Coalizione sull’orlo di una crisi di nervi
Mercoledì, 14 gennaio 2009
Dopo Bossi è la volta di Gianfranco Fini, stanco di indossare l’abito dell’eterno principe ereditario di quella coalizione con il nome di PdL, che presto o tardi dovrà fare a meno dell’attuale padre-padrone Silvio Berlusconi, non fosse che per ragioni di età anagrafica del leader di Arcore, oltre che a causa di qualche eventuale scivolone per le inchieste giudiziarie nelle quali rimane coinvolto, nonostante i colpi di mano legislativi con i quali si è al momento garantito l’impunità.
Così Fini, - per quanto la credibilità delle sue iniziative sia prossima allo zero, vista la memoria che ancora si conserva delle sue dure parole spese al tempo dell’editto di piazza con il quale Berlusconi annunciò la nascita del PdL nel quale il leader di AN “non sarebbe mai confluito”, - alza il tono della critica e parla di “parlamento offeso” a proposito del voto di fiducia preannunciato dal governo sul pacchetto delle misure anticrisi, denunciando nella mossa di Berlusconi il mascheramento di “un problema politico” all’interno della coalizione, che induce a ricorrere troppo spesso al voto di fiducia e, dunque, ad azzerare il dibattito parlamentare.
Il Cavaliere, cui la critica provoca intollerabile fastidio, ribatte con l’astiosità della quale è indiscusso maestro e manda a dire alla terza carica dello stato che Fini dovrebbe rammentare che in quel posto ce l’ha messo lui, ma che continuando così “farà la fine di Casini”. Come dire che con questo atteggiamento si mette automaticamente fuori dal partito e per lui non ci sono speranze di una collocazione di rilievo all’interno del PdL alla scadenza dell’incarico e, men che meno, di aspirare a succedergli nella guida del centro-destra.
In tutto questo, Fini non è certo supportato dai suoi ex colonnelli, Alemanno, La Russa, Matteoli, che hanno trovato all’ombra del PdL una comoda sistemazione e che, guarda caso, sono stati affrancati dalla sorte dall’ingombrante peso di un capo, Fini, che per anni aveva guidato AN senza concedere grandi spazi al loro desiderio di protagonismo e che, ovviamente, guardano allo scontro con la malcelata indifferenza di chi, in fondo, adesso ritiene di dover pensare solo a gestirsi il proprio futuro politico all’interno di un assembramento confuso, senza una linea definita e contrassegnato da mille anime particolaristiche.
Nonostante tutto, Fini ha ragioni: il PdL, causa la sua intrinseca natura, è un partito con enormi problemi di tenuta e di coerenza, dove istanze contraddittorie, per non dire contrapposte, scatenano quotidiane guerre per bande tra fautori di un federalismo impossibile e nostalgici dell’assistenzialismo meridionalista; tra riformisti illuminati e clientelisti irriducibili; tra laicisti convinti e clericalisti indomiti. Sono un esempio di questi scontri i travagliati dibattiti e provvedimenti sulla scuola, l’università, il pubblico impiego, il sostegno all’istruzione gestita dalla Chiesa e così via. Lo stesso pacchetto anticrisi, la cui inconsistenza travalica il senso del ridicolo, infarcito di iniziative talora umilianti quanto di strumentale farraginosità, come la social card, e privo di una minima parvenza di serio provvedimento a sostegno del reddito e dell’occupazione, dimostra come la confusione regni sovrana nell’ambito della coalizione di governo e sia inconsistente la capacità di gestire con un’incisività minima una crisi gravissima per la quale tutti i governi stanno cercando di operare concretamente.
Il Cavaliere sa bene queste cose, che peraltro costituiscono le croniche deficienze di tutti i governi di cui è stato leader. Tuttavia, incapace com’è di discernere il suo interesse personale da quello per la cosa pubblica, convinto che mostrare i muscoli sia più produttivo che discutere, si comporta come l’amministratore delegato di una delle sue società ed impone di serrare le fila ai suoi componenti del consiglio d’amministrazione, annullando così ogni confronto parlamentare.
In queste che sembrano in fondo solo le prove generali di quel presidenzialismo tanto caro a Berlusconi, ma dal quale sano già in tanti a prendere le distanze anche tra i suoi sostenitori, - Andreotti qualche giorno fa ha dichiarato alla stampa che chi ha conosciuto il fascismo non potrebbe mai appoggiare una riforma presidenzialista foriera di potenziali derive, - vi è poi una questione per alcuni versi ancora poco indagata. Ed è la questione di chi effettivamente assuma le decisioni vere nell’ambito del governo. A ben considerare, infatti, appare evidente che all’interno del governo ci siano più centri direzionali deputati, uno per la politica ed uno per l’economia, che non sempre dimostrano coordinamento fra loro. Così mentre la politica si origina nelle stanze del Richelieu Letta, la regia economica vede la luce in via XX Settembre, dove un Tremonti in stile Quintino Sella, decide in piena autonomia le misure da adottare per il Paese: a Berlusconi tocca poi la vendita al pubblico dei due prodotti e la gestione della coreografia complessiva.
