domenica, luglio 26, 2009

La nouvelle philosophie: uccidere il malato per risparmiare!

Domenica, 26 luglio 2009
Come recita un vecchio adagio, i nodi prima o poi vengono tutti al pettine. Così sta accadendo per la sanità, la cui spesa ha ormai superato i limiti di guardia ed ha costretto il Ministro a commissariare le regioni che non hanno rispettato i parametri fissati o che non hanno provveduto a stilare adeguati piani di taglio della spesa nel rispetto della tempistica stabilita dal Governo.
Fin qui non ci sarebbe nulla di anomalo, se non la recalcitranza di alcune regioni a varare provvedimenti impopolari ma necessari. In realtà, se si entra nel dettaglio dei provvedimenti assunti dalle amministrazioni che hanno invece provveduto a stilare piani strutturati di rientro di spesa, - probabilmente virtuali, dovendosi aspettare nella prassi la consueta deviazione dai buoni propositi strombazzati, - ci si rende conto dell’evidente incapacità dei proponenti di coniugare in modo armonico la tutela del diritto ad un’assistenza sanitaria qualitativamente apprezzabile e saldamente controllata dal pubblico e l’offerta di servizi sanitari alternativi di esclusiva gestione privatistica.
In qualche caso, come nella Regione Sicilia, i tagli di spesa sono frutto della combinazione di due meccanismi al limite della censura: da una parte si è proceduto con un’operazione di puro maquillage, che ha trasformato il costo fisso del servizio sanitario in carico alle strutture pubbliche in costo variabile in virtù dello smantellamento di ospedali e riduzione di posti letto ed il trasferimento dell’assistenza alle strutture private, che saranno rimborsate dal pubblico per l’assistenza erogata. Il secondo meccanismo, - sicuramente più deprecabile e discutibile, - ha previsto la chiusura di intere strutture ospedaliere, quasi che dalla cessazione del servizio ci si debba attendere una miracolosa guarigione degli ammalati o comunque una riduzione delle patologie.
Mentre la prima operazione genera il sospetto che si sia voluta ancora una volta ingrossare la rendita delle clientele e delle piccole mafie, che da sempre speculano intorno alla grassa torta della spesa per la salute, il secondo meccanismo denota l’evidente incapacità di individuare sani strumenti di gestione amministrativa, se non il ricorso a scriteriati quanto sommari mutilazioni del servizio, che, guarda caso, porteranno altra acqua al mulino della sanità privata.
Sul quotidiano La Sicilia di stamani Enrico Cisnetto riassume i dati disastrosi della sanità nazionale e rammenta che 6 regioni su 20 hanno accumulato deficit per 3,5 miliardi su un ammontare complessivo di spesa di oltre 100 miliardi. Secondo Cisnetto, l’allarme che genera questo stato di cose è la spia incontrovertibile della «cattiva salute del sistema, quello del decentramento, nato negli anni ’70 con le Regioni e oggi finito fuori controllo. Su questo “mostrum” si è poi inserito il processo di devoluzione, partito con le modifiche al titolo V della Costituzione votato del centro-sinistra e proseguito col federalismo tanto caro al centro-destra».
A causa di questa situazione si è determinata una moltiplicazione della spesa pubblica in generale e di quella sanitaria in particolare, a cui s’è dovuto far fronte con un aumento della pressione fiscale: «Dal 1995 al 2006 mentre le tasse nazionali al netto dell’inflazione sono aumentate del 12%, quelle locali hanno subito un incremento del 111%, arrivando a rappresentare l’11% del totale».
