Fiat: l’accordo ricatto
Mercoledì, 23 giugno 2010
A Pomigliano si respira aria nuova, un’aria di restaurazione senza precedenti, che nel corso di una notte, spostando le lancette dell’orologio indietro di quasi mezzo secolo, ha visto il capitalismo, quello becero e retrivo, celebrare una vittoria epocale sulla classe operaia.
Da più parti si afferma che l’accordo tra Fiat e sindacati, - con la sola eccezione della Fiom, - per il rilancio dello stabilimento di Pomigliano d’Arco è da ritenersi epocale, e non solo perché eviterebbe la chiusura di quell’impianto ed il mantenimento di una quota rilevante della produzione automobilistica nel nostro Paese, ma perché avrebbe tracciato una nuova direttrice di relazioni industriali e un rinnovato equilibrio di forze nel rapporto tra strutture datoriali e organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori.
Se questo aspetto non può non ritenersi vero, al contempo rischia di divenire di secondaria importanza nel quadro di una valutazione degli effetti che l’accordo ha prodotto a detrimento del lungo processo di modernizzazione nel sistema dei diritti e delle conquiste nel processo di umanizzazione del lavoro, affrancatosi da un rapporto di schiavitù e di sfruttamento indecente grazie alle lotte per la democrazia in fabbrica e per il riconoscimento di tutele fondamentali, come quella per un salario dignitoso e la tutela della salute.
E quest’aspetto è di fondamentale importanza, sebbene schiere di maître à penser da decenni predichino sulla scomparsa definitiva della classe operaia, che sarebbe stata soppiantata, grazie all’automazione e all’informatizzazione diffusa, da nuove categorie di prestatori d’opera non più identificabili con gli operai tradizionali legati alla manualità spinta e ai ritmi della catena di montaggio. In realtà questa tesi non solo è falsa, ma ha mistificato la realtà al punto da inculcare nelle coscienze la convinzione che eufemistiche terminologie, atte a promuovere esclusivamente una sorta di promozione sociale di facciata, abbiano effettivamente cancellato l’essenza del significato di proletariato e di sfruttamento capitalistico del lavoro.
E’ innegabile che l’informatizzazione e l’automazione abbiano trasformato la natura dell’esecuzione delle prestazioni, ma non è stato certo l’introduzione del computer nel governo dei ritmi di lavoro a mutare le radici di una relazione antinomica tra chi detiene i mezzi di produzione e colui che mette il proprio braccio o le proprie capacità mentali al suo servizio, in cambio di un compenso di gran lunga inferiore alla semplice remunerazione del capitale investito. In altri termini, affinché si possa parlare di redistribuzione equa della ricchezza e di reale affrancamento sociale non è sicuramente sufficiente sostituire all’immagine della cameriera, armata di ramazza, con quella della più in voga colf, dotata di aspirapolvere. E’ semmai vero il contrario, che cioè il progresso tecnologico ha ingrossato a dismisura l’esercito degli sfruttati e degli emarginati, costretti ad un modo nuovo di erogazione delle proprie capacità psicofisiche a favore di una classe sempre più ristretta di possessori di ricchezza.
E quel consenso rilasciato dalla stessa classe operaia all’approvazione dell’accordo di Pomigliano, che con ipertrofia interpretativa viene scambiato per autocoscienza, è solo il frutto di una combinazione tra l’illusione di non far più parte del proletariato storico, sinonimo di classe sociale marginale, e del ricatto messo in atto dalla Fiat con la minaccia di chiudere lo stabilimento e lasciare nella disperazione le migliaia di famiglie che su quella fabbrica basano le proprie speranze di sopravvivenza.
Certo, non era più concepibile che una singola impresa fosse penalizzata e si accollasse i costi di un diffuso malessere sociale rappresentato dall’alto assenteismo. Ma non è altresì concepibile che la soluzione al fenomeno in questione, - aggravato da decenni di lassismo e dallo sfascio totale di un sistema sanitario colluso e connivente, incapace di compiere il proprio dovere come in qualunque paese civile, - si sia stata individuata tout court nella cancellazione del diritto alla tutela della salute e, peggio, in una grave e pericolosissima traccia sulla quale rifondare il sistema delle relazioni di fabbrica: questi metodi da integralismo islamico equivalgono a quello classico di buttare via l’acqua sporca insieme con il bambino. E infine, sbandierare questa débâcle oscurantista come un new deal modernista suona oscenamente demenziale.
Queste sconfitte, peraltro avvallate da sindacati servi, pronti a svendere la pelle dei propri iscritti pur di garantire la scalata al potere personale dei suoi leader, rappresentano il sintomo di una frattura irreversibile tra gli interessi della gente, quella vera e che lotta ogni giorno per la sopravvivenza, e una classe dirigente proterva e avvezza ad ogni infame scorreria pur di salvaguardare il proprio tornaconto. Recentissimi dati statistici hanno evidenziato come l’Italia sia un paese nel quale i salari sono tra i più bassi di quelli degli altri paesi ad economia avanzata e dove la crisi economica ha prodotto il più basso recupero della perdita di potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Su quest’aspetto non si rileva un altrettanto ferma presa di posizione di quei sindacati che hanno sottoscritto l’accordo canaglia di Pomigliano, pronti sì a denunciare a parole lo stato di degrado sociale ed economico delle categorie dipendenti, ma subalterne al potere politico dominante quando si tratta d’assumere le doverose iniziative di lotta e rivendicazione: la vicenda Alitalia è al riguardo molto istruttiva.
Che poi si plauda a quegli operai, che approvando l’accordo in questione si siano comportati come colui che ha scelto la corda con la quale impiccarsi, è un ulteriore sintomo di quel processo di degrado dei valori che ha ormai attaccato come un virus incurabile l’essenza della nostra civiltà.
