Abruzzo, la schiacciante vittoria dell’antipolitica
Martedì, 16 dicembre 2008
Il partito dell’astensione, - ma sarebbe meglio chiamarlo il partito del rifiuto della politica, - ha trionfato nelle elezioni abruzzesi con il 47,02%, sbaragliando un arco costituzionale frammentato in varie liste di partiti minori (PdL, PD, IdV, UDC, PdCI, ed altre sigle), che ha portato a casa complessivamente un 52,98%. Naturalmente, questo partito non andrà al governo della regione, non avendo candidati in una lista, ma con la percentuale incassata rappresenta un’ipoteca straordinaria per chiunque assumerà la guida del governo locale.
Chiunque adesso canti vittoria da quei risultati, come il PdL, che ha conseguito il 35% dei voti dei voti espressi ed ha conquistato la maggioranza relativa, ma ha subito un calo di ben 7 punti rispetto alla percentuale registrata appena otto mesi orsono alle politiche, è in realtà perdente ed ha poco da raccontar frottole su come la politica del governo Berlusconi abbia influenzato il successo nella tornata di amministrative di cui si parla. In verità questi Signori del Potere dovrebbero avere la decenza di ammettere di essere solo i primi di una schiera di ultimi e finirla con il teatrino delle dichiarazioni roboanti ad uso e consumo dei fessi improbabili, che ancora prestano orecchio al canto delle sirene.
E’ vero, in democrazia vince chi ottiene il maggiore consenso di coloro che hanno espresso il proprio voto. Ma quando i non votanti sono quasi il 50% del corpo elettorale, chiunque abbia vinto ha il dovere di chiedersi quanto effettivamente sia di peso il suo ruolo e che impatto rappresentativo abbia sulla generalità del corpo elettorale. Chi non si ponesse questi quesiti e non assumesse l’astensionismo di massa come la spia tangibile di una sfiducia incalzante nei confronti della politica da Circo Massimo, con morti e feriti, con belve che sbranano reziari per i sollazzo di un pubblico ebete e scaduto nelle mollezze di una decadenza etica senza ritorno, non ha compreso che il limite della tolleranza popolare è sul punto di essere travalicato e, a quell’astensionismo, non potranno presto o tardi che seguire le sommosse di piazza.
In questo sfacelo del paese legale affogano tutti. Affoga il PD, che perde il 13% dei voti e cala al 20%; perde l’UDC di Ferdinando Casini, che rimane al 5%, ma non è in grado di convogliare nel proprio alveo un solo voto di quelli persi dal panorama d’opposizione; non risorge il PdCI né la sinistra massimalista di RC, anch’essa incapace di catturare il dissenso espresso alle formule del PD.
Il solo e vero vincitore di queste elezioni dal drammatico significato è Di Pietro e la sua IdV, che porta a casa un 15%, con un incremento di ben 7 punti sulla precedente percentuale alle politiche. E questo risultato, ancora una volta, va ben oltre la semplice lettura del numero, poiché è un messaggio gridato a quella traballante coalizione tra il suo partito ed il PD, che in campo nazionale si vuole da tempo ai ferri corti.
A dispetto del buonismo sconclusionato di Veltroni e di una strategia complessiva dell’opposizione rappresentata dal PD in sede parlamentare, l’IdV sta dimostrando che chi non condivide il progetto della maggioranza non sta certamente con D’Alema e Rutelli, né con Franceschini e Bindi, ma esige che l’opposizione si comporti da tale, facendo da contrapposizione dura ed inibitoria ad una politica di restaurazione e di reazione verso la quale non può aversi alcuna apertura, alcuna mano tesa o collaborazionismo tattico. E Di Pietro in quest’opposizione è l’unico che conduca con coerente pervicacia una battaglia di sbarramento al non credibile “volto umano” di una maggioranza, nei fatti, arrogante, maleducata, prevaricatrice, opportunista, serva di un leader che bada esclusivamente ai propri interessi, giudiziari ed economici, e non perde occasione per dimostrare il più profondo disprezzo per la critica, l’opposizione ed i fondamenti della democrazia.
