deriva una rinata propensione migratoria, che, a differenza del passato, non coinvolge solo manodopera finita, ma coinvolge il mondo studentesco che preferisce una laurea all’estero, con il vantaggio di acquisire anche la conoscenza di una lingua straniera, a quella in un Paese nel quale il titolo di studio sta divenendo un poster da attaccare alla parete. Insomma, sintetizza Giuseppe Roma, se prima "c'era la fuga dei cervelli, adesso c'è la fuga e basta". Un ennesimo dato che dimostra come le soluzioni italiane per uscire da un sistema bloccato siano assolutamente individuali, in mancanza di una seria evoluzione collettiva ed una coscienziosa politica di attenzione e sostegno delle istituzioni. Nel 2006, erano iscritti in facoltà universitarie estere 38.690 studenti, di cui il 19,9 per cento in Germania, seguiti da Austria, Gran Bretagna, Svizzera, Francia e Stati Uniti. Dal 2001 al 2006 inoltre l'Italia è stata, dopo Francia, Germania e Spagna la nazione da cui sono partiti più studenti Erasmus (in totale 92.010). Nel 2006 oltre 11.700 laureati hanno trovato lavoro all'estero.
Il numero delle imprese estere partecipate da aziende italiane è arrivato a quota 17.200 per un volume di addetti che supera il milione. Nel 2006 inoltre il numero degli italiani che ha trasferito all'estero la propria residenza è aumentato del 15,7 per cento rispetto all'anno precedente.

Comunque, conclude il Censis, quantunque l’80% degli Italiani dichiari sfiducia nella politica ed in chi la rappresenta, a prescindere dalla collocazione partitica, la base sociale non solo è specchio fedele della pochezza dei propri rappresentanti, ma paradossalmente è persino peggiore, dato che per uscire dal declino in cui si sente inesorabilmente precipitare immagina scappatoie che nulla hanno a che fare con principi di legalità e di solidarietà sociale, anzi il mors tua vita mea appare essere il principio ispiratore del terzo millennio.

Non c’è che dire, uno sconfortante quadro senza speranza!

venerdì, dicembre 07, 2007

Il grande fallimento della sinistra


Venerdì, 7 dicembre 2007

Per quanto potrebbe apparire prematuro, per il Governo Prodi è già stagione di bilanci. Ad un anno e mezzo abbondante dalla sua elezione i conflitti che ne dilaniano la tenuta, infatti, sono tali da rendere del tutto impensabile che possa concludere il suo mandato nei tempi di durata della legislatura, dovendosi ritenere molto più probabile che, alla conclusione dell’approvazione della finanziaria, siano forti le eventualità di un ritorno alle urne.

Che l’ipotesi non sia peregrina è confermato da una serie di segnali forti, provenienti da tutti i settori della coalizione, che stanno esplicitando quanto siano sordidi i rancori dell’un contro l’altro accumulatisi specialmente negli ultimi mesi di governo, in cui le mediazioni sono state sempre più difficili e trovare la quadra di filosofie politiche divergenti si è dimostrato compito arduo persino per esperto prestigiatore.

L’ipotesi di ritorno alle urne si è inoltre rinforzata alla luce anche delle dichiarazioni di Fausto Bertinotti, presidente della Camera, che, nel corso di un’intervista oggetto di durissimi attacchi da parte degli alleati, ha cantato il de profundis all’esperienza politica della compagine governativa ed ha sostenuto come l’esaurimento dei principi di programma, che avevano dato corpo all’Unione, sia nei fatti e tale da non lasciare alcun margine alla prosecuzione di un cammino comune al PRC con i suoi compagni d’avventura.

Il giudizio del leader storico della sinistra radicale e progressista è tale da non lasciare margine alcuno di dubbio, sebbene il sottosegretario Micheli, compagno di merende del Presidente del Consiglio già da tempi dell’IRI, non abbia perso un minuto a tacciare le dichiarazioni del Presidente della Camera come prive “del minimo senso dello stato”, nella speranza forse di un loro improbabile rientro. Anzi, le velenose conclusioni di Micheli hanno solo prodotto il risultato di radicalizzare la presa di posizione del PRC in difesa del loro leader, che in quanto a senso dello stato o della democrazia non pensiamo abbia bisogno di prendere lezioni dal primo astioso censore di passaggio. In più, se per dimostrare questa vocazione è necessario, - come nei fatti è accaduto, - sottostare ad ogni sorta di ricatto di un governo composito, che vuole il ruolo del PRC ridotto a ruota di scorta del suo viatico o, al più, a stampella parlamentare delle sue decisioni, per quanto forse tardiva, la presa di coscienza del fallimento di un progetto programmatico di guida del Paese da parte di questa coalizione è un atto dovuto e necessario.