A Pomigliano si respira aria nuova, un’aria di restaurazione senza precedenti, che nel corso di una notte, spostando le lancette dell’orologio indietro di quasi mezzo secolo, ha visto il capitalismo, quello becero e retrivo, celebrare una vittoria epocale sulla classe operaia.
Da più parti si afferma che l’accordo tra Fiat e sindacati, - con la sola eccezione della Fiom, - per il rilancio dello stabilimento di Pomigliano d’Arco è da ritenersi epocale, e non solo perché eviterebbe la chiusura di quell’impianto ed il mantenimento di una quota rilevante della produzione automobilistica nel nostro Paese, ma perché avrebbe tracciato una nuova direttrice di relazioni industriali e un rinnovato equilibrio di forze nel rapporto tra strutture datoriali e organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori.
Se questo aspetto non può non ritenersi vero, al contempo rischia di divenire di secondaria importanza nel quadro di una valutazione degli effetti che l’accordo ha prodotto a detrimento del lungo processo di modernizzazione nel sistema dei diritti e delle conquiste nel processo di umanizzazione del lavoro, affrancatosi da un rapporto di schiavitù e di sfruttamento indecente grazie alle lotte per la democrazia in fabbrica e per il riconoscimento di tutele fondamentali, come quella per un salario dignitoso e la tutela della salute.
E quest’aspetto è di fondamentale importanza, sebbene schiere di maître à penser da decenni predichino sulla scomparsa definitiva della classe operaia, che sarebbe stata soppiantata, grazie all’automazione e all’informatizzazione diffusa, da nuove categorie di prestatori d’opera non più identificabili con gli operai tradizionali legati alla manualità spinta e ai ritmi della catena di montaggio. In realtà questa tesi non solo è falsa, ma ha mistificato la realtà al punto da inculcare nelle coscienze la convinzione che eufemistiche terminologie, atte a promuovere esclusivamente una sorta di promozione sociale di facciata, abbiano effettivamente cancellato l’essenza del significato di proletariato e di sfruttamento capitalistico del lavoro.
E’ innegabile che l’informatizzazione e l’automazione abbiano trasformato la natura dell’esecuzione delle prestazioni, ma non è stato certo l’introduzione del computer nel governo dei ritmi di lavoro a mutare le radici di una relazione antinomica tra chi detiene i mezzi di produzione e colui che mette il proprio braccio o le proprie capacità mentali al suo servizio, in cambio di un compenso di gran lunga inferiore alla semplice remunerazione del capitale investito. In altri termini, affinché si possa parlare di redistribuzione equa della ricchezza e di reale affrancamento sociale non è sicuramente sufficiente sostituire all’immagine della cameriera, armata di ramazza, con quella della più in voga colf, dotata di aspirapolvere. E’ semmai vero il contrario, che cioè il progresso tecnologico ha ingrossato a dismisura l’esercito degli sfruttati e degli emarginati, costretti ad un modo nuovo di erogazione delle proprie capacità psicofisiche a favore di una classe sempre più ristretta di possessori di ricchezza.
E quel consenso rilasciato dalla stessa classe operaia all’approvazione dell’accordo di Pomigliano, che con ipertrofia interpretativa viene scambiato per autocoscienza, è solo il frutto di una combinazione tra l’illusione di non far più parte del proletariato storico, sinonimo di classe sociale marginale, e del ricatto messo in atto dalla Fiat con la minaccia di chiudere lo stabilimento e lasciare nella disperazione le migliaia di famiglie che su quella fabbrica basano le proprie speranze di sopravvivenza.
Certo, non era più concepibile che una singola impresa fosse penalizzata e si accollasse i costi di un diffuso malessere sociale rappresentato dall’alto assenteismo. Ma non è altresì concepibile che la soluzione al fenomeno in questione, - aggravato da decenni di lassismo e dallo sfascio totale di un sistema sanitario colluso e connivente, incapace di compiere il proprio dovere come in qualunque paese civile, - si sia stata individuata tout court nella cancellazione del diritto alla tutela della salute e, peggio, in una grave e pericolosissima traccia sulla quale rifondare il sistema delle relazioni di fabbrica: questi metodi da integralismo islamico equivalgono a quello classico di buttare via l’acqua sporca insieme con il bambino. E infine, sbandierare questa débâcle oscurantista come un new deal modernista suona oscenamente demenziale.
Queste sconfitte, peraltro avvallate da sindacati servi, pronti a svendere la pelle dei propri iscritti pur di garantire la scalata al potere personale dei suoi leader, rappresentano il sintomo di una frattura irreversibile tra gli interessi della gente, quella vera e che lotta ogni giorno per la sopravvivenza, e una classe dirigente proterva e avvezza ad ogni infame scorreria pur di salvaguardare il proprio tornaconto. Recentissimi dati statistici hanno evidenziato come l’Italia sia un paese nel quale i salari sono tra i più bassi di quelli degli altri paesi ad economia avanzata e dove la crisi economica ha prodotto il più basso recupero della perdita di potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Su quest’aspetto non si rileva un altrettanto ferma presa di posizione di quei sindacati che hanno sottoscritto l’accordo canaglia di Pomigliano, pronti sì a denunciare a parole lo stato di degrado sociale ed economico delle categorie dipendenti, ma subalterne al potere politico dominante quando si tratta d’assumere le doverose iniziative di lotta e rivendicazione: la vicenda Alitalia è al riguardo molto istruttiva.
Che poi si plauda a quegli operai, che approvando l’accordo in questione si siano comportati come colui che ha scelto la corda con la quale impiccarsi, è un ulteriore sintomo di quel processo di degrado dei valori che ha ormai attaccato come un virus incurabile l’essenza della nostra civiltà.
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