Nuove “gabbie salariali” per rilanciare l’occupazione
Mercoledì, 5 agosto 2009
Era già nell’aria la sensazione che il sindacato avesse già da tempo dismesso gli abiti del tutore degli interessi dei lavoratori per assumere quelli di un soggetto nuovo, completamente differente da quello conosciuto come soggetto che aveva guidato le lotte operaie per la conquista di diritti e condizioni di vita più dignitose nei posti di lavoro e nella società.
L’imbarbarimento della politica e delle regole di convivenza sociale hanno prodotto nell’ultimo decennio strappi laceranti nell’unità sindacale e nell’esercizio della prassi rappresentativa, trasformando le confederazioni dei lavoratori in veri e propri soggetti politici tendenti a condizionare la strategia di governo in senso generale, più che salvaguardare i frutti delle conquiste realizzate e l’acquisizione di ulteriori diritti democratici e sociali per i propri aderenti.
In altri termini, i sindacati hanno perso definitivamente il loro ruolo tutelare, dal quale derivava la rispettiva legittimazione, per assumere i connotati di veri e propri centri di contropotere, con leader che di fondo hanno dimostrato di pensare più all’elaborazione di strategie idonee a perpetuare potere il personale e le poltrone, brandendo l’arma della rappresentatività per far leva sulla recalcitranza di imprese e politica, che ai problemi reali degli iscritti.
Lo sviluppo di questo trasformismo si è visto con i recenti fatti Alitalia, con gli emendamenti alla normativa Maroni sui pensionamenti o con gli accordi sottoscritti in sede confindustriale sul rinnovo della contrattazione, con scelte che hanno rimesso in discussione i tanti traguardi acquisiti in anni di dure lotte sulle barricate, ma che hanno rinforzato il ruolo e l’immagine dei vari leader di turno, accreditandoli come veri e propri segretari di partiti politici in cerca di una collocazione di peso in posizioni di sottogoverno .
Fuori dal coro, per certi versi, la CGIL, definitivamente isolata nel risiko dei giochi di potere e che rimane l’ultimo avamposto di un’interdizione alle politiche antisociali da lungo tempo attuate dai governi di turno ed avallate dall’opportunismo di UIL e CISL e, ultimamente, da una sdoganata UGL.
Ulteriore esempio di show down è la sortita della UIL, che per bocca di uno dei suoi segretari confederali, Guglielmo Loy, rompe gli indugi e si appresta a guadare il Rubicone, magari con la segreta speranza di ottenere un qualche bollino premio da Sacconi o Tremonti o Brunetta, che non avranno creduto alle loro orecchie nel sentire l’ex sindacato di derivazione socialista proporre la percorribilità di contratti di lavoro a salari stracciati per il Sud.
«Per lo sviluppo del Mezzogiorno», - ha sostenuto Loy, come riportato dalle pagine de Il Sole 24 Ore, - «non c’è bisogno di un “leghismo del Sud”, servono scelte coraggiose, nuove politiche nazionali di discontinuità con il passato. Invece di stilare la solita lista della spesa con richieste “a prescindere”, occorre agire tutti insieme: Governo, regioni e Parti Sociali con interventi congiunturali aventi valenza strutturale».
La ricetta secondo Loy passerebbe per un accordo per la stipulazione di contratti d’assunzione a tempo indeterminato nel quale siano previste retribuzioni inferiori a quelle stabilite dai minimi dei contratti nazionali di categoria per un periodo di 3/5 anni.
A chi ha obiettato al geniale sindacalista che non solo questa era stata una proposta della Lega di Bossi, bocciata senza appello dalle opposizioni, ma mai abbandonata dall’attuale coalizione di centro-destra, sebbene già tema di profondo scontro sociale degli anni ’60 quando erano in vigore le famigerate gabbie salariali, un serafico Loy ha ribattuto: «Le differenze salariali tra Nord e Sud sono nei fatti. Con il calo dell’occupazione stabile soprattutto nelle Regioni meridionali lo stock complessivo delle retribuzioni nel Mezzogiorno è di gran lunga inferiore».