Come osserva Curzio Maltese sulle pagine di la Repubblica, “in tutto questo, Berlusconi difende un interesse non negoziabile, il proprio. L’interesse di Berlusconi è ottenere oggi la riforma della giustizia e domani il presidenzialismo. Una naturale evoluzione: dalle leggi ad personam alle riforme ad personam. Ma non si vede davvero perché gli alleati dovrebbero avere tanta fretta di consegnargli un potere assoluto, quando possono campare negoziando di volta in volta. Infatti, né Bossi né Fini, a quanto si è capito, fremono d’impazienza. Sullo sfondo di questo complesso teatrino ci sarebbe un paese sull’orlo di una lunga recessione aggravata dal terzo debito pubblico del pianeta. Ma questa naturalmente è l’ultima delle preoccupazioni”.
Tutto ciò, che palesa quanto sia effervescente la situazione all’interno di una coalizione apparentemente allineata e coperta, potrebbe indurre all’errore di ritenere possibile la fine prematura del governo Berlusconi, quantomeno per opera di quella Lega che già in passato ha dimostrato come non tolleri la chiacchiere non accompagnate da fatti concreti. Per quanto quest’evenienza non possa scartarsi nel momento in cui la base del consenso di Bossi si stuferà di non vedere realizzato alcun provvedimento concreto nella direzione degli impegni elettorali del Carroccio, l’ipotesi appare al momento assai remota, non fosse per la mancanza di un alternativa al governo attuale e per la situazione di gravissimo sbando in cui versa l’opposizione, incapace a sua volta di presentarsi con una linea dura, magari impopolare, ma certa e determinata. Analogamente, non saranno i residuati di AN ormai integrati nel PdL e così intenti ad inzuppare il biscotto nella tazza del potere a sollevare questioni di tenuta della coalizione, particolarmente per salvare il prestigio dell’ex leader di un partito che non c’è più.
Lo scenario prossimo venturo sarà pertanto il solito tira a campare in difesa dei tanti particolarismi ora del Nord, ora del Sud e delle mille parrocchie che gravitano intorno agli interessi dei singoli, mentre il Paese scivolerà sempre più ai margini dell’Europa e acquisiranno recrudescenza le guerre tra fautori di Malpensa e di Fiumicino, tra permessi di soggiorno a pagamento ed immigrati da rispedire a casa, accreditando sempre più l’immagine di un Italia non donna di provincie, ma bordello.
Dopo Bossi è la volta di Gianfranco Fini, stanco di indossare l’abito dell’eterno principe ereditario di quella coalizione con il nome di PdL, che presto o tardi dovrà fare a meno dell’attuale padre-padrone Silvio Berlusconi, non fosse che per ragioni di età anagrafica del leader di Arcore, oltre che a causa di qualche eventuale scivolone per le inchieste giudiziarie nelle quali rimane coinvolto, nonostante i colpi di mano legislativi con i quali si è al momento garantito l’impunità.
Così Fini, - per quanto la credibilità delle sue iniziative sia prossima allo zero, vista la memoria che ancora si conserva delle sue dure parole spese al tempo dell’editto di piazza con il quale Berlusconi annunciò la nascita del PdL nel quale il leader di AN “non sarebbe mai confluito”, - alza il tono della critica e parla di “parlamento offeso” a proposito del voto di fiducia preannunciato dal governo sul pacchetto delle misure anticrisi, denunciando nella mossa di Berlusconi il mascheramento di “un problema politico” all’interno della coalizione, che induce a ricorrere troppo spesso al voto di fiducia e, dunque, ad azzerare il dibattito parlamentare.
Il Cavaliere, cui la critica provoca intollerabile fastidio, ribatte con l’astiosità della quale è indiscusso maestro e manda a dire alla terza carica dello stato che Fini dovrebbe rammentare che in quel posto ce l’ha messo lui, ma che continuando così “farà la fine di Casini”. Come dire che con questo atteggiamento si mette automaticamente fuori dal partito e per lui non ci sono speranze di una collocazione di rilievo all’interno del PdL alla scadenza dell’incarico e, men che meno, di aspirare a succedergli nella guida del centro-destra.
In tutto questo, Fini non è certo supportato dai suoi ex colonnelli, Alemanno, La Russa, Matteoli, che hanno trovato all’ombra del PdL una comoda sistemazione e che, guarda caso, sono stati affrancati dalla sorte dall’ingombrante peso di un capo, Fini, che per anni aveva guidato AN senza concedere grandi spazi al loro desiderio di protagonismo e che, ovviamente, guardano allo scontro con la malcelata indifferenza di chi, in fondo, adesso ritiene di dover pensare solo a gestirsi il proprio futuro politico all’interno di un assembramento confuso, senza una linea definita e contrassegnato da mille anime particolaristiche.
