Alfano, amministratore di giustizia o cecchino delle libertà?
Domenica, 14 giugno 2009
La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge.
Così recita l’articolo 15 della Carta Costituzionale di questo Paese sciagurato, nel quale l’esercizio del potere legislativo è affidato ad un parlamento in cui siedono un centinaio di canaglie accertate, tra condannati anche a gravi pene detentive ed inquisiti per reati vari.
E questo parlamento, appena due giorni or sono, ha votato l’approvazione di una legge che non si può esitare a definire criminale, come rispondesse all’indole e alla difesa degli interessi di quella minoranza; che collassa la giustizia, inibendo il ricorso alle intercettazioni per le indagini e stabilendo il divieto di divulgare le informazioni di cui si fosse a conoscenza provenienti dall’utilizzo di questi meccanismi inquirenti. Il divieto, che in una prima fase prevedeva addirittura il carcere per i trasgressori, è stato addolcito con la surroga di ammende milionarie alla reclusione e si applica agli operatori dell’informazione tradizionale e a chiunque eserciti attività giornalistica amatoriale attraverso la rete informatica. In buona sostanza , il provvedimento, - licenziato con tanto di voto di fiducia dalla camera e che passa adesso al senato per la definitiva approvazione e che Berlusconi ha venduto come un atto di garanzia e di tutela dei diritti , pur sussistente, di ogni indagato, costituisce per la liberta d’informazione e di espressione, un ulteriore e micidiale colpo di macete, spacciato per preventivo divieto di diffamare, che è cosa naturalmente diversa dall’informare.
Sebbene ci sarebbe da sperare che il nostro Guardasigilli, promotore della legge in questione, sia solo vittima della più cieca ignoranza, che non gli consente di distinguere la differenza tra un giornale ed un blog, la triste verità è che Angelino Alfano, alfiere della giustizia di regime, ha con il provvedimento messo a segno un ulteriore giro di vite sulla libertà di espressione dei cittadini, ai quali adesso è lasciata solo la possibilità di esprimere il proprio incondizionato conformismo verso gli atti e le decisioni del clan al governo o tacere, dato che il dissenso espresso rischia di esser pagato a durissimo prezzo.
Sconvolge, tuttavia, non tanto l’ulteriore presa di posizione del clan verso il dissenso, - che ben si conforma ai rigurgiti nazifascisti della Lega ed all’indole da siur paron di Silvio Berlusconi, che ancora una volta a pensato ai fattacci suoi con la promulgazione di un atto legislativo che dovrebbe finalmente mettere a tacere le chiacchiere sui giochetti erotici cui sembra essere avvezzo, - quanto il conformismo con il quale gli stessi che oggi protestano, i cittadini difensori della libertà, poi, nel segreto dell’urna, continuano ad esprimere adesioni pseudo plebiscitarie ai personaggi che queste leggi promuovono. Questo comportamento del corpo elettorale, palesemente in contraddittorio, la dice lunga su due direttrici: o gli Italiani dissimulano una endemica propensione al servilismo più becero e meschino, di cui sono certamente consapevoli al punto da vergognarsi di ammettere pubblicamente di votare per i suddetti e soci; oppure hanno raggiunto un tale livello di obnubilazione cerebrale da non riuscire a rendersi conto del gravissimo danno che stanno producendo a sé stessi ed alle generazioni prossime venture, - visto che nessuna opposizione, riuscisse ad arrivare un giorno a governare, potrà mai con la necessaria rapidità ricostituire i diritti democratici previsti da una Carta costituzionale ridotta ormai al rango di quel rotolone per esclusivi scopi igienici tanto pubblicizzato.
E non basta per giustificare tanto autolesionismo la profonda sfiducia in una sinistra che non c’è e che ha smarrito irrimediabilmente la propria identità. Una classe operaia, trasformata, sì dall’evoluzione tecnologica del lavoro, in qualcosa di diverso rispetto al classico Cipputi di nostalgica memoria, ma che rimane sempre proletariato nel senso politico, non è comprensibile che accetti gli ammiccamenti di quella destra che da sempre non ha mai nascosto di privilegiare gli interessi delle elite e di un capitalismo, - peraltro sempre più smargiasso e arrogante, - con il quale non ha alcuna comunanza di matrice e di obiettivi.
