Polizia: tutela della legalità o licenza di vendetta?
Venerdì, 16 gennaio 2009
Acab è il titolo dell’ultimo libro del valente inviato di la Repubblica Carlo Bonini sui fatti di Genova, su quel G8 del quale è ancora viva la memoria di distruzioni, guerriglia e orrori compiuti dalla polizia nella tragica notte i cui si consumò l’irruzione nella scuola Diaz. Vi erano alla Diaz alcune centinaia di manifestanti, intenti a riposare dopo una lunga giornata di cortei contrassegnati da gravissimi episodi di guerriglia urbana, che vennero aggrediti nel sonno dalle forze di polizia e selvaggiamente picchiati.
Ma l’Acab di Bonini niente ha a che vedere con il personaggio di Herman Melville, autore del famoso Moby Dick, anche se la ferocia dei celerini, in quella notte di vergogna per la polizia e le istituzioni del nostro Paese, nulla ebbe ad invidiare al sanguinario Capitano Achab, ossessionato dalla vendetta verso la balena, - in realtà un capodoglio, - che gli aveva amputato una gamba ed alla quale dava spietatamente la caccia. E questa ossessione per la vendetta, questo accanimento verso un nemico che aveva provocato un estremo dolore fisico, che aveva segnato nell’anima e che aveva offuscato la mente, è probabilmente l’unico elemento di collegamento tra il personaggio del romanzo ed i fatti sui quali si sofferma Bonini.
Acab, in ogni caso, è anche l’acronimo di all cops are bastard (tutti i poliziotti sono bastardi) coniato da un gruppo musicale della corrente skinhead negli anni ’80 e divenuto motto prima degli hooligans d’oltre Manica e, successivamente, slogan di tutte le tifoserie più violente del pianeta.
Il lavoro di Bonini, comunque, non è rilevante per ripercorrere i tragici eventi ormai noti nella loro triste dinamica, quanto perché riassume la cronaca di un dialogo via web tra partecipanti diretti ed indiretti a quegli eventi, tra componenti delle forze dell’ordine, che nella maggior parte dei casi si autoassolvono e giustificano le violenze perpetrate dai colleghi in servizio quella notte.
Il quadro che emerge dalla cruda trascrizione di quei dialoghi è sconfortante, per non dire mortificante, poiché evidenzia come all’interno della polizia alligna una concezione della democrazia, della giustizia ed un senso della legalità che nulla ha in comune con i criteri minimi di democraticità e senso dello stato di diritto, quasi a confermare la veridicità dell’odioso acronimo che dà titolo al libro di Bonini.
Se sul piano strettamente umano è comprensibile, sebbene mai giustificabile, che uomini sottoposti ad uno stress terribile nelle tragiche giornate genovesi abbiano potuto maturare una rabbia sordida ed il desiderio di impartire una lezione a coloro che erano arrivati al punto di mettere a repentaglio la loro incolumità, sul piano del ruolo istituzionale è esecrabile che queste violenze abbiano potuto trovare sfogo concreto ed è inammissibile, ancorché vergognoso per la dignità e l’onore del Paese, che la maggior parte degli autori di quelle infami gesta siano ancora in regolare servizio e fruisca del fiancheggiamento e dell’approvazione di colleghi e superiori, oltre che di politici in carica.
Ancora. Se è comprensibile e mai giustificabile che la truppa, la prima linea incaricata di contrastare la teppa dei manifestanti violenti, abbia covato una cieca rabbia sfogata in una vendetta inusitata, non è ammissibile che gli ufficiali, i coordinatori delle operazioni, coloro che comunque stavano nelle retrovie ad impartire gli ordini alla prima linea, in ogni caso titolati del comando e, dunque, maggiormente obbligati alla saldezza dei nervi e temprati dall’esperienza alle operazioni di piazza difficili e pericolose, abbiano poi autorizzato la barbarie della Diaz, condotta al grido di Sieg Heil, con minacce di stupro di massa ai danni delle donne presenti in quella notte nella scuola e con il pestaggio scientifico e selvaggio di quanti si trovavano nel percorso dei poliziotti autori del blitz.
«I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?», si chiede retoricamente su Doppia Vela, il blog dei celerini, un poliziotto, che commenta i dubbi espressi da un collega, «No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni», commenta, «non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!»
Lo stesso celerino poi aggiunge: «I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no? No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l'attaccamento all'igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!».
In fine, a proposito dei pestaggi aggiunge: «I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no? No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l'unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un "povero illuso pacifista" o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c'erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!».
Ma l’apoteosi di questi chiari sintomi di delirio e di cinismo patologico arriva con la seguente considerazione: «La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di "Uno a zero" dimostra di essere intelligente? No. Ma come si dice a Roma, ‘sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un'aula all'imbecille! Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l'aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno».