Il PD, forse illuso di poter contrastare il Berlusconi-pensiero con la politica della mano tesa, non ha capito che il nostro Paese non è l’America, dove i principi di democraticità hanno radici profondissime e le contrapposizioni tra Repubblicani e Democratici non hanno mai base fondante sulla divergenza di interpretazione della libertà, l’equità della legge, il benessere comune, ma si contrappongono sulla prassi politica necessaria per la realizzazione di quei principi. Ciò non significa che il sistema americano non abbia le sue distorsioni o sia indenne da laceranti incongruenze. Ma in linea di principio non vi sono barriere ideologiche tra i partiti che si contendono il primato.
L’Italia è ben altra cosa. Intanto è figlia del campanilismo delle cento città mai sradicato sin dall’unità del Paese. Poi si trascina un divario Nord-Sud non solo industriale ed economico ma soprattutto sociale, che ha creato le condizioni per esasperare quel campanilismo ed ha generato un affarismo border line, che molto spesso si è sostituito allo stato di diritto nel risolvere i problemi della gente, quelli del lavoro, della sopravvivenza quotidiana e del riscatto sociale. Basti pensare al fallimento di ogni iniziativa in grado di generare uno sviluppo del Mezzogiorno degno dell’Europa in cui siede il Paese. A questa palese incapacità dello stato hanno supplito i comitati d’affari, la malavita organizzata e le clientele locali, che hanno garantito piogge di pensioni, accesso agli insufficienti posti di lavoro in aziende di ogni dimensione e l’ipertrofia di una pubblica amministrazione in surroga alla cronica carenza di opportunità d’impiego. Infine, non può stupire che questi potentati siano arrivati al punto di attrezzarsi per la designazione dei rispettivi rappresentanti in seno alla politica, chiudendo così un cerchio viziato da una drammatica osmosi tra affari e politica dalla quale non è facile venir fuori.
Ovviamente il modello non si è fermato al confine immaginario di un Mezzogiorno arretrato e subalterno, ma ha fatto scuola ed ha gradatamente invaso il Paese sino a divenire sorta di imprinting culturale di una “italianità di successo", nella quale ogni cosa importata da altre realtà si adatta ad uso e consumo dei malefici obiettivi delle corporazioni dominanti. Un esempio su tutti è la tanto decantata flessibilità del lavoro, che se in Inghilterra, Francia, America è effettivamente utilizzata per alleggerire i costi delle imprese, è anche uno strumento per colmare il divario tra la teoria scolastica e la prassi del lavoro effettivo, tant’è che ha una temporizzazione ed è propedeutica ad una stabilizzazione dell’impiego. Nel nostro Paese ciò che si spaccia per flessibilità è divenuto strumento di sfruttamento schiavistico di un esercito di giovani senza futuro, pagati con stipendi da fame e senza alcuna garanzia di poter venir fuori da un circolo vizioso più simile a meccanismi di prostituzione organizzata che non di moderno indirizzo all’impiego.
Un opposizione che non abbia colto questi aspetti salienti radicati nella nostra cultura ci sembra francamente fallimentare sul piano progettuale, mentre qualora li avesse colti, - cosa che appare assai improbabile alla luce dei fatti, - non può consentirsi politiche di mano tesa nei confronti di chi intende solo perpetuare lo stato delle cose ed asservire sempre più i cittadini al proprio bieco interesse. D’altra parte, il PD ha dimostrato durante il governo Prodi di non essere in grado incidere sulle enormi ingiustizie sociali che allignano nel Paese, perdendo il treno dell’onestà nel rispettare gli impegni con l’elettorato sulle pensioni e sul precariato del lavoro ed oggi non può che trascinarsi dietro le rate di pagamento di un’inadempienza verso l’elettorato di sinistra a cui non basta il melenso doppiopetto di Veltroni per ridargli credito.
Il partito dell’astensione, - ma sarebbe meglio chiamarlo il partito del rifiuto della politica, - ha trionfato nelle elezioni abruzzesi con il 47,02%, sbaragliando un arco costituzionale frammentato in varie liste di partiti minori (PdL, PD, IdV, UDC, PdCI, ed altre sigle), che ha portato a casa complessivamente un 52,98%. Naturalmente, questo partito non andrà al governo della regione, non avendo candidati in una lista, ma con la percentuale incassata rappresenta un’ipoteca straordinaria per chiunque assumerà la guida del governo locale.