D’altra parte, - ed è doloroso ammetterlo, - nei suoi 17 mesi di vita il governo Prodi ha fatto molto poco e quel poco, sotto la spinta di veti incrociati e di minacciosi ricatti di disimpegno dalla coalizione, ha spesso prodotto provvedimenti persino peggiorativi di ciò che si è inteso riformare. Si pensi alla riforma della giustizia, che nei fatti ha ricalcato la preesistente legge varata dall’amministrazione Berlusconi, che ha scontentato ulteriormente quanti già erano scontenti. La riformina del fisco e delle aliquote, vanificata dall’onerosissima finanziaria dello scorso anno, che ha ridotto allo stremo un Paese già in ginocchio. L’incredibile riforma delle pensioni, straordinariamente peggiorativa del tanto deprecato progetto Maroni, oltre che atto di inqualificabile tradimento del programma elettorale e del mandato popolare. Le liberalizzazioni di Bersani, che nulla hanno liberalizzato, ma che hanno scatenato la più squallida delle ritorsioni di assicurazioni, compagnie telefoniche e dei clan toccati dal provvedimento, a danno e beffa dei consumatori. L’assenza più totale di interventi, se non di facciata, a favore dell’occupazione giovanile e per la rimozione della piaga purulenta del precariato. Senza parlare dell’assenza più totale di quei meccanismi di controllo e di governo del paese reale che avrebbero dovuto vigilare sulla realizzazione dei provvedimenti atti a cambiare la rotta di una povertà sempre più diffusa ed allarmante; sebbene la stessa sinistra, quando era all’opposizione, avesse fatto di questa assenza di sistemi di controllo uno dei cavalli della propria battaglia contro il dicastero Berlusconi.

La verità vera è che questa coalizione, forte dell’esperienza degli illusionisti che l’avevano preceduta, si è fatta prendere la mano dall’idea che il popolo fosse ormai talmente avvezzo a farsi tulurpinare dalle dichiarazioni altisonanti e dai giochi delle tre carte, che ha sistematicamente creduto di poter incantare i gonzi al suono del piffero magico, grazie all’ostentazione del profilo pacioso e rassicurante di un musicista stonato di Bologna, mosso solo dalle ambizioni personali di potere ed incline a far promesse al vento, ma incapace di guidare con la dovuta autorità persino un’associazione bocciofila.

Ne è derivato un tracollo di fiducia nell’esecutivo, misto ad una rabbia per le evidenti e deliberate inadempienze alle promesse elettorali, senza precedenti, nel quale si son trovate coinvolte anche le componenti politiche che, da sempre, godevano di una credibilità inossidabile, magari senza doverne condividere necessariamente la progettualità.

Alla luce di queste considerazioni, le parole ed i distinguo di Bertinotti appaiono del tutto fuori luogo e non per una sospetta mancanza di senso dello stato, come vorrebbe il signor Micheli, quanto perché il malessere del suo partito e della sinistra radicale tutta non è dell’ultimora, ma affonda le radici in un anno di veleni somministrati loro dal resto della maggioranza e nella copertura che hanno in ogni caso dato ad un’azione di governo che definire squallida e fallimentare è solo un complimento.

Quali fossero i legami che potevano congiungere Dini a Diliberto o Mastella a Giordano era un mistero prima della tornata elettorale e rimangono un’inestricabile rebus dopo 17 mesi in cui questi personaggi non risulta si siano mai parlati, se non per il tramite dell’imbonitore Prodi, che a tutti prometteva e tutti tranquillizzava, ma prestava orecchi solo a Dalema e Rutelli in quanto espressione di una maggioranza-guida. Non potendosi ritenere questi navigati leader della sinistra degli sprovveduti, avranno il lor daffare per spiegare al proprio elettorato che hanno preso atto di queste incompatibilità solo di recente ed alla luce dei tranelli perpetrati ai loro danni.

Gli errori di questa sinistra non sono stati episodici, ma sistematici ed aggravati oltre ogni misura dallo sberleffo di un neocentrismo revisionista, che con la testa di cuoio Damiano è riuscita a dimostrare quanto abbia effettivamente in pugno la leadership del movimento operaio, che ha approvato una riforma del welfare a dir poco demenziale. Adesso tutti indistintamente si troveranno coinvolti nell’ondata di sfiducia di un elettorato ai limiti della sopportazione per un esecutivo parolaio e truffaldino; travolti dal legittimo desiderio di dare il benservito ad una sinistra che, piaccia o meno, ha governato in modo vergognoso ed infischiandosene dei reali bisogni del Paese.