Analogamente, colpisce la miopia acuta di una ex borghesia, precipitata fragorosamente a livello economico in quel proletariato urbano dal quale storicamente soleva prendere le distanze, grazie alle politiche neo-elitarie portate avanti dal governo di centro-destra (ma sarebbe più consono parlare di populismo neofascista). Governo che non ha fatto mai mistero, con le sue scelte, di voler creare una cortina di separazione netta tra la gerarchia che lo sostiene e alla sua condotta plaude e una massa informe di diseredati sociali, che lottano per la sopravvivenza quotidiana, ma anelano al passaggio nei salotti del successo con le immani sofferenze cui si sottopongono per acquisire i visibili quanto inutili indicatori di status ostentati dai gerarchi di sistema.
E’ evidente che qui il tema della mortificazione dell’espressione libera del pensiero è solo il movente per aprire uno squarcio su una problematica di identità effettiva di cui si discute poco o affatto, poiché le leggi liberticide sono sempre state le stampelle di un potere arrogante e, di fondo, cosciente di una fragilità strutturale che necessita di mille puntelli per reggersi e perpetuarsi. Questo potere, marcio nell’essenza, d’altra parte sottovaluta la sua collocazione in un contesto internazionale segnato da una forte integrazione e per questo non disponibile all’accelerazione di processi di scollamento sociale, i cui costi esulano i confini nazionali. Analogamente e sebbene non possa considerarsi su di un piano di indifferenza, le tecnologie rendono possibile l’espressione del dissenso al di là della volontà dei sui persecutori e, com’é noto, le gocce hanno il potere nel tempo di incidere anche le rocce più dure.
Piuttosto è rilevante un’analisi su quella che si evidenzia come una disgregazione d’identità, che va attribuita al paradosso di una cultura apparentemente più diffusa, ma, nei fatti, sempre più massificata in uno sterile qualunquismo fatto di vuote apparenze. Allora se le condizioni di vita migliorano, anche grazie all’elevazione della cultura, del livello di scolarità, che consente l’accesso a professioni meglio remunerate (poco rileva che tale possibilità sia solo virtuale), ciò non si traduce in una corrispondente capacità di analisi più puntuale delle problematiche sociali e politiche in cui si vive; ma sfocia nella propensione a introitare modelli di emulazione sovente negativi, costituiti da apparenza e, - quel che è il peggio della filosofia berlusconiana, - fondati esclusivamente sul godimento di effimeri piaceri e sulla traduzione in pratica di pulsioni inconfessabili. Questi divengono i veri e gli unici miti da perseguire ed è vincente la fazione politica che li esprime o è in grado di gestirli nell’immaginario della massa illusa degli arrampicatori che vi arrancano appresso.
Questo processo, che finisce per confinare il sistema in un nuovo medioevo, si avvale per la propaganda anche di insospettabili nuovi maître à penser, che, - senza volere, vittime di una insostenibile sensazione di profonda lacerazione sociale con la quale procede il sistema, - si muovono alla ricerca di un equilibrio moderato che riformuli l’obiettivo, alimentano la svalutazione delle poche voci d’opposizione, attraverso l’attribuzione loro d’intenti nichilisti di corto respiro.
In questa opposizione svalutata rientra l’azione di Di Pietro e del suo movimento, additato come
il collettore delle visioni estremiste del cambiamento del sistema politico o il portavoce di un giustizialismo massimalista con finalità solo estetiche, che mal si addice ad una realtà estremamente complessa e condannata a convivere con fenomeni di devianza endemica.
Quest’analisi costituisce uno dei classici mali di un certo intellettualismo di sinistra e finisce per spostare l’attenzione dal vero problema, - che non può continuare ad incentrarsi sul metodo o sulle analisi anamnestiche di ciò che fuor di dubbio è la consolidata patologia del nostro tempo, - che rimane la necessità di determinare l’essenziale sinergia di forze in campo per battere il disegno senza speranza e liberticida, rappresentato dal berlusconismo e dai suoi miraggi.
