La greppia del potere
Mercoledì, 17 dicembre 2008
A quanti non è capitato di inviare una lettera al proprio giornale per esprimere il proprio pensiero su un articolo da quello pubblicato o su un argomento di attualità sul quale ha inteso dire la sua.
Le rubriche di “lettere al direttore” sono presenti in tutti i giornali. Anzi costituiscono un vero e proprio veicolo di contatto tra redazioni e lettori, una modalità con la quale la stampa mantiene costantemente aperto l’ascolto sul mondo e i lettori trovano un riscontro indiretto alla rilevanza dei problemi che avvertono come veri e pressanti.
Nell’era di internet tale sistema di contatto è ormai divenuto uno strumento che opera quasi in tempo reale: l’articolista scrive e diffonde immediatamente la notizia, il lettore prende atto e s’informa e, immediatamente, è in grado di inviare il suo commento alla redazione affinché lo pubblichi con ulteriore commento di risposta.
Le cose, tuttavia, non sempre vanno in questa maniera, poiché nell’epoca del recupero gridato della democrazia e della libertà, valori così costantemente mortificati dalle classi dirigenti in politica, anche i giornali, questi sedicenti megafoni della gente, assumono comportamenti in palese contraddizione con le dichiarate ragioni per le quali hanno messo in piedi quelle rubriche e, a proprio piacimento ed insindacabile giudizio, censurano i commenti ritenuti scomodi o non in linea con gli obiettivi che si sono prefissi e non procedono ad alcuna pubblicazione.
Questa patologia, che non è circoscritti alla cosiddetta stampa minore, ma colpisce anche importanti giornali a tiratura nazionale, si palesa come un ulteriore gravissimo sintomo della democrazia malata del nostro tempo. La libertà di espressione diviene così una libertà vigilata di esternazione di pareri, concetti, valutazioni che debbono essere in linea con chi s’è arrogato un diritto di censura preventiva, che dà e toglie la parola senza alcuna possibilità di sindacare e di replica.
Oggi, per esempio, abbiamo inviato a la Repubblica un commento a margine dell’articolo Lavorare stanca soprattutto le donne, a firma di Mauro Ricci, nel quale viene descritta la situazione femminile nel nostro Paese in relazione alle proposta di Brunetta di parificare l’età per accedere al pensionamento, oggi previsto a 60 anni.
Abbiamo ritenuto doveroso segnalare che, al di là dell’irricevibilità della proposta, il disegno Brunetta è un ulteriore tassello tendente solo a cancellare nel tempo il sistema pensionistico. Oltre a ciò e coerentemente con quanto sosteniamo da tempo, in questa fase di grave crisi economica ed occupazionale, anziché pensare a riforme punitive, occorrerebbe ammorbidire i meccanismi vigenti ed agevolare il pensionamento di quanti, avendo già pagato, si vedono negato il diritto esclusivamente in forza di éscamotage di legge frutto di politiche della lesina del tutto anacronistiche, pur non avendo magari un lavoro o un reddito per sopravvivere.
la Repubblica, per motivi che rimangono misteriosi, non ha pubblicato il commento, autorizzando con questo comportamento alcune considerazioni.
Probabilmente il quotidiano in questione, che certamente non è estraneo alla competizione politica in atto tra governo ed opposizione e non rinuncia a schierarsi, si è posto l’obiettivo di dare spazio solo alle critiche di superficie, limitandosi a registrare i quattro bla-bla emotivi ed opportunistici sulla donna sottopagata, che fatica a casa e sul lavoro, ecc., come se l’argomento potesse essere trattato a guisa di un fotoromanzo d’appendice, con il quale si devono fare emergere le emozioni degli spettatori, ma si tarpa ogni possibilità di un confronto serio sul significato dei fatti che sottostanno a quelle emozioni. Le valutazioni di opportunità politica ed economica diventano in quest’ottica orpelli fuorvianti, pericolosamente in grado di stimolare un dibattito più complessivo che potrebbe smontare la fiction e costringere i suoi autori a ad intervenire e scoprirsi dichiarando il loro posizionamento.
Certo è che il quotidiano in parola non fa una bella figura attivando questi metodi di censura di tutta evidenza immotivati o tesi a mascherare inconfessabili finalità. Peraltro, così comportandosi conferma che anche la stampa, - almeno quella che per tradizione si credeva al di sopra di certi condizionamenti, - si colloca nell’alveo degli anestesisti del sentimento comune, e così, con il suo malcelato obiettivo di “normalizzazione” o con l’addomesticamento dell’espressione dell’altrui pensiero, va ad ingrossare il nugolo cencioso di coloro che si nutrono alla greppia del potere per poi prenderne le distanze.