Quest’analisi serve a Cisnetto per concludere sulla correttezza della decisione di porre sotto controllo la spesa sanitaria nonché di tagliare la spesa complessiva per servizi di assistenza.
Spiace dover constatare come il panorama italiano sia ormai affollato di guru e santoni incapaci d’immaginare interventi più equilibrati di sbrigativi tagli indiscriminati, che finiscono solo per penalizzare l’utenza e avvilire un servizio che, occorre dire con molta chiarezza, ha standard qualitativi da terzo mondo, nonostante gli ingenti fondi stanziati annualmente. La struttura sanitaria di un paese moderno non è pensabile venga gestita con criteri privi della minima managerialità e in completa esenzione da controlli e verifiche sistematiche della qualità del servizio erogato. La trasformazione delle strutture ospedaliere in vere e proprie aziende, con autonomia di spesa ma vincoli altrettanto chiari di pareggio di bilancio, pena l’allontanamento immediato dei suoi amministratori, e, soprattutto, la fine dell’ingerenza della politica nella gestione corrente (nomine nelle UASL, presenza lottizzata nei consigli d’amministrazione di ospedali e cliniche universitarie, condizionamento nella nomina di primari e assistenti, gestione del mercato clientelare delle assunzioni di personale ad ogni livello, addomesticamento di gare di appalto di forniture, ecc.), è l’unica via possibile per la riqualificazione del servizio. Non è certo con la chiusura di intere strutture, - purtroppo in qualche caso effettivamente non necessarie, in quanto nate su sollecitazione politica ma sprecate per il territorio che avrebbero dovuto servire, - che si risolvono i problemi di una voce di spesa ormai a livelli insostenibili e, in tanti casi, del tutto fuori controllo.
Le conclusioni di Cisnetto, dunque, somigliano tanto al comportamento dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere ciò che succede intorno.
In verità, Cisnetto finge solo di non sapere quale dovrebbe essere la vera via virtuosa di un risanamento non certo limitato alle problematiche della sola sanità. La politica non può pensare che per rimuovere la cancrena che ha generato in tantissimi anni di scellerata gestione sia preferibile uccidere il malato piuttosto che imboccare strade alternative decisamente più sensate. Certo, chiunque si rende conto che queste scelte alternative significano una sostanziosa perdita di potere per quella politica così abituata dalla rassegnazione diffusa a spadroneggiare e che si è illusa di poter utilizzare ogni mezzo per raccogliere consensi, trasformando la nostra esistenza in un mercato di voti, di favori e clientele. Pertanto è assai difficile credere che questa politica possa accettare di fare il necessario passo indietro e lasciare a professionisti seri e indipendenti il governo di un sistema che ha raggiunto un grado d'inquinamento intollerabile, il cui costo si scarica regolarmente sul cittadino inerme. Ma l'arroganza della politica è fatta anche di miopie, di scelte opportunistiche di corto respiro, che privilegiano la logica della poltrona più che gli interessi generali, che strada facendo ha raccolto schiere di ruffiani pronti a sostenerne con dotte argomentazioni le scelte, piuttosto che denunciarne la pochezza. Tuttavia questa è una miopia di cui presto o tardi questa politica di infima lega, gestita da squallidi incapaci che campano sui suoi proventi e che nella vita non riuscirebbero a guadagnarsi sostentamento in modo alternativo, sarà chiamata a render conto: la pazienza avrà un limite difficilmente misurabile, ma comunque ha un limite che è sempre grave errore sottovalutare.