Chiunque adesso canti vittoria da quei risultati, come il PdL, che ha conseguito il 35% dei voti dei voti espressi ed ha conquistato la maggioranza relativa, ma ha subito un calo di ben 7 punti rispetto alla percentuale registrata appena otto mesi orsono alle politiche, è in realtà perdente ed ha poco da raccontar frottole su come la politica del governo Berlusconi abbia influenzato il successo nella tornata di amministrative di cui si parla. In verità questi Signori del Potere dovrebbero avere la decenza di ammettere di essere solo i primi di una schiera di ultimi e finirla con il teatrino delle dichiarazioni roboanti ad uso e consumo dei fessi improbabili, che ancora prestano orecchio al canto delle sirene.
E’ vero, in democrazia vince chi ottiene il maggiore consenso di coloro che hanno espresso il proprio voto. Ma quando i non votanti sono quasi il 50% del corpo elettorale, chiunque abbia vinto ha il dovere di chiedersi quanto effettivamente sia di peso il suo ruolo e che impatto rappresentativo abbia sulla generalità del corpo elettorale. Chi non si ponesse questi quesiti e non assumesse l’astensionismo di massa come la spia tangibile di una sfiducia incalzante nei confronti della politica da Circo Massimo, con morti e feriti, con belve che sbranano reziari per i sollazzo di un pubblico ebete e scaduto nelle mollezze di una decadenza etica senza ritorno, non ha compreso che il limite della tolleranza popolare è sul punto di essere travalicato e, a quell’astensionismo, non potranno presto o tardi che seguire le sommosse di piazza.
In questo sfacelo del paese legale affogano tutti. Affoga il PD, che perde il 13% dei voti e cala al 20%; perde l’UDC di Ferdinando Casini, che rimane al 5%, ma non è in grado di convogliare nel proprio alveo un solo voto di quelli persi dal panorama d’opposizione; non risorge il PdCI né la sinistra massimalista di RC, anch’essa incapace di catturare il dissenso espresso alle formule del PD.
Il solo e vero vincitore di queste elezioni dal drammatico significato è Di Pietro e la sua IdV, che porta a casa un 15%, con un incremento di ben 7 punti sulla precedente percentuale alle politiche. E questo risultato, ancora una volta, va ben oltre la semplice lettura del numero, poiché è un messaggio gridato a quella traballante coalizione tra il suo partito ed il PD, che in campo nazionale si vuole da tempo ai ferri corti.
A dispetto del buonismo sconclusionato di Veltroni e di una strategia complessiva dell’opposizione rappresentata dal PD in sede parlamentare, l’IdV sta dimostrando che chi non condivide il progetto della maggioranza non sta certamente con D’Alema e Rutelli, né con Franceschini e Bindi, ma esige che l’opposizione si comporti da tale, facendo da contrapposizione dura ed inibitoria ad una politica di restaurazione e di reazione verso la quale non può aversi alcuna apertura, alcuna mano tesa o collaborazionismo tattico. E Di Pietro in quest’opposizione è l’unico che conduca con coerente pervicacia una battaglia di sbarramento al non credibile “volto umano” di una maggioranza, nei fatti, arrogante, maleducata, prevaricatrice, opportunista, serva di un leader che bada esclusivamente ai propri interessi, giudiziari ed economici, e non perde occasione per dimostrare il più profondo disprezzo per la critica, l’opposizione ed i fondamenti della democrazia.
Il PD, forse illuso di poter contrastare il Berlusconi-pensiero con la politica della mano tesa, non ha capito che il nostro Paese non è l’America, dove i principi di democraticità hanno radici profondissime e le contrapposizioni tra Repubblicani e Democratici non hanno mai base fondante sulla divergenza di interpretazione della libertà, l’equità della legge, il benessere comune, ma si contrappongono sulla prassi politica necessaria per la realizzazione di quei principi. Ciò non significa che il sistema americano non abbia le sue distorsioni o sia indenne da laceranti incongruenze. Ma in linea di principio non vi sono barriere ideologiche tra i partiti che si contendono il primato.
