Federalismo cinico
Mercoledì, 10 settembre 2008
Adesso che Calderoli ha scoperto le carte della Lega sul federalismo ed i nodi cominciano a venire al pettine è anche più chiaro il significato delle recenti affermazioni di Bossi circa la necessità di resuscitare l’appena defunta ICI. E l’insistenza su questo tasto è tale da non ammettere fraintendimenti ed equivoci: i Comuni hanno perso la fonte più rilevante delle loro entrate e adesso boccheggiano alla ricerca di nuovi meccanismi d’introito per garantire il mantenimento dei servizi ai cittadini e, in molti casi, per pagare gli stipendi ai propri dipendenti.
Nel frattempo, il Governo centrale, con i suoi inutili apparati, il Parlamento e le centinaia di istituzioni pressoché inutili che divorano il bilancio dello stato continuano imperterriti i bagordi, dato che un centesimo non è stato tagliato dalle loro dotazioni e della tanto auspicata pulizia di privilegi feudali cui godono i nostri sedicenti rappresentanti politici non si parla più.
Certo, Berlusconi deve passare notti insonni, divorato come sarà dal dubbio che prima o poi il giocattolo messogli in mano dai quattro rissosi che l’hanno preceduto, più per demerito loro che per merito suo, si sfasci a causa di un assestato colpo di coda di quella Lega, a cui tutto si può dire, tranne che d’essere distratta o incoerente rispetto al grande tema del federalismo con il quale si gioca ormai da anni il sostegno incondizionato della propria base elettorale.
Il punto è che Berlusconi non può consentire a sua volta che gli elettori gli rinfaccino di averli tulurpinati con il più classico gioco delle tre carte: oggi ti tolgo l’ICI e domani te la reintroduco, magari con un altro nome. Di sicuro non può permettersi di stringere all’angolo Bossi e le sue orde, pertanto è pensabile che schiere di fattucchiere, alchimisti e sciamani stiano sperimentando con tanto di pentoloni ed ingredienti magici la pozione migliore per risolvere l’intricata faccenda. Ovviamente non trattandosi di trasformare ranocchi in principi azzurri né disgustose racchie in avvenenti veline, ma di trovare soldoni sonanti l’impresa appare disperata, dato che gli Italiani sono ormai da tempo con le pezze lì dove non batte il sole e sotto le braghe pare sia ormai di moda non mettere più le mutande, sì da risparmiare qualche spicciolo da dirottare all’acquisto di pane e pasta.
Naturalmente l’opposizione insorge, ma questa volta non è sola, perché, sebbene con diverse motivazioni, l’urlo è bipartisan. La Russa ha tuonato contro l’ipotesi di Calderoli, affermando che “mai ci saranno nuove tasse fino a quando AN sarà al governo”, mentre Veltroni sulla reintroduzione dell’ICI ha parlato di “un provvedimento sul quale non potrà mai essere d’accordo”. Berlusconi smentisce qualunque ritorno al passato, ma al di là dello slogan non anticipa nulla sulle soluzioni possibili per contentare la Lega e non scontentare gli elettori.
Ma a prescindere da queste polemiche di fine estate su una questione che, se non affrontata con la dovuta cautela, rischia di divenire l’esplosivo su cui far saltare la coalizione come è avvenuto per la precedente con la riforma delle pensioni, è istruttivo leggere il progetto Calderoli, che sin dalle prime righe lascia trasparire come il suo, più che federalismo, sia in realtà una definitiva divisione del Paese in aree ricche ed are povere. Assunto che il fulcro del progetto è l’azzeramento dei trasferimenti dalle Regioni al centro, trasferimenti che trovano impiego in una sorta di redistribuzione solidale a favore delle aree meno ricche del Paese, il futuro immaginato con l’attuazione di tale disegno vedrebbe regioni fortemente indebitate e costrette a tagliare servizi o a tartassare i propri cittadini e regioni opulenti con surplus accantonati perché dotate di infrastrutture socio-economiche di tutto riguardo.
Un progetto così concepito, almeno sino a quando quest’Italia potrà fregiarsi del titolo di stato unitario, appare francamente improponibile. Né va dimenticato che le ingenti risorse del Nord sono anche il frutto di un’emigrazione dal profondo Sud, che ha creato solide basi di benessere, ma non ha trasferito l’allocazione di quelle risorse che avrebbero potuto consentire all’area meridionale della Penisola di affrancarsi.
Né sarebbe lecito controbattere alla precedente considerazione elencando i fiumi di contributi stanziati con la Cassa per il Mezzogiorno, prima, e con Sviluppo Italia o la Comunità Europea, dopo e nel corso degli anni, poiché in questo caso si aprirebbero capitoli spiacevoli sul ruolo della politica nostrana nell’allegra quando non truffaldina gestione di queste provvidenze e sulla funzionalità che il Sud ha avuto nello sviluppo del Nord, grazie alla produzione di un esercito industriale di riserva di marxiana memoria. A comprovare questo incancrenito stato di cose vi è la perseverante politica ancora in atto di sottodotazione del Sud: collegamenti ferroviari e stradali da terzo mondo, assenza di industrializzazione forte e di grandi dimensioni, in grado di generare un positivo effetto emulativo, sistema malavitoso e di corruttela mai sradicato e diffuso, mancata incentivazione delle vocazionalità territoriali, sostanziale arretratezza dell’economia primaria e forte frammentazione del settore commerciale , elevata concentrazione delle opportunità di lavoro nell’ambito della pubblica amministrazione, che generano insostenibili costi per l’erogazione di servizi non supportati, peraltro, da una adeguata qualità.