sabato, luglio 25, 2009

MyAir – Un fallimento annunciato

Sabato, 25 luglio 2009
Ovviamente era necessario che 172 restassero a terra, relegate in una sala dell’area partenze internazionali dell’aeroporto Marco Polo di Venezia, perché l’ENAC, l’ente per l’aviazione civile, prendesse la decisione di sospendere la licenza di volo ad una compagnia aerea, in questo caso MyAir.
In quest’Italia sfasciata e marcia sino al midollo, dove neanche il Parlamento ha ormai una funzione certa, - a parte quella di erogare principeschi trattamenti ai mandarini che vi si sollazzano, - dato che si va avanti a colpi di fiducia anche per varare un provvedimento per la collocazione di un paracarro, se non ci scappa il caso clamoroso, quello che fa perdere la faccia a tutta la nazione, non si decide nulla.
Che MyAir non fosse una compagnia aerea affidabile era noto già da tempo. Che commettesse abusi di ogni genere ai danni dei suoi passeggeri, attratti da tariffe stracciatissime, ma trattati con corrispondente attenzione, era fatto noto, così come è noto che queste attitudini sono abbastanza diffuse nella prassi di altre compagnie che solcano i cieli peninsulari.
Eppure niente si è fatto per evitare che episodi come quello accaduto a Venezia non capitassero, assumendo opportuni provvedimenti cautelari. Invece, no. 172 passeggeri, di cui 40 bambini, costretti a bivaccare dalle 21:00 di lunedì in aeroporto in attesa di potersi imbarcare su l’aereo della MyAir che doveva portarli in Marocco, in stato di totale abbandono da parte della compagnia, incapace di mettere a disposizione loro non solo l’aeromobile previsto dal piano orario dei voli, ma un’adeguata assistenza riparatrice.
Alla fine ci ha pensato il governo marocchino a risolvere la questione, inviando un velivolo della Royal Air, che ha provveduto ad imbarcare i connazionali e trasferirli al luogo di destinazione: nel frattempo erano trascorse quasi 48 ore dall’orario originario di prevista partenza.
Stamani la decisione ENAC di sospendere la licenza di volo a MyAir per aver così palesemente violato il regolamento comunitario 1008/2008, che pone obbligo ai vettori aerei di fornire adeguata informativa ai passeggeri sulle cause di ritardo o cancellazione di volo e riprotezione nell’eventualità di accidentale indisponibilità dell’aeromobile previsto dall’orario ufficiale. MyAir aveva già ricevuto una diffida in tal senso e la licenza provvisoria era stata rilasciata sul presupposto che, in attesa della preannunciata ristrutturazione finanziaria, il vettore fosse in grado di far fronte ai propri impegni attraverso una disponibilità di cassa sufficiente per garantire la gestione dell'operativo programmato.
L'Enac ha dichiarato infatti di avere «invitato formalmente, il 21 luglio scorso, la compagnia a ripristinare entro 24 ore il regolare svolgimento dei voli schedulati nella corrente stagione di traffico». Ma «la compagnia non ha fornito evidenza di concreti sviluppi in merito alla preannunciata ricapitalizzazione, né i flussi di cassa correnti hanno assicurato e assicurano una copertura dei costi per i servizi essenziali». Così «considerato che la situazione ha pregiudicato e pregiudica gravemente il regolare svolgimento dei servizi di trasporto aereo con riflessi anche di ordine pubblico, si è ritenuto che il proseguimento dell'attività da parte del vettore avrebbe aggravato la situazione complessiva di danno nei confronti dei passeggeri acquirenti dei voli MyAir.com con conseguenze anche sull'ordinato funzionamento del sistema nel periodo di maggior domanda e utilizzazione dei servizi ed infrastrutture di trasporto aereo». Da qui il provvedimento di sospensione della licenza, che prelude alla revoca definitiva di autorizzazione all’esercizio di voli commerciali per la società in questione.
Ciò che rimane non chiaro è il motivo per il quale, pur avendo a disposizione gli strumenti per verificare la solvibilità della compagnia, l’Enac abbia dovuto attendere lo show down con tanto di disagi all’utenza piuttosto che intervenire preventivamente e ripristinare l’autorizzazione al servizio ad acquisizione di elementi comprovanti l’effettiva affidabilità del vettore. Questo procedimento genera il sospetto che l’Enac, alla quale non manca né l’autorità né gli strumenti per condurre istruttorie preventive, in realtà non sia indenne da qualche pressione che non le consente di esercitare il proprio ruolo in modo appropriato, nonostante il suo presidente, Vito Riggio, si vanti di assoluta indipendenza e obiettività dell’ente. Com’è prassi consolidata in questo paese, la prevenzione è solo pura teoria, preferendo a questa pratica quella del grave disagio, o addirittura del disastro, per poi potersi vantare, magari ostentando il petto, del classico quanto inutile ”noi l’avevamo già previsto”…….. e chissà che non si trovi adesso qualche altro eroe pronto a salvare compagnia e dipendenti, rigorosamente a quattro soldi.