E’ del tutto inutile che Prodi faccia ora ricorso alla reiterata fiducia ora alla Camera ed ora al Senato, con l’intento di dare ossigeno ad un governo moribondo e per far sì che il dissenso, che dovesse emergere, si dovrà assumere la responsabilità di un ritorno alle urne e della riconsegna nelle mani di Berlusconi della guida dell’esecutivo. I cittadini sanno ormai discernere le responsabilità vere da quelle pretestuose, anche se non per questo assolveranno Bertinotti o Diliberto o Giordano dall’ignavia in cui hanno scelto di inchiodarsi e per l’insussistenza dei risultati consuntivati.


Qualche giorno fa l’eclettico Cavaliere di Arcore, a proposito della fine della Casa delle Libertà, - peraltro da lui decretata con le improvvide azioni intraprese, - ha definito la sua ex coalizione un ectoplasma. Paradossalmente ci pare che la definizione sia più congeniale a qualificare l’Unione, dato il fallimento della sua esperienza e l’improbabile possibilità di ritornare per tanti lunghi anni al governo degli Italiani; Italiani al cui esordio avevano gioito speranzosi in un stato più equo e solidale, salvo dover constatare che da oltre un ventennio nella politica del nostro bel Paese alligna solo una modestia ed un disprezzo per il cittadino ed i suoi bisogni del tutto esemplari, qualunque sia il colore e la direzione dei governi.