Gabriele Romagnoli, sempre su la Repubblica, nel commentare il libro di Bonini ed i dialoghi riportati, afferma: «Se occorresse una password per aprire un libro, con "Acab" dovreste provare "odio". Non funziona? Allora tentate "tanfo". Sono le parole chiave del testo di Carlo Bonini che non è il riversamento di una serie di interviste registrate, ma piuttosto del rumore di fondo. Quello che pochi sanno ascoltare, quello che poi produce un'onda definita anomala solo perché non la si era vista arrivare. Si legge la cronaca più efferata, si prende atto delle dichiarazioni irragionevoli di questo o quell'onorevole, si osserva con disneyana sorpresa l'avvento al potere di un manipolo di gaglioffi senza qualità e ci si chiede: ma questi da dove sbucano? E, ancor più: che cosa, chi mi rappresentano? "Acab" è una delle risposte. Una delle tante verità che il club mediatico, perduto nell'autoreferenzialità, abbagliato dal riflesso dei lustrini, sviato al bivio tra la rappresentazione del mondo come dovrebbe essere e come invece è, non ha saputo cogliere per tempo». E queste parole ben sintetizzano il disgusto che non può non provarsi nei confronti di una pagina di storia della quale, per trovare traccia, occorre risalire alla tristezza del ventennio, o alle cronache degli scempi compiuti in realtà sudamericane apparentemente così lontane dalla nostra cultura e dalla nostra etica.
Certo è che questi fatti, certamente non sopiti nella memoria dei protagonisti ed in quella di chi, incollato al piccolo schermo ne seguì lo svolgersi, mettono in luce un mondo di operatori dell’ordine costituito pericolosamente in bilico sulla deriva autoritaria, incapace di interpretare il proprio ruolo nell’ottica garantista e legalista che costituisce la vera ragione della sua esistenza. E la responsabilità gravissima e irrinunciabile delle azioni di questi apparati palesemente deviati, delle azioni di queste mute di pitbull assetati di sangue e di rancore, non può essere attribuita alle debolezze istintuali dei singoli, ma ricade interamente sui livelli sovrastanti, ministri dell’interno compresi, incapaci di addestrare le risorse impiegate in questo servizio essenziale al rispetto della democrazia e delle leggi. Sino a quando questi metodi, inconcepibili nell’epoca in cui viviamo, non saranno sradicati e non saranno radiati dagli apparati preposti alla tutela dell’ordine pubblico i frutti marci, gli elementi portatori di un’ideologia da Gestapo, i nostalgici di metodi Mladic, Karadic o Videla, che considerano la divisa la personale licenza per farsi giustizia sommaria e sono orgogliosamente pronti a giustificare ogni misfatto con un’autoreferenzialità demenziale, non potrà esserci legalità, accumunando in un unico scenario di colpevolezza autori di disordini e parti lese, in un’immagine di vergogna senza fine e di barbarie.
Ma l’Acab di Bonini niente ha a che vedere con il personaggio di Herman Melville, autore del famoso Moby Dick, anche se la ferocia dei celerini, in quella notte di vergogna per la polizia e le istituzioni del nostro Paese, nulla ebbe ad invidiare al sanguinario Capitano Achab, ossessionato dalla vendetta verso la balena, - in realtà un capodoglio, - che gli aveva amputato una gamba ed alla quale dava spietatamente la caccia. E questa ossessione per la vendetta, questo accanimento verso un nemico che aveva provocato un estremo dolore fisico, che aveva segnato nell’anima e che aveva offuscato la mente, è probabilmente l’unico elemento di collegamento tra il personaggio del romanzo ed i fatti sui quali si sofferma Bonini.
Acab, in ogni caso, è anche l’acronimo di all cops are bastard (tutti i poliziotti sono bastardi) coniato da un gruppo musicale della corrente skinhead negli anni ’80 e divenuto motto prima degli hooligans d’oltre Manica e, successivamente, slogan di tutte le tifoserie più violente del pianeta.
Il lavoro di Bonini, comunque, non è rilevante per ripercorrere i tragici eventi ormai noti nella loro triste dinamica, quanto perché riassume la cronaca di un dialogo via web tra partecipanti diretti ed indiretti a quegli eventi, tra componenti delle forze dell’ordine, che nella maggior parte dei casi si autoassolvono e giustificano le violenze perpetrate dai colleghi in servizio quella notte.
Il quadro che emerge dalla cruda trascrizione di quei dialoghi è sconfortante, per non dire mortificante, poiché evidenzia come all’interno della polizia alligna una concezione della democrazia, della giustizia ed un senso della legalità che nulla ha in comune con i criteri minimi di democraticità e senso dello stato di diritto, quasi a confermare la veridicità dell’odioso acronimo che dà titolo al libro di Bonini.