lunedì, luglio 20, 2009

La notte dei lunghi coltelli

Lunedì, 20 luglio 2009
Se la proposta provenisse da una qualsiasi fantomatica associazione di consumatori o d’utenti di pubblici servizi la potremmo considerare credibile e genuinamente motivata: un vettore aereo fa registrare sistematici e intollerabili ritardi, peraltro infischiandosene delle sacrosante proteste dei suoi passeggeri e la predetta associazione prende a cuore la situazione e promuove cause individuali e collettive con richieste di risarcimento congrue, dirette a compensare il senso di frustrazione e rabbia che si subiscono in queste circostanze.
Che dietro l’iniziativa, invece, ci sia la Lega Nord di Bossi e soci, improvvisamente assurta al ruolo di paladina di deboli e vessati dalla nuova Alitalia, passata dalle mani dello stato a quelle degli “eroi” di CAI, puzza decisamente di sospetta occasione per consumare vendette e sfogare rancori antichi.
Questi sospetti sono avvalorati da troppe contraddizioni per essere soltanto il frutto di un abbaglio, delle quali sarà sufficiente stendere un semplice elenco per rendersi conto che dietro il solito populismo a basso costo della Lega, ci sono ben altri obiettivi, la cui comprensione svela la pochezza di certi personaggi e il senso opportunistico che consuma dietro alle vere esigenze della gente.
Va premesso che la Lega di Bossi ha sempre sostenuto le decisioni di Berlusconi e del governo in tutte le fasi del travagliato e inopportuno passaggio di Alitalia a CAI, improvvisato vettore aereo già dalle prime battute della lunga trattativa per acquisire a pochi spiccioli l’ex compagnia di bandiera. La tormentata trattativa, il ridicolo piano di rilancio, la composizione della flotta, l’organizzazione delle rotte e le violenze contrattuali consumate contro gli ex dipendenti del gruppo Alitalia e la consorte AirOne, avevano evidenziato come al tavolo delle trattative con il governo e le organizzazioni sindacali non sedessero esperti del settore, ma un manipolo di squali affaristi che, sponsorizzati da un presidente del consiglio esemplare per arroganza e prevaricazione, aveva deciso di portare a termine un’operazione finanziaria ghiottissima e non il salvataggio del prestigio e della tradizione italiana nel settore aereo.
Tutto ciò, ampiamente denunciato, non servì certo alla Lega per prendere le distanze da un’operazione dimostratasi molto discutibile e contrassegnata da una qualità di servizio offerto all’utenza del tutto simile, se non peggiore, a quella preesistente: Alitalia era divenuta nel tempo una compagnia qualitativamente modesta ed è restata tale, quantunque, nella nuova configurazione proprietaria, aiutata ai limiti dell’indecenza da provvedimenti di corollario che ne hanno imposto il profilo monopolistico a danno di altri vettori indipendenti.