Nonostante tutto, Fini ha ragioni: il PdL, causa la sua intrinseca natura, è un partito con enormi problemi di tenuta e di coerenza, dove istanze contraddittorie, per non dire contrapposte, scatenano quotidiane guerre per bande tra fautori di un federalismo impossibile e nostalgici dell’assistenzialismo meridionalista; tra riformisti illuminati e clientelisti irriducibili; tra laicisti convinti e clericalisti indomiti. Sono un esempio di questi scontri i travagliati dibattiti e provvedimenti sulla scuola, l’università, il pubblico impiego, il sostegno all’istruzione gestita dalla Chiesa e così via. Lo stesso pacchetto anticrisi, la cui inconsistenza travalica il senso del ridicolo, infarcito di iniziative talora umilianti quanto di strumentale farraginosità, come la social card, e privo di una minima parvenza di serio provvedimento a sostegno del reddito e dell’occupazione, dimostra come la confusione regni sovrana nell’ambito della coalizione di governo e sia inconsistente la capacità di gestire con un’incisività minima una crisi gravissima per la quale tutti i governi stanno cercando di operare concretamente.
Il Cavaliere sa bene queste cose, che peraltro costituiscono le croniche deficienze di tutti i governi di cui è stato leader. Tuttavia, incapace com’è di discernere il suo interesse personale da quello per la cosa pubblica, convinto che mostrare i muscoli sia più produttivo che discutere, si comporta come l’amministratore delegato di una delle sue società ed impone di serrare le fila ai suoi componenti del consiglio d’amministrazione, annullando così ogni confronto parlamentare.
In queste che sembrano in fondo solo le prove generali di quel presidenzialismo tanto caro a Berlusconi, ma dal quale sano già in tanti a prendere le distanze anche tra i suoi sostenitori, - Andreotti qualche giorno fa ha dichiarato alla stampa che chi ha conosciuto il fascismo non potrebbe mai appoggiare una riforma presidenzialista foriera di potenziali derive, - vi è poi una questione per alcuni versi ancora poco indagata. Ed è la questione di chi effettivamente assuma le decisioni vere nell’ambito del governo. A ben considerare, infatti, appare evidente che all’interno del governo ci siano più centri direzionali deputati, uno per la politica ed uno per l’economia, che non sempre dimostrano coordinamento fra loro. Così mentre la politica si origina nelle stanze del Richelieu Letta, la regia economica vede la luce in via XX Settembre, dove un Tremonti in stile Quintino Sella, decide in piena autonomia le misure da adottare per il Paese: a Berlusconi tocca poi la vendita al pubblico dei due prodotti e la gestione della coreografia complessiva.
Come osserva Curzio Maltese sulle pagine di la Repubblica, “in tutto questo, Berlusconi difende un interesse non negoziabile, il proprio. L’interesse di Berlusconi è ottenere oggi la riforma della giustizia e domani il presidenzialismo. Una naturale evoluzione: dalle leggi ad personam alle riforme ad personam. Ma non si vede davvero perché gli alleati dovrebbero avere tanta fretta di consegnargli un potere assoluto, quando possono campare negoziando di volta in volta. Infatti, né Bossi né Fini, a quanto si è capito, fremono d’impazienza. Sullo sfondo di questo complesso teatrino ci sarebbe un paese sull’orlo di una lunga recessione aggravata dal terzo debito pubblico del pianeta. Ma questa naturalmente è l’ultima delle preoccupazioni”.
Tutto ciò, che palesa quanto sia effervescente la situazione all’interno di una coalizione apparentemente allineata e coperta, potrebbe indurre all’errore di ritenere possibile la fine prematura del governo Berlusconi, quantomeno per opera di quella Lega che già in passato ha dimostrato come non tolleri la chiacchiere non accompagnate da fatti concreti. Per quanto quest’evenienza non possa scartarsi nel momento in cui la base del consenso di Bossi si stuferà di non vedere realizzato alcun provvedimento concreto nella direzione degli impegni elettorali del Carroccio, l’ipotesi appare al momento assai remota, non fosse per la mancanza di un alternativa al governo attuale e per la situazione di gravissimo sbando in cui versa l’opposizione, incapace a sua volta di presentarsi con una linea dura, magari impopolare, ma certa e determinata. Analogamente, non saranno i residuati di AN ormai integrati nel PdL e così intenti ad inzuppare il biscotto nella tazza del potere a sollevare questioni di tenuta della coalizione, particolarmente per salvare il prestigio dell’ex leader di un partito che non c’è più.
Lo scenario prossimo venturo sarà pertanto il solito tira a campare in difesa dei tanti particolarismi ora del Nord, ora del Sud e delle mille parrocchie che gravitano intorno agli interessi dei singoli, mentre il Paese scivolerà sempre più ai margini dell’Europa e acquisiranno recrudescenza le guerre tra fautori di Malpensa e di Fiumicino, tra permessi di soggiorno a pagamento ed immigrati da rispedire a casa, accreditando sempre più l’immagine di un Italia non donna di provincie, ma bordello.
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