A quanti non è capitato di inviare una lettera al proprio giornale per esprimere il proprio pensiero su un articolo da quello pubblicato o su un argomento di attualità sul quale ha inteso dire la sua.
Le rubriche di “lettere al direttore” sono presenti in tutti i giornali. Anzi costituiscono un vero e proprio veicolo di contatto tra redazioni e lettori, una modalità con la quale la stampa mantiene costantemente aperto l’ascolto sul mondo e i lettori trovano un riscontro indiretto alla rilevanza dei problemi che avvertono come veri e pressanti.
Nell’era di internet tale sistema di contatto è ormai divenuto uno strumento che opera quasi in tempo reale: l’articolista scrive e diffonde immediatamente la notizia, il lettore prende atto e s’informa e, immediatamente, è in grado di inviare il suo commento alla redazione affinché lo pubblichi con ulteriore commento di risposta.
Le cose, tuttavia, non sempre vanno in questa maniera, poiché nell’epoca del recupero gridato della democrazia e della libertà, valori così costantemente mortificati dalle classi dirigenti in politica, anche i giornali, questi sedicenti megafoni della gente, assumono comportamenti in palese contraddizione con le dichiarate ragioni per le quali hanno messo in piedi quelle rubriche e, a proprio piacimento ed insindacabile giudizio, censurano i commenti ritenuti scomodi o non in linea con gli obiettivi che si sono prefissi e non procedono ad alcuna pubblicazione.
Questa patologia, che non è circoscritti alla cosiddetta stampa minore, ma colpisce anche importanti giornali a tiratura nazionale, si palesa come un ulteriore gravissimo sintomo della democrazia malata del nostro tempo. La libertà di espressione diviene così una libertà vigilata di esternazione di pareri, concetti, valutazioni che debbono essere in linea con chi s’è arrogato un diritto di censura preventiva, che dà e toglie la parola senza alcuna possibilità di sindacare e di replica.
Oggi, per esempio, abbiamo inviato a la Repubblica un commento a margine dell’articolo Lavorare stanca soprattutto le donne, a firma di Mauro Ricci, nel quale viene descritta la situazione femminile nel nostro Paese in relazione alle proposta di Brunetta di parificare l’età per accedere al pensionamento, oggi previsto a 60 anni.
Abbiamo ritenuto doveroso segnalare che, al di là dell’irricevibilità della proposta, il disegno Brunetta è un ulteriore tassello tendente solo a cancellare nel tempo il sistema pensionistico. Oltre a ciò e coerentemente con quanto sosteniamo da tempo, in questa fase di grave crisi economica ed occupazionale, anziché pensare a riforme punitive, occorrerebbe ammorbidire i meccanismi vigenti ed agevolare il pensionamento di quanti, avendo già pagato, si vedono negato il diritto esclusivamente in forza di éscamotage di legge frutto di politiche della lesina del tutto anacronistiche, pur non avendo magari un lavoro o un reddito per sopravvivere.
la Repubblica, per motivi che rimangono misteriosi, non ha pubblicato il commento, autorizzando con questo comportamento alcune considerazioni.
Probabilmente il quotidiano in questione, che certamente non è estraneo alla competizione politica in atto tra governo ed opposizione e non rinuncia a schierarsi, si è posto l’obiettivo di dare spazio solo alle critiche di superficie, limitandosi a registrare i quattro bla-bla emotivi ed opportunistici sulla donna sottopagata, che fatica a casa e sul lavoro, ecc., come se l’argomento potesse essere trattato a guisa di un fotoromanzo d’appendice, con il quale si devono fare emergere le emozioni degli spettatori, ma si tarpa ogni possibilità di un confronto serio sul significato dei fatti che sottostanno a quelle emozioni. Le valutazioni di opportunità politica ed economica diventano in quest’ottica orpelli fuorvianti, pericolosamente in grado di stimolare un dibattito più complessivo che potrebbe smontare la fiction e costringere i suoi autori a ad intervenire e scoprirsi dichiarando il loro posizionamento.
Certo è che il quotidiano in parola non fa una bella figura attivando questi metodi di censura di tutta evidenza immotivati o tesi a mascherare inconfessabili finalità. Peraltro, così comportandosi conferma che anche la stampa, - almeno quella che per tradizione si credeva al di sopra di certi condizionamenti, - si colloca nell’alveo degli anestesisti del sentimento comune, e così, con il suo malcelato obiettivo di “normalizzazione” o con l’addomesticamento dell’espressione dell’altrui pensiero, va ad ingrossare il nugolo cencioso di coloro che si nutrono alla greppia del potere per poi prenderne le distanze.
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