Quantunque la questione possa effettivamente e tragicamente configurarsi come dichiara l’arguto Loy, sconcerta dover prendere atto come dal sindacalismo d’interdizione e di mobilitazione si sia passati a quello di rassegnata denuncia. Stupisce che un esponente di spicco di uno dei sindacati maggiormente significativi del panorama nazionale si limiti a prendere atto di un massacro sociale perpetrato da esperienze di governi in combutta con le frange più reazionarie del capitalismo padrone e non denunci la colpevolezza e l’immobilismo della sua confederazione in questo gravissimo processo di degrado.
Per oltre un decennio si è lavorato per smantellare le basi dello stato sociale e dei principi di solidarietà che avevano contraddistinto la politica sindacale negli anni tra il ’70 e la fine del secolo scorso. Il Mezzogiorno, nonostante le ingenti risorse stanziate, è rimasto ai margini di un processo d’industrializzazione, incapace di creare radicamento nel territorio e diffondere una cultura moderna e di sviluppo. La collusione mai sconfitta tra affari e delinquenzialità, tra politica locale e potentati malavitosi, ha di fatto schiacciato le già scarse iniziative imprenditoriali, costrette nei fatti a venire spesso a patto con la criminalità organizzata per sopravvivere o a smobilitare rapidamente. L’assenza di un tessuto industriale sano e diffuso, scarsamente sostenuto dallo stato e dalle leggi, ha prodotto un’economia basata sulla piccola impresa impossibilitata a sostenere i costi legali del lavoro, un mercato nero dell’occupazione afflitto da clientelismo diffuso, un’occupazione esposta al ricatto di un’imprenditoria di rapina, che ha cercato di far quadrare i conti risparmiando sui più elementari principi di sicurezza, contribuzione sociale, fiscalità.
Tutto questo è accaduto sotto gli occhi, per non dire tacito avallo, del sindacato, che poco se non nulla ha fatto per impedire che processi da albori dell’industrializzazione divenissero regola consolidata e diffusa nei rapporti economici e sociali persino in epoca moderna.
Viene spontaneo chiedersi dove fossero questi arguti ragionieri di “stock retributivi” quando qualche improvvido governo, peraltro di sinistra (sic!) si inventava contratti a progetto o temporanei, dando la stura al fenomeno diffuso del precariato permanente di cui si piangono irrisolte le conseguenze. Viene spontaneo chiedersi in base a quale logica un Sud già devastato da tassi di disoccupazione terzomondisti, che peraltro spesso finisce con la disperazione sociale per ingrossare le fila del sistema malavitoso, dovrebbe accettare retribuzioni appena più decenti di quelle corrisposte agli extracomunitari, magari clandestini e quanto dovrà durare quest’interminabile processo di avvicinamento alle regole civili dell’Europa.
Ad ogni Nord corrisponde un Sud, ma in nessun Sud d’Europa esiste una problematica come quella italiana, né in Grecia, né in Portogallo, né in Spagna, giusto per citare i Paesi mediterranei del continente europeo. Le specificità italiane sono più riscontrabili in Paesi come Albania, Romania o Bulgaria, per citarne alcuni, che certo non costituiscono un esempio di progresso e di sviluppo sociale.
Ma i dubbi sono probabilmente figli di un’inguaribile propensione alla retorica che si è ormai sostituita all’essenza di un’idealità di altri tempi.
Nell’epoca in cui viviamo, - ma sarebbe meglio dire sopravviviamo, - l’esercizio populistico di ventilazione dell’apparato masticatorio è regola diffusa, alla quale certamente per intuibili interessi non poteva sfuggire un sindacato nel cui DNA è radicata la convinzione che la missione dei suoi gerarchi sia l’occupazione del potere, non sicuramente la difesa degli interessi dei deboli e dei perseguitati da un sistema di capitalismo vorace e spregiudicato, sempre pronto a frignare alle gonne del pubblico sostegno pur di rimpinguare il proprio tornaconto. In questa prospettiva la proposta UIL rappresenta solo un antistorico tentativo di individuare soluzioni di corto respiro ad una tragedia che si trascina da troppo tempo, con un’evidente strizzatina d’occhio al potere dominante di cui ci si attende possibilmente gratitudine. Certo è una grande tristezza dover prendere atto di come il metodo della “minestra riscaldata”, - come avrebbe detto Bettino Craxi, - sia sempre attuale e si speri possa pagare.