In questa prospettiva, il federalismo non può che suonare come il presagio di una rinascita di scontri sociali di difficile governo, in quanto i sacrifici che sarebbero imposti alla collettività meridionale dal ridimensionamento dei consumi e dei servizi mal risponderebbero ad un tessuto nazionale, che, almeno nello stile di vita, già da tempo ha azzerato ogni distanza regionale. Evidentemente coloro che parlano di federalismo in modo serio e non certo opportunistico e cinico,come fanno i maggiorenti della Lega, ai quali non par vero di aver surrogato con la forza lavoro extracomunitaria i Meridionali disperati degli anni ‘50/’60, non possono non tenere in debito conto le sciagurate distorsioni che si introdurrebbero per effetto della regionalizzazione indiscriminata delle risorse autoctone. Uno stato che perdesse il senso dell’equità solidale non sarebbe più tale ed imprimerebbe una spinta secessionista alle aree più ricche ed un moto di ribellione nelle aree più sfortunate del Paese, - le cui conseguenze non sono prevedibili in un’epoca nella quale si assiste sempre più al trionfo degli egoismi ed alla rivolta cruenta dei disperati. E’ altrettanto vero che non è più possibile accettare un Paese a due velocità, con un Nord che continua a tirare il carro ed usufruisce largamente al di sotto di ciò che produce, ed un Sud a rimorchio, che sperpera in inauditi parassitismi la rendita sociale proveniente dalla ripartizione solidale della ricchezza nazionale.
Se non avessimo certezza di predicare utopia potremmo dire che forse è arrivato il momento definitivo di cambiare registro e creare le condizioni per un governo d’unità e d’emergenza nazionale, che, superati i biechi ed insulsi interessi di parte, ed affronti, scevro da condizionamenti ideologici e politici, una nuova “questione Paese”, che estirpi le cancrene più vistose, prima che si trasformino in inguaribili metastasi, e ridia fiducia e voglia di fare alla gente, a quella gente che vede ormai nella politica il vero ed unico nemico, un mostro che gradatamente e inesorabilmente giorno dopo giorno avvilisce il vivere civile e la speranza. E’ evidente che se il federalismo in discussione non soddisferà questi requisiti avrà già fallito sul nascere i suoi obiettivi.
Nel frattempo, il Governo centrale, con i suoi inutili apparati, il Parlamento e le centinaia di istituzioni pressoché inutili che divorano il bilancio dello stato continuano imperterriti i bagordi, dato che un centesimo non è stato tagliato dalle loro dotazioni e della tanto auspicata pulizia di privilegi feudali cui godono i nostri sedicenti rappresentanti politici non si parla più.
Certo, Berlusconi deve passare notti insonni, divorato come sarà dal dubbio che prima o poi il giocattolo messogli in mano dai quattro rissosi che l’hanno preceduto, più per demerito loro che per merito suo, si sfasci a causa di un assestato colpo di coda di quella Lega, a cui tutto si può dire, tranne che d’essere distratta o incoerente rispetto al grande tema del federalismo con il quale si gioca ormai da anni il sostegno incondizionato della propria base elettorale.
Il punto è che Berlusconi non può consentire a sua volta che gli elettori gli rinfaccino di averli tulurpinati con il più classico gioco delle tre carte: oggi ti tolgo l’ICI e domani te la reintroduco, magari con un altro nome. Di sicuro non può permettersi di stringere all’angolo Bossi e le sue orde, pertanto è pensabile che schiere di fattucchiere, alchimisti e sciamani stiano sperimentando con tanto di pentoloni ed ingredienti magici la pozione migliore per risolvere l’intricata faccenda. Ovviamente non trattandosi di trasformare ranocchi in principi azzurri né disgustose racchie in avvenenti veline, ma di trovare soldoni sonanti l’impresa appare disperata, dato che gli Italiani sono ormai da tempo con le pezze lì dove non batte il sole e sotto le braghe pare sia ormai di moda non mettere più le mutande, sì da risparmiare qualche spicciolo da dirottare all’acquisto di pane e pasta.
Naturalmente l’opposizione insorge, ma questa volta non è sola, perché, sebbene con diverse motivazioni, l’urlo è bipartisan. La Russa ha tuonato contro l’ipotesi di Calderoli, affermando che “mai ci saranno nuove tasse fino a quando AN sarà al governo”, mentre Veltroni sulla reintroduzione dell’ICI ha parlato di “un provvedimento sul quale non potrà mai essere d’accordo”. Berlusconi smentisce qualunque ritorno al passato, ma al di là dello slogan non anticipa nulla sulle soluzioni possibili per contentare la Lega e non scontentare gli elettori.