L’Italia è ben altra cosa. Intanto è figlia del campanilismo delle cento città mai sradicato sin dall’unità del Paese. Poi si trascina un divario Nord-Sud non solo industriale ed economico ma soprattutto sociale, che ha creato le condizioni per esasperare quel campanilismo ed ha generato un affarismo border line, che molto spesso si è sostituito allo stato di diritto nel risolvere i problemi della gente, quelli del lavoro, della sopravvivenza quotidiana e del riscatto sociale. Basti pensare al fallimento di ogni iniziativa in grado di generare uno sviluppo del Mezzogiorno degno dell’Europa in cui siede il Paese. A questa palese incapacità dello stato hanno supplito i comitati d’affari, la malavita organizzata e le clientele locali, che hanno garantito piogge di pensioni, accesso agli insufficienti posti di lavoro in aziende di ogni dimensione e l’ipertrofia di una pubblica amministrazione in surroga alla cronica carenza di opportunità d’impiego. Infine, non può stupire che questi potentati siano arrivati al punto di attrezzarsi per la designazione dei rispettivi rappresentanti in seno alla politica, chiudendo così un cerchio viziato da una drammatica osmosi tra affari e politica dalla quale non è facile venir fuori.
Ovviamente il modello non si è fermato al confine immaginario di un Mezzogiorno arretrato e subalterno, ma ha fatto scuola ed ha gradatamente invaso il Paese sino a divenire sorta di imprinting culturale di una “italianità di successo", nella quale ogni cosa importata da altre realtà si adatta ad uso e consumo dei malefici obiettivi delle corporazioni dominanti. Un esempio su tutti è la tanto decantata flessibilità del lavoro, che se in Inghilterra, Francia, America è effettivamente utilizzata per alleggerire i costi delle imprese, è anche uno strumento per colmare il divario tra la teoria scolastica e la prassi del lavoro effettivo, tant’è che ha una temporizzazione ed è propedeutica ad una stabilizzazione dell’impiego. Nel nostro Paese ciò che si spaccia per flessibilità è divenuto strumento di sfruttamento schiavistico di un esercito di giovani senza futuro, pagati con stipendi da fame e senza alcuna garanzia di poter venir fuori da un circolo vizioso più simile a meccanismi di prostituzione organizzata che non di moderno indirizzo all’impiego.
Un opposizione che non abbia colto questi aspetti salienti radicati nella nostra cultura ci sembra francamente fallimentare sul piano progettuale, mentre qualora li avesse colti, - cosa che appare assai improbabile alla luce dei fatti, - non può consentirsi politiche di mano tesa nei confronti di chi intende solo perpetuare lo stato delle cose ed asservire sempre più i cittadini al proprio bieco interesse. D’altra parte, il PD ha dimostrato durante il governo Prodi di non essere in grado incidere sulle enormi ingiustizie sociali che allignano nel Paese, perdendo il treno dell’onestà nel rispettare gli impegni con l’elettorato sulle pensioni e sul precariato del lavoro ed oggi non può che trascinarsi dietro le rate di pagamento di un’inadempienza verso l’elettorato di sinistra a cui non basta il melenso doppiopetto di Veltroni per ridargli credito.
C’è da augurarsi che da questa nuova débacle la sinistra tutta tragga insegnamento e si avvii sulla strada di un radicale cambiamento di strategia e leadership, perché con un popolo allo stremo e smarrito non si guadagna la fiducia persa con borotalco ed ovatta, ma con un intelligente battaglia d’interdizione, dura quando necessario e aperta alla collaborazione quando gli interessi collettivi emergono chiari e trasparenti. Ed al momento questa capacità sembra averla solo Di Pietro e la sua IdV.
(nella foto, a sinistra Carlo Costantini, candidato dell'IdV, e a destra il vincitore della tornata elettorale Gianni Chiodi, sostenuto dal PdL)
2 Commenti:
Very good!
Gestiamo il nostro blog con la convinzione di rendere un contributo di idee a chi intende tenersi informato sui fatti della vita sociale ed affinché, da questo contributo, possa nascere un dibattito ed una riflessione sulle azioni che possono compiersi per migliorare il contesto in cui viviamo quotidianamente. Chi con commenti fuori luogo, che non censuriamo, non né ha afferrato lo spirito, evidentemente nuoce anche a se stesso.
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