Era già nell’aria la sensazione che il sindacato avesse già da tempo dismesso gli abiti del tutore degli interessi dei lavoratori per assumere quelli di un soggetto nuovo, completamente differente da quello conosciuto come soggetto che aveva guidato le lotte operaie per la conquista di diritti e condizioni di vita più dignitose nei posti di lavoro e nella società.
L’imbarbarimento della politica e delle regole di convivenza sociale hanno prodotto nell’ultimo decennio strappi laceranti nell’unità sindacale e nell’esercizio della prassi rappresentativa, trasformando le confederazioni dei lavoratori in veri e propri soggetti politici tendenti a condizionare la strategia di governo in senso generale, più che salvaguardare i frutti delle conquiste realizzate e l’acquisizione di ulteriori diritti democratici e sociali per i propri aderenti.
In altri termini, i sindacati hanno perso definitivamente il loro ruolo tutelare, dal quale derivava la rispettiva legittimazione, per assumere i connotati di veri e propri centri di contropotere, con leader che di fondo hanno dimostrato di pensare più all’elaborazione di strategie idonee a perpetuare potere il personale e le poltrone, brandendo l’arma della rappresentatività per far leva sulla recalcitranza di imprese e politica, che ai problemi reali degli iscritti.
Lo sviluppo di questo trasformismo si è visto con i recenti fatti Alitalia, con gli emendamenti alla normativa Maroni sui pensionamenti o con gli accordi sottoscritti in sede confindustriale sul rinnovo della contrattazione, con scelte che hanno rimesso in discussione i tanti traguardi acquisiti in anni di dure lotte sulle barricate, ma che hanno rinforzato il ruolo e l’immagine dei vari leader di turno, accreditandoli come veri e propri segretari di partiti politici in cerca di una collocazione di peso in posizioni di sottogoverno .
Fuori dal coro, per certi versi, la CGIL, definitivamente isolata nel risiko dei giochi di potere e che rimane l’ultimo avamposto di un’interdizione alle politiche antisociali da lungo tempo attuate dai governi di turno ed avallate dall’opportunismo di UIL e CISL e, ultimamente, da una sdoganata UGL.
Ulteriore esempio di show down è la sortita della UIL, che per bocca di uno dei suoi segretari confederali, Guglielmo Loy, rompe gli indugi e si appresta a guadare il Rubicone, magari con la segreta speranza di ottenere un qualche bollino premio da Sacconi o Tremonti o Brunetta, che non avranno creduto alle loro orecchie nel sentire l’ex sindacato di derivazione socialista proporre la percorribilità di contratti di lavoro a salari stracciati per il Sud.
«Per lo sviluppo del Mezzogiorno», - ha sostenuto Loy, come riportato dalle pagine de Il Sole 24 Ore, - «non c’è bisogno di un “leghismo del Sud”, servono scelte coraggiose, nuove politiche nazionali di discontinuità con il passato. Invece di stilare la solita lista della spesa con richieste “a prescindere”, occorre agire tutti insieme: Governo, regioni e Parti Sociali con interventi congiunturali aventi valenza strutturale».
La ricetta secondo Loy passerebbe per un accordo per la stipulazione di contratti d’assunzione a tempo indeterminato nel quale siano previste retribuzioni inferiori a quelle stabilite dai minimi dei contratti nazionali di categoria per un periodo di 3/5 anni.
A chi ha obiettato al geniale sindacalista che non solo questa era stata una proposta della Lega di Bossi, bocciata senza appello dalle opposizioni, ma mai abbandonata dall’attuale coalizione di centro-destra, sebbene già tema di profondo scontro sociale degli anni ’60 quando erano in vigore le famigerate gabbie salariali, un serafico Loy ha ribattuto: «Le differenze salariali tra Nord e Sud sono nei fatti. Con il calo dell’occupazione stabile soprattutto nelle Regioni meridionali lo stock complessivo delle retribuzioni nel Mezzogiorno è di gran lunga inferiore».