Così il quadro diviene ancora più incerto, con un PD, - secondo alcuni, - che non appare in grado di dare un’interpretazione unitaria e progettuale al coacervo di interessi che rappresenta l’elettorato di questo partito, in crisi confusionale permanente a causa dell’ondivaga ricerca di un’identità d’opposizione ora di matrice laico-riformista, ora di stampo catto-progressista, che recluta i relitti di una “borghesia ormai naufragata nella miseria degli interessi particolari e nella volgarità opportunistica delle alleanze di comodo”. Il tutto all’interno di un partito in cui la lotta per la leadership ha snaturato il compito primario di promuovere opposizione vera e concreta, sotto l’abbaglio di un buonismo di modello yankee che mal si sposa con la tradizione di scelta di campo chiara e definita, di animosa matrice mediterranea.
Analogamente, non è possibile contare sull’apporto di quella sinistra, non a caso definita massimalista, smarritasi nel labirinto infantile di nostalgie da albori di rivoluzione industriale, quasi si fosse fermato l’orologio della storia. Né può guardarsi con un qualche ottimismo a quel Casini in perenne tentativo di ritagliarsi un ruolo di rincalzo, nel panorama di un quadro politico costantemente alla ricerca di cunei sui quali reggersi a prescindere dalla reale consistenza dei consensi. L’UDC è la sublimazione di una politica fatta di affarismi e compromissioni, dai labili confini tra lecito e sottobosco equivoco, nel quale si sono consolidate l’ascesa e il tracollo di quella DC che ha perpetrato le peggiori scorribande per oltre un quarantennio nella vita politica del paese e di cui Berlusconi non è che la inevitabile deriva.
E’ in questo sconfortante scenario di consolidata decadenza politica e, soprattutto, morale che non deve stupire il ricorso alla decretazione liberticida, poiché è nella disfatta dei valori che il potere dominante trova gli spazi per inoculare i semi dell’autoritarismo, di cui le libertà di parola e di pensiero rappresentano le ultime pericolose armi di instabilità.
Non avere questa misura della realtà e dell’incidenza nefasta che si sta consumando quotidianamente con l’avanzare di questa religione dell’effimero è la peggiore delle condanne che possa subire la società civile nell’epoca moderna.
La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge.
Così recita l’articolo 15 della Carta Costituzionale di questo Paese sciagurato, nel quale l’esercizio del potere legislativo è affidato ad un parlamento in cui siedono un centinaio di canaglie accertate, tra condannati anche a gravi pene detentive ed inquisiti per reati vari.
E questo parlamento, appena due giorni or sono, ha votato l’approvazione di una legge che non si può esitare a definire criminale, come rispondesse all’indole e alla difesa degli interessi di quella minoranza; che collassa la giustizia, inibendo il ricorso alle intercettazioni per le indagini e stabilendo il divieto di divulgare le informazioni di cui si fosse a conoscenza provenienti dall’utilizzo di questi meccanismi inquirenti. Il divieto, che in una prima fase prevedeva addirittura il carcere per i trasgressori, è stato addolcito con la surroga di ammende milionarie alla reclusione e si applica agli operatori dell’informazione tradizionale e a chiunque eserciti attività giornalistica amatoriale attraverso la rete informatica. In buona sostanza , il provvedimento, - licenziato con tanto di voto di fiducia dalla camera e che passa adesso al senato per la definitiva approvazione e che Berlusconi ha venduto come un atto di garanzia e di tutela dei diritti , pur sussistente, di ogni indagato, costituisce per la liberta d’informazione e di espressione, un ulteriore e micidiale colpo di macete, spacciato per preventivo divieto di diffamare, che è cosa naturalmente diversa dall’informare.
Sebbene ci sarebbe da sperare che il nostro Guardasigilli, promotore della legge in questione, sia solo vittima della più cieca ignoranza, che non gli consente di distinguere la differenza tra un giornale ed un blog, la triste verità è che Angelino Alfano, alfiere della giustizia di regime, ha con il provvedimento messo a segno un ulteriore giro di vite sulla libertà di espressione dei cittadini, ai quali adesso è lasciata solo la possibilità di esprimere il proprio incondizionato conformismo verso gli atti e le decisioni del clan al governo o tacere, dato che il dissenso espresso rischia di esser pagato a durissimo prezzo.