Alitalia ha sempre avuto un atteggiamento di scarsa attenzione all’utenza e la mancanza di puntualità dei voli ne è sempre stata la spia: ritardati arrivi di aeromobile in transito, imprecisati motivi tecnici, congestioni del traffico aereo e altre amenità simili sono stati strumenti ai quali si è fatto ricorso per anni per coprire inefficienze organizzative, carenza di managerialità nella gestione del personale, stratagemmi per risparmiare qualche soldo accorpando voli quando i passeggeri erano scarsi.
Ma quelli erano i tempi in cui c’era la speranza della cosiddetta grande Malpensa, dello spostamento dell’asse del traffico aereo da Roma a Milano. Illusione rimasta intatta quando si presentò la CAI come il demiurgo dei mali del trasporto aereo italiano, salvo cambiare atteggiamento oggi che le scelte di collocare l’hub aereo sono cadute su Fiumicino e sono cadute le speranze di quella Lega tronfia e arrogante che tanto aveva speso con il suo elettorato di riferimento in promesse tradite.
Se così no fosse non troverebbe spiegazione un atteggiamento di totale indifferenza alle altrettanto tradite attese di miglioramento di servizi di telefonia dopo la privatizzazione della vecchia SIP. Una Telecom imbrogliona, che promette con roboanti spot pubblicitari standard di connessione ad internet da meraviglia e che non è in grado di mantenere fede agli impegni con l’utenza, tranne in qualche raro quanto ignoto caso, non sembra meritare altrettanto sacro furore dal popolo padano.
E poi quale senso ha parlare di azioni risarcitorie collettive nei confronti delle imprese che eserciscono pubblici servizi quando la Lega risulta tra gli affossatori della legge di civiltà sulla cosiddetta class action? Crede forse il signor Bossi che i suoi elettori vadano in giro costantemente con gli occhi bendati e non si accorgano della strumentalità – è il caso, sì, di dire di bassa lega – con la quale si cavalca il malumore di circostanza della gente? Oggi è l’Alitalia, ieri erano gli immigrati con le farsesche riserve di posti sui mezzi pubblici per i Lumbard. Chissà quale sarebbe stato l’atteggiamento se CAI avesse preferito Malpensa a Fiumicino o cosa accadrebbe se i milioni di immigrati presenti nel nostro paese, spesso sfruttati nella Bergamasca o nel Bresciano con contratti da fame o addirittura in nero, decidessero di tornare a casa così lasciando in mutande le molte piccole imprese che sulla loro pelle si arricchiscono. La verità è che la nostra è ormai l’epoca della politica spettacolo, delle iniziative d’opportunismo capaci di far leva sugli istinti più deleteri e miserabili, in cui il particolare artatamente diventa collettivo e su questo si inventano guerre di posizione e tornaconto. E’ un’epoca nella quale la faida ha la supremazia sulle ragioni obiettive, che vede impegnato ciascuno a coltivare il proprio orticello di piccoli privilegi con una protervia distruttiva senza precedenti. Così si celebrano le notti dei lunghi coltelli, le piccole vendette meschine, pronti comunque ad invertire la direzione di marcia se solo il perseguitato mette sul piatto qualcosa da barattare per ottenere la fine delle ostilità.
(nella foto, Roberto Cota, il valente parlamentare della Lega promotore delle azioni contro Alitalia)

