mercoledì, giugno 30, 2010

I cannoli di Dell’Utri

Mercoledì, 30 giugno 2010
Alla fine è stato condannato, pur se rispetto ai nove anni del primo grado e agli undici richiesti nella requisitoria del processo d’appello dal pubblico ministero, i sette che gli sono stati inflitti rappresentano uno sconto non indifferente. Ma da qui a gridare alla “caduta del teorema”, come ha prontamente fatto qualche rappresentante di spot pubblicitari in quota al PdL, ne corre di certo. Certo, non siamo ai cannoli di Cuffaro, ma una condanna a ben sette anni, che pone una pesantissima ipoteca sull’esito del probabile ed ultimo appello in Cassazione e che, soprattutto, conferma l’organicità dell’amico di Berlusconi alla mafia, ci parrebbe lasci poco spazio a canti di vittoria.
Ma la vicenda Dell’Utri, al di là delle conclusioni giudiziarie, ha un elemento di torbida rilevanza, che di per sé dovrebbe imporre una riflessione e condurre il cittadino a reclamare un modo nuovo di fare politica ed al contemporaneo rinnovo dei criteri con i quali una vergognosa legge elettorale consente ai partiti, gestiti da veri e propri capi clan, di imporre al Paese personaggi impresentabili e del tutto screditati come lui.
Ci si trova infatti davanti ad un personaggio che, oltre ad aver già numerose volte dichiarato che la sua investitura politica è servita esclusivamente a evitargli il carcere, oggi ribadisce senza il minimo pudore il valore eroico di uno squallido assassino come Mangano, - il famigerato stalliere imposto da Dell’Utri e Cinà ad Arcore in casa niente meno del premier Silvio Berlusconi, che a sua volta ha sempre sostenuto di essere ignaro delle frequentazioni sia del suo amico e consigliere che dei trascorsi del prode esperto di quadrupedi in questione.
Davanti a dichiarazioni come queste, se fossimo in un Paese con un minimo di dignità e di rispetto verso se stesso, Dell'Utri meriterebbe d’essere "degradato" e spedito in esilio, come il peggiore dei reietti.
Al contrario, il personaggio continua a fregiarsi e farsi scudo dell’appellativo di senatore della Repubblica, con ciò sentendosi autorizzato a proferire qualunque criminale scemenza, anche nel probabile tentativo di mandare precisi messaggi a certi amici con i quali non é immaginabile si possano interrompere impunemente i rapporti.
E nell’affermazione di Dell’Utri non c’è solo il demenziale omaggio ad un picciotto scomparso, ma c’è la rivalutazione di principi irrinunciabili e sempiterni per la mafia: l’omertà, il patto di fratellanza indelebile nel tempo, l’apoteosi del sacrificio della vita per mantenere il segreto, cioè quelle regole che da sempre governano il potere parallelo di un’organizzazione criminale profondamente radicata nella cultura criminale della nostra epoca e che ha infettato inguaribilmente anche i livelli più alta della rappresentanza politica.
In tempi diversi e su sponde opposte, torna alla memoria il caso di tal Toni Negri, perseguito per un reato d’opinione e costretto, dopo la condanna per quel crimine, all’esilio. Qui, - se ci si consente un parallelo, - ci si trova di fronte ad un personaggio che con le sue affermazione intenderebbe sdoganare non tanto quattro straccioni in odore di eversione verso le istituzioni, ma un’organizzazione che governa da oltre un secolo il mercato del terrore e della morte, con droga, prostituzione, corruzione di funzionari pubblici e privati con annesso ricorso all’omicidio anche di bambini.
Tutto ciò in uno stato civile non può essere ammissibile,- e si badi, non a caso si parla di stato civile e non di diritto, poiché le regole della comune convivenza e della correttezza sono dell’etica e non certo del diritto, che serve esclusivamente a fissare i paletti invalicabili affinché quelle regole non vengano eluse o calpestate a danno di qualcuno e a favore di qualcun altro.
Al cospetto di queste inaudite affermazioni ci si attenderebbe che il parlamento, quello costituito dai rari onesti che ancora vi siedono, fosse il primo ad insorgere e chiedere la costituzione al proprio interno di un gran giurì a cui delegare l’assunzione di provvedimenti adeguati, non ultima la radiazione dai propri ranghi di chi offende l’etica dello stato e appanna l’immagine delle istituzioni e dei cittadini anche a livello internazionale. Gli stessi finiani, - componente dissidente all’interno della compagine di maggioranza e organica al PdL, - non possono limitarsi a generiche affermazioni quali “c’è poco da festeggiare”, riferendosi all’esito di una sentenza di condanna di Dell’Utri mitigata rispetto al primo grado di giudizio. Se avessero un barlume di recuperata dignità e non facessero anche loro propaganda di maniera, dovrebbero rifiutarsi di sedere accanto ad un rappresentante del popolo che, anziché tacere e accollarsi il peso della propria colpa, sciorina un folle laudate ad un insigne rappresentate della criminalità e della barbarie umana. Ma purtroppo, nella logica della politica, ogni abuso è lecito quando la sua denuncia rischia di mettere in gioco il privilegio e il potere personale.
E' con questa logica che i Borsellino, i Falcone, i Chinnici, i Dalla Chiesa, i La Torre, e i tanti altri caduti in nome e in difesa di una legalità solo virtuale, si degradano a livello di mentecatti, incapaci di accettare i compromessi che impone il nostro tempo. Altro che eroi, che hanno sacrificato la vita per cercare di debellare il cancro mortale che condiziona la nostra esistenza, ma illusi idealisti che, al cospetto di un Mangano, non appaiono che sprovveduti idioti.

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