Sconvolge, tuttavia, non tanto l’ulteriore presa di posizione del clan verso il dissenso, - che ben si conforma ai rigurgiti nazifascisti della Lega ed all’indole da siur paron di Silvio Berlusconi, che ancora una volta a pensato ai fattacci suoi con la promulgazione di un atto legislativo che dovrebbe finalmente mettere a tacere le chiacchiere sui giochetti erotici cui sembra essere avvezzo, - quanto il conformismo con il quale gli stessi che oggi protestano, i cittadini difensori della libertà, poi, nel segreto dell’urna, continuano ad esprimere adesioni pseudo plebiscitarie ai personaggi che queste leggi promuovono. Questo comportamento del corpo elettorale, palesemente in contraddittorio, la dice lunga su due direttrici: o gli Italiani dissimulano una endemica propensione al servilismo più becero e meschino, di cui sono certamente consapevoli al punto da vergognarsi di ammettere pubblicamente di votare per i suddetti e soci; oppure hanno raggiunto un tale livello di obnubilazione cerebrale da non riuscire a rendersi conto del gravissimo danno che stanno producendo a sé stessi ed alle generazioni prossime venture, - visto che nessuna opposizione, riuscisse ad arrivare un giorno a governare, potrà mai con la necessaria rapidità ricostituire i diritti democratici previsti da una Carta costituzionale ridotta ormai al rango di quel rotolone per esclusivi scopi igienici tanto pubblicizzato.
E non basta per giustificare tanto autolesionismo la profonda sfiducia in una sinistra che non c’è e che ha smarrito irrimediabilmente la propria identità. Una classe operaia, trasformata, sì dall’evoluzione tecnologica del lavoro, in qualcosa di diverso rispetto al classico Cipputi di nostalgica memoria, ma che rimane sempre proletariato nel senso politico, non è comprensibile che accetti gli ammiccamenti di quella destra che da sempre non ha mai nascosto di privilegiare gli interessi delle elite e di un capitalismo, - peraltro sempre più smargiasso e arrogante, - con il quale non ha alcuna comunanza di matrice e di obiettivi.
Analogamente, colpisce la miopia acuta di una ex borghesia, precipitata fragorosamente a livello economico in quel proletariato urbano dal quale storicamente soleva prendere le distanze, grazie alle politiche neo-elitarie portate avanti dal governo di centro-destra (ma sarebbe più consono parlare di populismo neofascista). Governo che non ha fatto mai mistero, con le sue scelte, di voler creare una cortina di separazione netta tra la gerarchia che lo sostiene e alla sua condotta plaude e una massa informe di diseredati sociali, che lottano per la sopravvivenza quotidiana, ma anelano al passaggio nei salotti del successo con le immani sofferenze cui si sottopongono per acquisire i visibili quanto inutili indicatori di status ostentati dai gerarchi di sistema.
E’ evidente che qui il tema della mortificazione dell’espressione libera del pensiero è solo il movente per aprire uno squarcio su una problematica di identità effettiva di cui si discute poco o affatto, poiché le leggi liberticide sono sempre state le stampelle di un potere arrogante e, di fondo, cosciente di una fragilità strutturale che necessita di mille puntelli per reggersi e perpetuarsi. Questo potere, marcio nell’essenza, d’altra parte sottovaluta la sua collocazione in un contesto internazionale segnato da una forte integrazione e per questo non disponibile all’accelerazione di processi di scollamento sociale, i cui costi esulano i confini nazionali. Analogamente e sebbene non possa considerarsi su di un piano di indifferenza, le tecnologie rendono possibile l’espressione del dissenso al di là della volontà dei sui persecutori e, com’é noto, le gocce hanno il potere nel tempo di incidere anche le rocce più dure.