Ma a prescindere da queste polemiche di fine estate su una questione che, se non affrontata con la dovuta cautela, rischia di divenire l’esplosivo su cui far saltare la coalizione come è avvenuto per la precedente con la riforma delle pensioni, è istruttivo leggere il progetto Calderoli, che sin dalle prime righe lascia trasparire come il suo, più che federalismo, sia in realtà una definitiva divisione del Paese in aree ricche ed are povere. Assunto che il fulcro del progetto è l’azzeramento dei trasferimenti dalle Regioni al centro, trasferimenti che trovano impiego in una sorta di redistribuzione solidale a favore delle aree meno ricche del Paese, il futuro immaginato con l’attuazione di tale disegno vedrebbe regioni fortemente indebitate e costrette a tagliare servizi o a tartassare i propri cittadini e regioni opulenti con surplus accantonati perché dotate di infrastrutture socio-economiche di tutto riguardo.
Un progetto così concepito, almeno sino a quando quest’Italia potrà fregiarsi del titolo di stato unitario, appare francamente improponibile. Né va dimenticato che le ingenti risorse del Nord sono anche il frutto di un’emigrazione dal profondo Sud, che ha creato solide basi di benessere, ma non ha trasferito l’allocazione di quelle risorse che avrebbero potuto consentire all’area meridionale della Penisola di affrancarsi.
Né sarebbe lecito controbattere alla precedente considerazione elencando i fiumi di contributi stanziati con la Cassa per il Mezzogiorno, prima, e con Sviluppo Italia o la Comunità Europea, dopo e nel corso degli anni, poiché in questo caso si aprirebbero capitoli spiacevoli sul ruolo della politica nostrana nell’allegra quando non truffaldina gestione di queste provvidenze e sulla funzionalità che il Sud ha avuto nello sviluppo del Nord, grazie alla produzione di un esercito industriale di riserva di marxiana memoria. A comprovare questo incancrenito stato di cose vi è la perseverante politica ancora in atto di sottodotazione del Sud: collegamenti ferroviari e stradali da terzo mondo, assenza di industrializzazione forte e di grandi dimensioni, in grado di generare un positivo effetto emulativo, sistema malavitoso e di corruttela mai sradicato e diffuso, mancata incentivazione delle vocazionalità territoriali, sostanziale arretratezza dell’economia primaria e forte frammentazione del settore commerciale , elevata concentrazione delle opportunità di lavoro nell’ambito della pubblica amministrazione, che generano insostenibili costi per l’erogazione di servizi non supportati, peraltro, da una adeguata qualità.
In questa prospettiva, il federalismo non può che suonare come il presagio di una rinascita di scontri sociali di difficile governo, in quanto i sacrifici che sarebbero imposti alla collettività meridionale dal ridimensionamento dei consumi e dei servizi mal risponderebbero ad un tessuto nazionale, che, almeno nello stile di vita, già da tempo ha azzerato ogni distanza regionale. Evidentemente coloro che parlano di federalismo in modo serio e non certo opportunistico e cinico,come fanno i maggiorenti della Lega, ai quali non par vero di aver surrogato con la forza lavoro extracomunitaria i Meridionali disperati degli anni ‘50/’60, non possono non tenere in debito conto le sciagurate distorsioni che si introdurrebbero per effetto della regionalizzazione indiscriminata delle risorse autoctone. Uno stato che perdesse il senso dell’equità solidale non sarebbe più tale ed imprimerebbe una spinta secessionista alle aree più ricche ed un moto di ribellione nelle aree più sfortunate del Paese, - le cui conseguenze non sono prevedibili in un’epoca nella quale si assiste sempre più al trionfo degli egoismi ed alla rivolta cruenta dei disperati. E’ altrettanto vero che non è più possibile accettare un Paese a due velocità, con un Nord che continua a tirare il carro ed usufruisce largamente al di sotto di ciò che produce, ed un Sud a rimorchio, che sperpera in inauditi parassitismi la rendita sociale proveniente dalla ripartizione solidale della ricchezza nazionale.
Se non avessimo certezza di predicare utopia potremmo dire che forse è arrivato il momento definitivo di cambiare registro e creare le condizioni per un governo d’unità e d’emergenza nazionale, che, superati i biechi ed insulsi interessi di parte, ed affronti, scevro da condizionamenti ideologici e politici, una nuova “questione Paese”, che estirpi le cancrene più vistose, prima che si trasformino in inguaribili metastasi, e ridia fiducia e voglia di fare alla gente, a quella gente che vede ormai nella politica il vero ed unico nemico, un mostro che gradatamente e inesorabilmente giorno dopo giorno avvilisce il vivere civile e la speranza. E’ evidente che se il federalismo in discussione non soddisferà questi requisiti avrà già fallito sul nascere i suoi obiettivi.
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