domenica, luglio 05, 2009

Banca ladrona


Domenica, 5 luglio 2009
Il grande dizionario Hoepli alla voce ladro riporta la seguente definizione: “chi ruba occasionalmente o per abitudine”.
Da questa definizione si evince che la condizione essenziale che qualifica la figura del ladro è l’azione di ruberia, cioè la sottrazione a terzi di un bene materiale o immateriale in loro proprietà o possesso attraverso pratiche indebite o illecite con il precipuo fine di realizzare per sé un indebito arricchimento.
Vanno distinti dal ladro le figure del truffatore, del rapinatore e dell’estorsore, che perseguono analoga finalità, ma nel primo caso qualifica le pratiche indebite o illecite con il raggiro o l’artificio; nel secondo caso ricorre a violenza per effettuare la sottrazione o per assicurarsi il possesso o l’utilizzo del bene sottratto; mentre nel terzo caso con violenza o minaccia costringe il terzo titolare di un bene ad una distrazione patrimoniale per procurarsi ingiusto profitto per sé o altri.
La distinzione non è solo scolastica e lessicale, poiché le fattispecie implicano conseguenze giuridiche diverse in termini di pene inflitte dal legislatore nei confronti di quanti incorrano nelle diverse tipologie di reato.
Il Bel Paese ha grande tradizione di praticanti il ladrocinio, la rapina e l’estorsione e in tali pratiche non incorrono solo i privati cittadini spinti da inconfessabili pulsioni o criticabili stati di bisogno, ma costituiscono un vezzo assai diffuso di organizzazioni industriali ed economiche o di interi apparati della pubblica amministrazione, con l’obiettivo differenziati che vanno dal tentativo di sottrarsi all’esecuzione di obblighi connessi con l’esercizio dell’attività, all’arricchimento indebito dei proventi o al drenaggio di massa di denaro per finanziare esecuzione di opere, coprire buchi di bilancio, ripianare perdite non giustificabili e quanto l’italica fantasia è in grado furbescamente di partorire.
Tra le istituzioni notoriamente più avvezze a queste pratiche border line vi sono le banche, vere e proprie strutture parassite che, alle spalle eserciti di legulei, si inventano ogni giorno meccanismi sempre più sofisticati per grassare ai risparmiatori rivoli di denaro, sotto forma di commissioni, spese, interessi, contributi e balzelli ameni, con i quali compensano i tagli che periodicamente vengono decisi dalle autorità governative ai loro danni per rendere il sistema creditizio più moderno e trasparente.
Così non di rado un taglio imposto ai tassi di interesse praticato alla clientela viene surrogato con l’invenzione di una nuova commissione, che vanifica il provvedimento precedente e, spesso, finisce per aumentare gli introiti di questa congregazione a delinquere di furbi refrattaria ad ogni ammodernamento e pratica di concorrenzialità.
Per fare un esempio di queste pratiche, che definire ladresche o truffaldine è quasi fare un complimento, basta citare l’abolizione decisa qualche giorno fa dal ministero per l’economia della commissione massimo scoperto, che veniva applicata dalle banche, in aggiunta ai grassi interessi passivi, ai clienti che avevano la disavventura di andare in rosso di conto corrente. Questa commissione è stata tardivamente e giustamente abolita, considerato che non aveva alcun logico fondamento nella struttura dei costi di gestione degli istituti di credito, ma rappresentava solo un meccanismo di truffa legalizzata a danno della clientela.
Per sopperire a questo taglio i signori banchieri hanno pensato bene che sarebbe stato possibile gravare i conti bancari con un balzello connesso alla disponibilità di fido. Così si sono inventati un onere sui conti corrente legato alla disponibilità di un affidamento, la cui erogazione prescinde dall’effettivo utilizzo del fido medesimo. Come dire, gravo il conto di un onere accessorio effettivo certo a fronte di una disponibilità potenziale, peraltro diversificata ad insindacabile giudizio della testa d’uovo preposta a gestire i singoli sportelli, con libertà del correntista di chiudere il conto in caso di mancata accettazione della nuova condizione.
Ripetiamo, quello citato insieme a tanti altri perversi meccanismi di vera e propria estorsione (vedi la commissione sul prelevamento bancomat, peraltro differenziata tra feriale e festivo, la commissione RID, la commissione MAV, le spese di rilascio carta di credito, l’assicurazione conto, il riferimento a prime rate o ribor o uroribor con relativa commissione aggiuntiva nella concessione di prestiti, il calcolo di valuta, la discrezionalità nella concessione di mutui a tasso fisso o variabile, la recalcitranza alla rinegoziazione dei mutui immobiliari, ecc.), evidenziano la gravissima patologia di un sistema che, per far quadrare i conti o ingrassare gli utili, è uso a spremere il risparmiatore, o comunque il cliente, come si trattasse di un succoso limone, mentre le autorità creditizie rimangono impassibili a guardare o, quando intervengono, lo fanno tardivamente e scarsissima convinzione.
Come ha suggerito un nostro lettore, l’atteggiamento delle nostre banche meriterebbe maggiore attenzione da parte sia dei risparmiatori che degli organismi preposti alla vigilanza del sistema, considerato che i meccanismi della vita moderna rendono il supporto agli strumenti di pagamento virtuale imprescindibili e, dunque, di prima necessità. Tuttavia, non è lecito profittare di questo stato di necessità in maniera così proterva e impune e quando la rabbia popolare finisce per esplodere e travolgere i sistemi non si gridi al sovversivismo di frange de stabilizzatrici, ma si guardi piuttosto alla sedimentazione di un accumulo di ingiustizie e di una rabbia che al superamento del limite di guardia travolgono tutto senza guardare ai torti o alle ragioni di nessuno.
(nella foto, il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, in un intervento all'Assemblea dell'ABI)