Piuttosto è rilevante un’analisi su quella che si evidenzia come una disgregazione d’identità, che va attribuita al paradosso di una cultura apparentemente più diffusa, ma, nei fatti, sempre più massificata in uno sterile qualunquismo fatto di vuote apparenze. Allora se le condizioni di vita migliorano, anche grazie all’elevazione della cultura, del livello di scolarità, che consente l’accesso a professioni meglio remunerate (poco rileva che tale possibilità sia solo virtuale), ciò non si traduce in una corrispondente capacità di analisi più puntuale delle problematiche sociali e politiche in cui si vive; ma sfocia nella propensione a introitare modelli di emulazione sovente negativi, costituiti da apparenza e, - quel che è il peggio della filosofia berlusconiana, - fondati esclusivamente sul godimento di effimeri piaceri e sulla traduzione in pratica di pulsioni inconfessabili. Questi divengono i veri e gli unici miti da perseguire ed è vincente la fazione politica che li esprime o è in grado di gestirli nell’immaginario della massa illusa degli arrampicatori che vi arrancano appresso.
Questo processo, che finisce per confinare il sistema in un nuovo medioevo, si avvale per la propaganda anche di insospettabili nuovi maître à penser, che, - senza volere, vittime di una insostenibile sensazione di profonda lacerazione sociale con la quale procede il sistema, - si muovono alla ricerca di un equilibrio moderato che riformuli l’obiettivo, alimentano la svalutazione delle poche voci d’opposizione, attraverso l’attribuzione loro d’intenti nichilisti di corto respiro.
In questa opposizione svalutata rientra l’azione di Di Pietro e del suo movimento, additato come
il collettore delle visioni estremiste del cambiamento del sistema politico o il portavoce di un giustizialismo massimalista con finalità solo estetiche, che mal si addice ad una realtà estremamente complessa e condannata a convivere con fenomeni di devianza endemica.
Quest’analisi costituisce uno dei classici mali di un certo intellettualismo di sinistra e finisce per spostare l’attenzione dal vero problema, - che non può continuare ad incentrarsi sul metodo o sulle analisi anamnestiche di ciò che fuor di dubbio è la consolidata patologia del nostro tempo, - che rimane la necessità di determinare l’essenziale sinergia di forze in campo per battere il disegno senza speranza e liberticida, rappresentato dal berlusconismo e dai suoi miraggi.
Così il quadro diviene ancora più incerto, con un PD, - secondo alcuni, - che non appare in grado di dare un’interpretazione unitaria e progettuale al coacervo di interessi che rappresenta l’elettorato di questo partito, in crisi confusionale permanente a causa dell’ondivaga ricerca di un’identità d’opposizione ora di matrice laico-riformista, ora di stampo catto-progressista, che recluta i relitti di una “borghesia ormai naufragata nella miseria degli interessi particolari e nella volgarità opportunistica delle alleanze di comodo”. Il tutto all’interno di un partito in cui la lotta per la leadership ha snaturato il compito primario di promuovere opposizione vera e concreta, sotto l’abbaglio di un buonismo di modello yankee che mal si sposa con la tradizione di scelta di campo chiara e definita, di animosa matrice mediterranea.
Analogamente, non è possibile contare sull’apporto di quella sinistra, non a caso definita massimalista, smarritasi nel labirinto infantile di nostalgie da albori di rivoluzione industriale, quasi si fosse fermato l’orologio della storia. Né può guardarsi con un qualche ottimismo a quel Casini in perenne tentativo di ritagliarsi un ruolo di rincalzo, nel panorama di un quadro politico costantemente alla ricerca di cunei sui quali reggersi a prescindere dalla reale consistenza dei consensi. L’UDC è la sublimazione di una politica fatta di affarismi e compromissioni, dai labili confini tra lecito e sottobosco equivoco, nel quale si sono consolidate l’ascesa e il tracollo di quella DC che ha perpetrato le peggiori scorribande per oltre un quarantennio nella vita politica del paese e di cui Berlusconi non è che la inevitabile deriva.
E’ in questo sconfortante scenario di consolidata decadenza politica e, soprattutto, morale che non deve stupire il ricorso alla decretazione liberticida, poiché è nella disfatta dei valori che il potere dominante trova gli spazi per inoculare i semi dell’autoritarismo, di cui le libertà di parola e di pensiero rappresentano le ultime pericolose armi di instabilità.
Non avere questa misura della realtà e dell’incidenza nefasta che si sta consumando quotidianamente con l’avanzare di questa religione dell’effimero è la peggiore delle condanne che possa subire la società civile nell’epoca moderna.
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