venerdì, giugno 05, 2009

Come si distrugge l’immagine del paese

Venerdì, 5 giugno 2009
Non passa ormai giorno che la stampa estera non si occupi di Berlusconi, di un uomo che con prepotenza ha monopolizzato la scena e l’interesse dell’opinione pubblica nazionale e internazionale.
Purtroppo tale visibilità, che risponde alle mai nascoste ambizioni del personaggio, non è da attribuire ai successi registrati sul campo nella sua qualità di uomo di stato o di politico equilibrato e capace. Al contrario, le prime pagine della stampa internazionale gli dedicano uno spazio solo in conseguenza dei gravissimi danni d’immagine che ha prodotto all’Italia ed agli Italiani con comportamenti e metodi che hanno più attinenza con i copioni delle più squallide soap opera che non con le gesta di uno statista di razza. Una sorta Cicerone al contrario, il cui motto non pare improntato a quel “mi odino pure, basta che mi che mi temano”, ma a un più meschino “mi disprezzino pure, basta che parlino di me”. Un uomo che pur di guadagnare la prima pagina di giornali e di rotocalchi non ha esitato a fare del proprio privato, delle proprie debolezze, delle perversioni, delle ambizioni e dei rancori, uno show permanente con il quale sollazzare i tanti fan che scambia per elettori, i tanti amanti del torbido e della pruderia che infestano questa burla geografica chiamata Repubblica Italiana.
Qui non è in discussione l’uomo Berlusconi nel suo privato, il belloccio bionico che rifiuta quella senilità anagrafica inclemente e profondamente democratica che non ha rispetto per il talento o il denaro; è in discussione il politico, l’uomo pubblico, che ha interpretato la politica come la segreteria privata nella quale preparare leggi e provvedimenti che potessero garantirgli impunità assoluta per i trascorsi non proprio chiari di imprenditore e come palcoscenico dal quale esibire il proprio talento, i vizi (tanti) e le virtù (poche). Un uomo che ha creduto di poter contare sul potere del denaro per ammansire il dissenso e convincere la gente che bastasse quello per comprare successo, prestigio e credibilità. E per rendere più convincente questa filosofia non ha esitato ad esibire sé stesso, a porsi anche nell’intimità quale modello di un sistema presuntivamente vincente.
Da più parti si accusa Berlusconi di debolezze nostalgiche e di rigurgiti per sistemi politici autoritari e liberticidi. Questa tesi, in realtà, si ferma solo alla superficie del problema, ma non entra nel dettaglio di un’analisi puntuale di ciò che veramente l’uomo crede e ambisce.
Berlusconi, più semplicemente, non ha credi politici, non ha progettualità di ampio respiro collettivo da realizzare, non ha propensioni per modelli politici d’un tipo o d’un altro. Egli è sostanzialmente portare di un’ideologia egoista e personalistica nella quale va consentito tutto, al di sopra della legge e della morale, a lui e a lui solo, poiché il denaro, la vera e unica leva del mondo, è ciò che veramente conta e permette di comprare qualunque cosa: il prestigio, gli affetti, le comodità, i piaceri e, - cosa tragicamente vera, - la gente, così storicamente incline a prostituirsi al potere e a chi lo esercita, a farsi abbacinare dal successo, quasi in un inconscia reazione a quel senso di umana invidia verso chi ha fatto fortuna. Poco conta che, - a ben guardare, - tanto successo sia spesso sorretto dall’accondiscendenza al malaffare, dal ricorso a meccanismi non sempre cristallini. Anche il malaffare nella percezione dei beoti è espressione del talento.