giovedì, luglio 02, 2009

Il giudice Mazzella e i compagni di merenda


Giovedì, 2 luglio 2009
«Con la sua lettera Mazzella è reo confesso. Infatti»,- afferma Di Pietro - «egli ammette di essere un amico di vecchia data e di avere rapporti di frequentazione e di intimità con il plurimputato Silvio Berlusconi, senza rendersi conto che egli è anche giudice della Corte Costituzionale che deve esprimersi sulla legittimità del Lodo Alfano, cioè proprio su quella legge che Berlusconi si è confezionato per non farsi processare. Anche uno studente di giurisprudenza capirebbe l'abnormità di questo caso, e lo stesso Mazzella non può non capirlo. Insistiamo con la richiesta di dimissioni e ci appelliamo al presidente della Corte Costituzionale e al presidente della Repubblica affinché intervengano su un fatto così grave che mortifica la credibilità, la sacralità e l'autonomia della Consulta».
Queste brevi considerazioni di Di Pietro ben sintetizzano il senso dello sconcerto provocato dall’incredibile sortita di Luigi Mazzella, giudice della Corte Costituzionale, che fra qualche giorno sarà chiamato ad esprimere il proprio voto sulla legittimità del provvedimento di legge tristemente noto con l’appellativo di lodo Alfano, dal nome del ministro della Giustizia in carica promotore.
E lo sconcerto è ancor più ingrandito dall’incredibile sfrontatezza con la quale un magistrato, con il ruolo istituzionale di Mazzella, ritiene di poter giustificare un atto di gravità inaudita appellandosi a fumosi e pretestuosi principi di libertà democratica, quasi fosse del tutto normale per un giudice sedersi a tavola non solo con degli inquisiti, ma con gli imputati sui quali il giorno dopo deve emettere sentenza.
Il giudice Mazzella, - che tra l’altro in veste d’inquirente non esiterebbe ad additare un appuntamento conviviale del genere quale probabile elemento di tentato inquinamento delle prove, qualora gli indagati non fossero i suoi amici e sé stesso, - a parte l’inopportunità dell’episodio e della scandalosa lettera con la quale ha inteso giustificarlo, dovrebbe dimettersi per il solo fatto di essersi seduto a tavola con un personaggio, dal compromesso nome di Vizzini, che, a memoria, sembra attualmente indagato non per inezie, come un eccesso di velocità, ma per fatti di mafia, come risulta dalle indagini a carico di tal Ciancimino di Palermo, figlio di un noto politico-boss passato a miglior vita.
Dunque, se certamente rientra tra le libertà non solo di Mazzella ma di qualunque cittadino sedersi a tavola con chi più ritiene opportuno, non è consentito a chi riveste carica istituzionale generare il minimo sospetto nella pubblica opinione sorseggiando persino un caffè in compagnia di personaggi sospetti di reati gravissimi e, men che meno, con elementi sui quali deve pronunciarsi in ordine alla legittimità costituzionale degli atti generati.
Ha ragione Di Pietro, quando sostiene che simili comportamenti infangano l’ordine giudiziario e gettano un’ombra tetra su quell’indipendenza e obiettività dei giudici alla base di ogni democrazia. Che il signor Mazzella, poi per giustificare l’evidente caduta di stile, - sempre che di questo si tratti e non si sia autorizzati a pensare altro, - scomodi ironicamente la storia, rammentando come queste censure al suo operato siano state il pane quotidiano della famigerata OVRA (polizia segreta fascista) che riteneva «definitivamente cessate con la caduta del fascismo», è semplicemente ridicolo, poiché è grazie al rigurgito in atto di queste nostalgie che può arrogarsi impunemente il diritto di sostenere l’innocente legittimità del suo comportamento.
Ma se non fosse bastevole l’aver ospitato l’equivoco convivio, Mazzella aggiunge sfrontatamente con una lettera pubblica di autoassolvimento: «Chi abbia potuto raccontare un fantasioso contenuto delle nostre conversazioni a tavola, inventandosi tutto di sana pianta, resta un mistero, che i grandi inquisitori del nostro Paese dovrebbero approfondire prima di lanciare accuse e anatemi. La libertà di cronaca è una cosa, la licenza di raccontare frottole ad ignari lettori è ben altra! Soprattutto quando il fine non è proprio nobile», che evidenzia il tentativo di spostare l’attenzione dalla gravità del fatto in sé ai contenuti effettivi delle conversazioni conviviali intrattenute, che non avrebbero fatto alcun riferimento alla pendente sentenza sulla legittimità del lodo Alfano. In buona sostanza, da oggi ogni giudice, in nome della libertà di gestire il proprio privato come ritiene più opportuno, potrà intrattenere rapporti con autori di reati o imputati sui quali è chiamato a pronunciarsi senza che questo debba generare il minimo sospetto di potenziali camarille solo perché questi possono vantarsi di appartenere alla sua cerchia d’amicizie.
A questo punto della storia non vi è molto da aggiungere, se non che il degrado delle istituzioni appare ormai talmente endemico, talmente infiltrato nel sistema cellulare della nostra sedicente democrazia, al punto da doversi considerare giustificata e legittima ogni devianza.Che ciascuno giudichi da sé e tragga le conclusioni che più ritiene opportune. Ma ricordi il giudice Mazzella ed i suoi importanti amici che la democrazia reca in sé un virus terribile, difficilissimo da sconfiggere, quello dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Da domani spargeremo inviti per organizzare una bella crapula con i Bontade, Riina, Santapaola e qualche personaggio attualmente in segregazione a Guantanamo che ci siamo dichiarati disposti ad ospitare nelle patrie galere e che nessun nostalgico dell’OVRA osi parlare di convivio malavitoso o adunata sediziosa, anche se, ci rendiamo conto, non saremmo noi a dover sentenziare sulla loro colpevolezza.

(nella foto, il giudice della Corte Costituzionale Luigi Mazzella)