Se sul piano strettamente umano è comprensibile, sebbene mai giustificabile, che uomini sottoposti ad uno stress terribile nelle tragiche giornate genovesi abbiano potuto maturare una rabbia sordida ed il desiderio di impartire una lezione a coloro che erano arrivati al punto di mettere a repentaglio la loro incolumità, sul piano del ruolo istituzionale è esecrabile che queste violenze abbiano potuto trovare sfogo concreto ed è inammissibile, ancorché vergognoso per la dignità e l’onore del Paese, che la maggior parte degli autori di quelle infami gesta siano ancora in regolare servizio e fruisca del fiancheggiamento e dell’approvazione di colleghi e superiori, oltre che di politici in carica.
Ancora. Se è comprensibile e mai giustificabile che la truppa, la prima linea incaricata di contrastare la teppa dei manifestanti violenti, abbia covato una cieca rabbia sfogata in una vendetta inusitata, non è ammissibile che gli ufficiali, i coordinatori delle operazioni, coloro che comunque stavano nelle retrovie ad impartire gli ordini alla prima linea, in ogni caso titolati del comando e, dunque, maggiormente obbligati alla saldezza dei nervi e temprati dall’esperienza alle operazioni di piazza difficili e pericolose, abbiano poi autorizzato la barbarie della Diaz, condotta al grido di Sieg Heil, con minacce di stupro di massa ai danni delle donne presenti in quella notte nella scuola e con il pestaggio scientifico e selvaggio di quanti si trovavano nel percorso dei poliziotti autori del blitz.
«I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?», si chiede retoricamente su Doppia Vela, il blog dei celerini, un poliziotto, che commenta i dubbi espressi da un collega, «No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni», commenta, «non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!»
Lo stesso celerino poi aggiunge: «I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no? No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l'attaccamento all'igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!».
In fine, a proposito dei pestaggi aggiunge: «I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no? No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l'unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un "povero illuso pacifista" o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c'erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!».
Ma l’apoteosi di questi chiari sintomi di delirio e di cinismo patologico arriva con la seguente considerazione: «La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di "Uno a zero" dimostra di essere intelligente? No. Ma come si dice a Roma, ‘sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un'aula all'imbecille! Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l'aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno».
Gabriele Romagnoli, sempre su la Repubblica, nel commentare il libro di Bonini ed i dialoghi riportati, afferma: «Se occorresse una password per aprire un libro, con "Acab" dovreste provare "odio". Non funziona? Allora tentate "tanfo". Sono le parole chiave del testo di Carlo Bonini che non è il riversamento di una serie di interviste registrate, ma piuttosto del rumore di fondo. Quello che pochi sanno ascoltare, quello che poi produce un'onda definita anomala solo perché non la si era vista arrivare. Si legge la cronaca più efferata, si prende atto delle dichiarazioni irragionevoli di questo o quell'onorevole, si osserva con disneyana sorpresa l'avvento al potere di un manipolo di gaglioffi senza qualità e ci si chiede: ma questi da dove sbucano? E, ancor più: che cosa, chi mi rappresentano? "Acab" è una delle risposte. Una delle tante verità che il club mediatico, perduto nell'autoreferenzialità, abbagliato dal riflesso dei lustrini, sviato al bivio tra la rappresentazione del mondo come dovrebbe essere e come invece è, non ha saputo cogliere per tempo». E queste parole ben sintetizzano il disgusto che non può non provarsi nei confronti di una pagina di storia della quale, per trovare traccia, occorre risalire alla tristezza del ventennio, o alle cronache degli scempi compiuti in realtà sudamericane apparentemente così lontane dalla nostra cultura e dalla nostra etica.
Certo è che questi fatti, certamente non sopiti nella memoria dei protagonisti ed in quella di chi, incollato al piccolo schermo ne seguì lo svolgersi, mettono in luce un mondo di operatori dell’ordine costituito pericolosamente in bilico sulla deriva autoritaria, incapace di interpretare il proprio ruolo nell’ottica garantista e legalista che costituisce la vera ragione della sua esistenza. E la responsabilità gravissima e irrinunciabile delle azioni di questi apparati palesemente deviati, delle azioni di queste mute di pitbull assetati di sangue e di rancore, non può essere attribuita alle debolezze istintuali dei singoli, ma ricade interamente sui livelli sovrastanti, ministri dell’interno compresi, incapaci di addestrare le risorse impiegate in questo servizio essenziale al rispetto della democrazia e delle leggi. Sino a quando questi metodi, inconcepibili nell’epoca in cui viviamo, non saranno sradicati e non saranno radiati dagli apparati preposti alla tutela dell’ordine pubblico i frutti marci, gli elementi portatori di un’ideologia da Gestapo, i nostalgici di metodi Mladic, Karadic o Videla, che considerano la divisa la personale licenza per farsi giustizia sommaria e sono orgogliosamente pronti a giustificare ogni misfatto con un’autoreferenzialità demenziale, non potrà esserci legalità, accumunando in un unico scenario di colpevolezza autori di disordini e parti lese, in un’immagine di vergogna senza fine e di barbarie.
(nella foto, Claudio Scajola, Ministro degli Interni allepoca dei fatti di Genova)
1 Commenti:
good start
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