Quantunque la questione possa effettivamente e tragicamente configurarsi come dichiara l’arguto Loy, sconcerta dover prendere atto come dal sindacalismo d’interdizione e di mobilitazione si sia passati a quello di rassegnata denuncia. Stupisce che un esponente di spicco di uno dei sindacati maggiormente significativi del panorama nazionale si limiti a prendere atto di un massacro sociale perpetrato da esperienze di governi in combutta con le frange più reazionarie del capitalismo padrone e non denunci la colpevolezza e l’immobilismo della sua confederazione in questo gravissimo processo di degrado.
Per oltre un decennio si è lavorato per smantellare le basi dello stato sociale e dei principi di solidarietà che avevano contraddistinto la politica sindacale negli anni tra il ’70 e la fine del secolo scorso. Il Mezzogiorno, nonostante le ingenti risorse stanziate, è rimasto ai margini di un processo d’industrializzazione, incapace di creare radicamento nel territorio e diffondere una cultura moderna e di sviluppo. La collusione mai sconfitta tra affari e delinquenzialità, tra politica locale e potentati malavitosi, ha di fatto schiacciato le già scarse iniziative imprenditoriali, costrette nei fatti a venire spesso a patto con la criminalità organizzata per sopravvivere o a smobilitare rapidamente. L’assenza di un tessuto industriale sano e diffuso, scarsamente sostenuto dallo stato e dalle leggi, ha prodotto un’economia basata sulla piccola impresa impossibilitata a sostenere i costi legali del lavoro, un mercato nero dell’occupazione afflitto da clientelismo diffuso, un’occupazione esposta al ricatto di un’imprenditoria di rapina, che ha cercato di far quadrare i conti risparmiando sui più elementari principi di sicurezza, contribuzione sociale, fiscalità.
Tutto questo è accaduto sotto gli occhi, per non dire tacito avallo, del sindacato, che poco se non nulla ha fatto per impedire che processi da albori dell’industrializzazione divenissero regola consolidata e diffusa nei rapporti economici e sociali persino in epoca moderna.
Viene spontaneo chiedersi dove fossero questi arguti ragionieri di “stock retributivi” quando qualche improvvido governo, peraltro di sinistra (sic!) si inventava contratti a progetto o temporanei, dando la stura al fenomeno diffuso del precariato permanente di cui si piangono irrisolte le conseguenze. Viene spontaneo chiedersi in base a quale logica un Sud già devastato da tassi di disoccupazione terzomondisti, che peraltro spesso finisce con la disperazione sociale per ingrossare le fila del sistema malavitoso, dovrebbe accettare retribuzioni appena più decenti di quelle corrisposte agli extracomunitari, magari clandestini e quanto dovrà durare quest’interminabile processo di avvicinamento alle regole civili dell’Europa.
Ad ogni Nord corrisponde un Sud, ma in nessun Sud d’Europa esiste una problematica come quella italiana, né in Grecia, né in Portogallo, né in Spagna, giusto per citare i Paesi mediterranei del continente europeo. Le specificità italiane sono più riscontrabili in Paesi come Albania, Romania o Bulgaria, per citarne alcuni, che certo non costituiscono un esempio di progresso e di sviluppo sociale.
Ma i dubbi sono probabilmente figli di un’inguaribile propensione alla retorica che si è ormai sostituita all’essenza di un’idealità di altri tempi.
Nell’epoca in cui viviamo, - ma sarebbe meglio dire sopravviviamo, - l’esercizio populistico di ventilazione dell’apparato masticatorio è regola diffusa, alla quale certamente per intuibili interessi non poteva sfuggire un sindacato nel cui DNA è radicata la convinzione che la missione dei suoi gerarchi sia l’occupazione del potere, non sicuramente la difesa degli interessi dei deboli e dei perseguitati da un sistema di capitalismo vorace e spregiudicato, sempre pronto a frignare alle gonne del pubblico sostegno pur di rimpinguare il proprio tornaconto. In questa prospettiva la proposta UIL rappresenta solo un antistorico tentativo di individuare soluzioni di corto respiro ad una tragedia che si trascina da troppo tempo, con un’evidente strizzatina d’occhio al potere dominante di cui ci si attende possibilmente gratitudine. Certo è una grande tristezza dover prendere atto di come il metodo della “minestra riscaldata”, - come avrebbe detto Bettino Craxi, - sia sempre attuale e si speri possa pagare.
(nella foto, Gugliemo Loy, segretario confederale UIL)
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