Il giudice Mazzella e i compagni di merenda
Giovedì, 2 luglio 2009
«Con la sua lettera Mazzella è reo confesso. Infatti»,- afferma Di Pietro - «egli ammette di essere un amico di vecchia data e di avere rapporti di frequentazione e di intimità con il plurimputato Silvio Berlusconi, senza rendersi conto che egli è anche giudice della Corte Costituzionale che deve esprimersi sulla legittimità del Lodo Alfano, cioè proprio su quella legge che Berlusconi si è confezionato per non farsi processare. Anche uno studente di giurisprudenza capirebbe l'abnormità di questo caso, e lo stesso Mazzella non può non capirlo. Insistiamo con la richiesta di dimissioni e ci appelliamo al presidente della Corte Costituzionale e al presidente della Repubblica affinché intervengano su un fatto così grave che mortifica la credibilità, la sacralità e l'autonomia della Consulta».
Queste brevi considerazioni di Di Pietro ben sintetizzano il senso dello sconcerto provocato dall’incredibile sortita di Luigi Mazzella, giudice della Corte Costituzionale, che fra qualche giorno sarà chiamato ad esprimere il proprio voto sulla legittimità del provvedimento di legge tristemente noto con l’appellativo di lodo Alfano, dal nome del ministro della Giustizia in carica promotore.
E lo sconcerto è ancor più ingrandito dall’incredibile sfrontatezza con la quale un magistrato, con il ruolo istituzionale di Mazzella, ritiene di poter giustificare un atto di gravità inaudita appellandosi a fumosi e pretestuosi principi di libertà democratica, quasi fosse del tutto normale per un giudice sedersi a tavola non solo con degli inquisiti, ma con gli imputati sui quali il giorno dopo deve emettere sentenza.
Il giudice Mazzella, - che tra l’altro in veste d’inquirente non esiterebbe ad additare un appuntamento conviviale del genere quale probabile elemento di tentato inquinamento delle prove, qualora gli indagati non fossero i suoi amici e sé stesso, - a parte l’inopportunità dell’episodio e della scandalosa lettera con la quale ha inteso giustificarlo, dovrebbe dimettersi per il solo fatto di essersi seduto a tavola con un personaggio, dal compromesso nome di Vizzini, che, a memoria, sembra attualmente indagato non per inezie, come un eccesso di velocità, ma per fatti di mafia, come risulta dalle indagini a carico di tal Ciancimino di Palermo, figlio di un noto politico-boss passato a miglior vita.
Dunque, se certamente rientra tra le libertà non solo di Mazzella ma di qualunque cittadino sedersi a tavola con chi più ritiene opportuno, non è consentito a chi riveste carica istituzionale generare il minimo sospetto nella pubblica opinione sorseggiando persino un caffè in compagnia di personaggi sospetti di reati gravissimi e, men che meno, con elementi sui quali deve pronunciarsi in ordine alla legittimità costituzionale degli atti generati.
Ha ragione Di Pietro, quando sostiene che simili comportamenti infangano l’ordine giudiziario e gettano un’ombra tetra su quell’indipendenza e obiettività dei giudici alla base di ogni democrazia. Che il signor Mazzella, poi per giustificare l’evidente caduta di stile, - sempre che di questo si tratti e non si sia autorizzati a pensare altro, - scomodi ironicamente la storia, rammentando come queste censure al suo operato siano state il pane quotidiano della famigerata OVRA (polizia segreta fascista) che riteneva «definitivamente cessate con la caduta del fascismo», è semplicemente ridicolo, poiché è grazie al rigurgito in atto di queste nostalgie che può arrogarsi impunemente il diritto di sostenere l’innocente legittimità del suo comportamento.
Ma se non fosse bastevole l’aver ospitato l’equivoco convivio, Mazzella aggiunge sfrontatamente con una lettera pubblica di autoassolvimento: «Chi abbia potuto raccontare un fantasioso contenuto delle nostre conversazioni a tavola, inventandosi tutto di sana pianta, resta un mistero, che i grandi inquisitori del nostro Paese dovrebbero approfondire prima di lanciare accuse e anatemi. La libertà di cronaca è una cosa, la licenza di raccontare frottole ad ignari lettori è ben altra! Soprattutto quando il fine non è proprio nobile», che evidenzia il tentativo di spostare l’attenzione dalla gravità del fatto in sé ai contenuti effettivi delle conversazioni conviviali intrattenute, che non avrebbero fatto alcun riferimento alla pendente sentenza sulla legittimità del lodo Alfano. In buona sostanza, da oggi ogni giudice, in nome della libertà di gestire il proprio privato come ritiene più opportuno, potrà intrattenere rapporti con autori di reati o imputati sui quali è chiamato a pronunciarsi senza che questo debba generare il minimo sospetto di potenziali camarille solo perché questi possono vantarsi di appartenere alla sua cerchia d’amicizie.
A questo punto della storia non vi è molto da aggiungere, se non che il degrado delle istituzioni appare ormai talmente endemico, talmente infiltrato nel sistema cellulare della nostra sedicente democrazia, al punto da doversi considerare giustificata e legittima ogni devianza.Che ciascuno giudichi da sé e tragga le conclusioni che più ritiene opportune. Ma ricordi il giudice Mazzella ed i suoi importanti amici che la democrazia reca in sé un virus terribile, difficilissimo da sconfiggere, quello dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Da domani spargeremo inviti per organizzare una bella crapula con i Bontade, Riina, Santapaola e qualche personaggio attualmente in segregazione a Guantanamo che ci siamo dichiarati disposti ad ospitare nelle patrie galere e che nessun nostalgico dell’OVRA osi parlare di convivio malavitoso o adunata sediziosa, anche se, ci rendiamo conto, non saremmo noi a dover sentenziare sulla loro colpevolezza.
(nella foto, il giudice della Corte Costituzionale Luigi Mazzella)
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