domenica, dicembre 02, 2007

Benedetto XVI il Restauratore

Domenica, 2 dicembre 2007
Uno spettro si aggira per il mondo, uno spettro reazionario e restauratore rappresentato dalla Chiesa cattolica ed incarnato dal suo massimo esponente, quel Benedetto XVI seguito a Giovanni Paolo II, che sin dalla sua nomina a capo del Vaticano non hai mai fatto mistero della sua concezione del cattolicesimo come espressione di conservazione oltranzista.
Già tra i più stretti collaboratori di papa Woitila, l’esordio del suo pontificato ha inaugurato per la chiesa universale un clamoroso tentativo di restaurare alcuni dei concetti più oscurantisti della dottrina cattolica, bloccando di fatto tutte gli spiragli ad un modernismo concreto apertisi con l’era di Giovanni Paolo II.
Il tentativo di riportare la Chiesa cattolica nell’alveo del dogmatismo ortodosso, contrassegnato da clamorosi incidenti nei rapporti con le altre comunità religiose, tra queste la tormentata comunità islamica, lo vede incalzante autore di messaggi al mondo con il dichiarato obiettivo di restaurare una fede incardinata su valori manifestamente anacronistici e privi di ogni aderenza al comune sentimento morale ed etico del terzo millennio.
Tali tentativi, più che ottenere il risultato prefisso, nei fatti contribuiscono a consolidare il processo di secolarizzazione, cioè l’abbandono di un comportamento di tipo sacrale, l'allontanamento da schemi tradizionali, da posizioni dogmatiche e aprioristiche, poiché non tengono in alcun conto l’insieme delle modifiche socio-culturali che hanno interessano tutti i valori, le identità, le appartenenze forti, anche laiche o laicizzate che, con il pontificato di Giovanni Paolo II, avevano sperimentato un armonico mudus vivendi. Questo processo, tipico dei paesi occidentali in età contemporanea, che porta ad agire e a pensare (relativamente alla natura, al destino, al ruolo dei cittadini) in modo sperimentale e razionale, non è pensabile possa subire battute d’arresto, trattandosi di un patrimonio culturale indelebile la cui velocità metabolica è fortemente accelerata dai processi di globalizzazione planetaria. Né può sottostimarsi che a questo processo hanno contribuito pietre miliari della storia dell’umanità: l'attuazione dell'istruzione obbligatoria, l'espansione dell'istruzione in generale e dei mezzi di comunicazione di massa, la mobilitazione sociale (urbanizzazione, industrializzazione, mobilità di classe), che presentano un’evidente refrattarietà ad ogni rigurgito restauratore. Questo processo di grande complessità, nella misura in cui indica la perdita di incidenza delle chiese nella quotidianità umana, assume addirittura un significato pregnante di scristianizzazione e dereligionizzazione. Singolarmente, una parte della teologia l'ha letta, al contrario, come inveramento del cristianesimo e del neo-fideismo, grazie alla distruzione che essa realizza del “tempio” e dei suoi simboli di separazione e di potere. Identificata con il tramonto delle ideologie, secondo i teologi, mette in crisi anche altri soggetti, come lo stato, o i grandi partiti e movimenti di massa, ai quali contestano la pretesa di porsi come centro sacrale nella storia del mondo.
Ecco che la difesa ad oltranza della vita anche nelle sue forme potenziali e primordiali, con la messa all’indice di anticoncezionali, aborto persino terapeutico o conseguente lo stupro, convivenza senza matrimonio, omosessualità, o i recenti feroci attacchi alla cultura dell’illuminismo, dichiarato morto ed esperienza fallimentare, sembrano più che i rantoli di un teologismo bigotto ed allo stremo un disegno preordinato, agognante un improbabile neo medioevo fatto di obnubilazione delle coscienze, destinato a rendere sempre più incolmabile il baratro perennemente in espansione tra clericalismo e laicismo.
Insensibile ai conquistati insuccessi, Benedetto XVI in queste ore attacca anche l’ONU, accusando il consesso internazionale di “relativismo morale”, in quanto imporrebbe «stili di vita» che calpestano il valore della vita medesima. Secondo Ratzinger il problema risiederebbe nel mancato riconoscimento della centralità della «legge morale naturale» e nella mancata difesa della «dignità dell’uomo». Non uccidere è un comandamento che vale per tutti. È il fondamento dell’etica umana. Su un principio del genere non ci sono se, ma o quando. È inderogabile. È non negoziabile. Assoluto.
Naturalmente, questa visione minimalistica dell’autodeterminazione umana, prescinde da ogni valutazione di liceità sugli stupri di massa in Kossovo, Bosnia, Darfour e in tutte quelle aree del mondo, in cui il frutto della bestialità umana non può trovare alcuna giustificazione divina e di fede.
Davanti a quella che rischia di apparire solo una becera arroganza, la Chiesa, che dichiara tolleranza, umiltà, e pacifica convivenza tra i popoli, forse dovrebbe dar prova di maggiore coerenza, magari avviando quel processo di pulizia al proprio interno che la rendano agli occhi del mondo più autorevole e credibile; intraprendendo quelle opere di rifondazione improrogabili e sempre negate, dato che i Marcinkus non sono stati il prodotto della laicità, ma le storture di una clericalismo rimasto, nei fatti, avidamente abbarbicato alla temporalità del potere. Forse sarebbe opportuno che il sedicente capo della Chiesa universale, la guida del cattolicesimo, la voce contraddittoria dell’Onnipotente, ammettesse che l’omosessualità non è una patologia, rendendo con ciò merito alla sua indiscussa intelligenza, ma una manifestazione della natura che, in quanto tale, non può essere confinata in una nuova Daccau o Auschwitz.
Negli organismi internazionali spesso vince il relativismo morale, dice Benedetto XVI: «Viene così di fatto ad imporsi una concezione del diritto e della politica, il cui consenso tra gli Stati, ottenuto talvolta in funzione di interessi di corto respiro o manipolato da pressioni ideologiche, risulterebbe essere la sola ed ultima fonte delle norme internazionali». L’etica dell’egoismo e le ideologie cancellano - secondo il Pontefice - le leggi della morale naturale. «I frutti amari di tale logica relativistica nella vita internazionale sono purtroppo evidenti: si pensi ad esempio al tentativo di considerare come diritti dell’uomo le conseguenze di certi stili egoistici di vita; oppure al disinteresse per le necessità economiche e sociali dei popoli più deboli, o al disprezzo per il diritto umanitario, e ad una difesa selettiva dei diritti umani». C’è una via d’uscita, una speranza dichiara il Papa, «Vi incoraggio a combattere il relativismo in modo creativo, presentando la grande verità sull'innata dignità dell'uomo come un insieme di principi etici non negoziabili».
No vi è alcun dubbio che le parole del Pontefice, estrapolate dal contesto di riferimento, presentano una condivisibile esortazione a rinforzare l’azione internazionale di tutela di valori ecumenici e, comunque, dei più deboli. Tuttavia, rimane il dovere etico della Chiesa non solo di stare in prima linea nella difesa di questi principi, ma dare primariamente esempio concreto di una volontà missionaria atta a favorire le condizioni di tutela di quella dignità dell’uomo, non alzando le barriere al dissenso o promuovendo nostalgici appelli all’arroccamento oltranzista, ma con l’esempio concreto di quel primato morale che nel corso della storia non sempre ha esercitato, o con la scomunica di un dissenso frutto dell’evoluzione etica e morale dei tempi.