Ma l’uomo ha anche qualità, un acume che va certamente riconosciuto anche se la su valenza non è certo positiva. E se una qualità va riconosciuta a Berlusconi, è di aver interpretato in modo puntuale l’essenza del pathos popolare, i loro desideri, le allucinazioni, i miraggi, il sentire inconfessabile e, - iniziando proprio dall’esercizio non proprio legittimo di quel grande strumento di comunicazione e di plagio di massa che è la televisione, - è riuscito a costruire un impero dotato di un potere immenso. Un potere fatto di manipolazione, dell’illusione che il mondo inconfessabilmente ambito fosse una realtà possibile e che il suo raggiungimento fosse ostacolato da un sistema politico, - quel sistema politico che lo aveva sorretto con le sue connivenze e che lui aveva ampiamente foraggiato per anni, - concentrato a curare l’orticello del proprio privilegio piuttosto che spartirlo con la gente. Lui, invece, l’Unto del Signore, questo mondo ambito, fatto di benessere e di comodità, di belle donne facili e di gadget tanto appariscenti quanto superflui, lo ha dichiarato a disposizione di tutti, lo ha contrabbandato come un traguardo costantemente dietro l’angolo per i proseliti e i beccaccioni, che continuano, però, giorno per giorno a stringere la cinghia per far quadrare i conti.
Anche in questa circostanza c’è l’alibi. Un moloc che tira la fune controcorrente e ostacola la via d’accesso all’eden virtuale predicato dal Grande Ciarlatano: è il residuato eversivo di quel popolo comunista che rema contro, di quella propaganda sovversiva che traduce le sue panzane in dati di fatto incontrovertibili, in quel richiamo alla realtà effettiva fatta di disoccupazione, di precarietà, di morti bianche per l’assenza di sistemi di controllo delle regole minime antinfortunistiche, di sfruttamento del lavoro nero e d’evasione, che rendono la vita quotidiana un travaglio più che il viatico per quell’eden improbabile da lui predicato. Chissà se dall’alto della sua filosofia non ci rivelerà un giorno che questa realtà non fosse da interpretare come una sorta di selezione naturale, spiacevole ma necessaria, visto che anche il “suo” paradiso avrà avuto di certo capienza limitata e posti numerati.
Adesso le magagne emergono e al Grande Predicatore si palesa sempre più difficile mantenere la posizione, mantenere saldo il convincimento degli imbecilli e reclutare nuovi adepti tra le schiere degli indecisi. Naomi Letizia non è stata un’invenzione della stampa sovversiva, così come non è stata un’invenzione la corruzione dell’avvocato Mills, condannato nel corso di un regolare processo. Non è un’invenzione neanche l’abuso dei voli di stato per riempire lo scannatoio sardo di veline, di aspiranti tali e bellocce d’ogni tipo, ripagate per i servigi prestati al canto dell’aedo Apicella, con un posto magari in qualche comune, provincia, circoscrizione o parlamento nazionale ed europeo.
Confessi l’impareggiabile statista davanti all’evidenza dei fatti che un sistema elettorale nel quale sono le segreterie di partito a scegliere i candidati, sottraendoli alla scelta dell’elettorato, è stato un altro colpo provvidenziale per assestare ricatti a sodali di partito e aspiranti alla carriera e arrampicatori politici.
Confessi il grande statista davanti all’evidenza dei fatti che la sua concezione di governo è l’arroganza, la prevaricazione, il dileggio del dissenso, la criminalizzazione degli avversari, il ricorso alla menzogna sistematica per nascondere le proprie umane debolezze e sottrarsi alle conseguenze dei conti sospesi con la giustizia, quella giustizia così integerrima verso il comune cittadino, ma che va additata come fiancheggiatrice di oscure e nemiche forze rivoluzionarie quando ha osato metterlo sotto accusa.Purtroppo tutto lascia intendere che per queste confessioni dovremo ancora attendere a lungo, - e sempre che il personaggio venga prima o poi sperabilmente assalito da un rigurgito tardivo di pentita sincerità. Nell’attesa il degrado dell’Italia avrà toccato il fondo, mentre anche quei paesi ai quali anche con i Craxi, Pomicino, Gava, Nicolazzi, Signorile, De Lorenzo potevamo guardare con compatimento dall’alto della nostra tradizione democratica, ci osserveranno con disprezzo e ci additeranno a revival di quelle pagliacciate sud-americane esempio di esemplare decadenza civile e istituzionale.

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