Il giocattolo rotto del Cavaliere
Lunedì, 6 settembre 2010
Ne ha avuto per tutti Gianfranco Fini nel suo attesissimo discorso di ieri a Mirabello. Per il premier, per i suoi giornali “infami”, per gli ex colonnelli o capitani di AN, per Gheddafi, per la gestione della giustizia, per il lavoro e l’economia.
A tutti ha dedicato un passaggio quasi liberatorio di due anni passati a sopportare i soprusi, i diktat del Cavaliere, il voltafaccia dei Gasparri, Matteoli, La Russa «che hanno soltanto cambiato generale e magari sono pronti a cambiarlo di nuovo» alla stessa stregua di moderni capitani di ventura, pronti a vendere il proprio braccio a chi paga meglio e assicura loro una partecipazione nella sparizione del bottino.
E nel pronunciare il suo discorso, Fini coglie il segno, facendosi interprete del generale sentimento popolare, che mal sopporta ormai le tiritere dei servetti di Arcore come Capezzone, sempre più nell’improbabile veste di un Savonarola prezzolato, o Cicchitto, sempre più calato nei panni di un patetico Richelieu proteso a difendere interessi di curia. Ovviamente queste punte d’iceberg si muovono in buona compagnia, potendo contare sui rincalzi Gasparri, che oggi sputa persino nel piatto che per lunghi anni ha leccato, o La Russa, che simulando di non perdere mai la mordacia, sostiene che non sono i colonnelli ad aver cambiato la divisa, ma è il generale Fini che ha abbandonato la caserma.
E coglie il segno anche quando sferra l’attacco al padrone del PdL in persona, artefice di uno spettacolo indecoroso con le sue genuflessioni a Gheddafi, un personaggio che «non ha certamente alcuna statura morale per dare lezioni di libertà verso le donne o di rispetto dei diritti civili». Poi non risparmia a Berlusconi accuse precise sullo stile, «un uomo che confonde il governare con il comandare come se lo stato fosse un’azienda di famiglia, che non esita a ricorrere ai peggiori metodi stalinisti per liberarsi del dissenso» come ha fato con lui, «che stravolge il concetto d’immunità al punto da volerla rendere impunità e che considera gli avversari nemici da sconfiggere».
Poi è la volta del capitolo giustizia. La magistratura è un caposaldo della nostra democrazia, premette Fini, anche se ci sono alcune mele marce. Fatto salvo l'obiettivo di tutelare le alte cariche dello Stato, non sembrano percorribili ipotesi (come la norma provvisoria contenuta nel provvedimento sul processo breve) che cancellano un gran numero di procedimenti in corso, colpendo cittadini che aspettano da anni di veder riconosciuti i propri diritti: uno stop alla norma a cui sta lavorando la maggioranza con il consigliere giuridico del premier, quel Niccolò Ghedini a cui il presidente della Camera riserva l'immagine del Dottor Stranamore, che «dovrebbe risolvere una cosa e non lo fa mai». Altro punto contestato, eppure sempre nell'agenda di governo, il federalismo che è accettabile, precisa Fini, solo a patto di non penalizzare il Sud. Non manca un accenno anche alla legge elettorale, con un mea culpa per un sistema che riserva agli elettori non più la sovranità popolare ma un «prendere o lasciare». Un passaggio che farà arrabbiare Umberto Bossi e che implicitamente rimanda al mittente l’offerta di Berlusconi di garantire un posto nelle liste ai seguaci del presidente della Camera che facessero opera di contrizione e rientrassero nelle file del PdL, formazione oramai definita «partito del Predellino o Forza Italia allargata», insomma un giocattolo rotto di cui è pressoché impossibile rimettere insieme i pezzi..
A chi aveva dubbi, con il suo discorso Gianfranco Fini ha palesato come per lui e gli amici che lo hanno seguito il PdL sia cosa morta; un discorso che suona come il de profundis per un’esperienza di percorso comune tra destra storica legalista e destra affarista. La stessa presa di posizione di denuncia della condizione di grave disagio sociale per i giovani, in larga parte disoccupati, per le forze di polizia, umiliate dalla politica dei risparmi del governo, che ha tagliato i fondi per le dotazioni, e per i precari della scuola, rimasti senza lavoro a causa delle dissennate scelte della Gelmini e delle politiche dei tagli imposti da Tremonti, denotano l’apertura di un crepaccio incolmabile tra l’andazzo berlusconiano e, sebbene discutibile, visione politica della destra finiana.
Tuto ciò, al momento, lascia solo sconcerto e disorientamento nell’elettorato e nelle stanze del Cavaliere, che fino ad ora non ha rilasciato alcun commento al discorso del suo ex alleato. Certo è che le elezioni anticipate appaiono sempre più imminenti, quantunque la loro indizione si giochi sul comportamento di chi per primo getterà la spugna.
Al momento e nonostante le prese di distanza, Fini ha garantito non solo il suo posizionamento a destra dello schieramento politico, ma anche il suo appoggio ai cinque punti sui quali Berlusconi dichiara voler chiedere nei prossimi giorni la fiducia del parlamento e, così, avviare la conta di quanti sostengono la sua zoppicane maggioranza. Ma il Cavaliere sa di non potersi fare alcuna illusione dal portare a casa una dichiarazione di sostegno, poiché sarà sottoposto ad un logoramento lento e inesorabile con conseguenze incalcolabili sulle sue personali vicende giudiziarie e sulla fiducia degli elettori: certo, uno smacco tremendo per chi, provetto sbruffone, aveva preconizzato che il suo governo sarebbe durato cinque anni filati. Ed ecco la ragione perché il classico giochino del cerino accesso passato di mano in mano è in questa fase il più praticato nelle stanze del potere.
A tutti ha dedicato un passaggio quasi liberatorio di due anni passati a sopportare i soprusi, i diktat del Cavaliere, il voltafaccia dei Gasparri, Matteoli, La Russa «che hanno soltanto cambiato generale e magari sono pronti a cambiarlo di nuovo» alla stessa stregua di moderni capitani di ventura, pronti a vendere il proprio braccio a chi paga meglio e assicura loro una partecipazione nella sparizione del bottino.
E nel pronunciare il suo discorso, Fini coglie il segno, facendosi interprete del generale sentimento popolare, che mal sopporta ormai le tiritere dei servetti di Arcore come Capezzone, sempre più nell’improbabile veste di un Savonarola prezzolato, o Cicchitto, sempre più calato nei panni di un patetico Richelieu proteso a difendere interessi di curia. Ovviamente queste punte d’iceberg si muovono in buona compagnia, potendo contare sui rincalzi Gasparri, che oggi sputa persino nel piatto che per lunghi anni ha leccato, o La Russa, che simulando di non perdere mai la mordacia, sostiene che non sono i colonnelli ad aver cambiato la divisa, ma è il generale Fini che ha abbandonato la caserma.
E coglie il segno anche quando sferra l’attacco al padrone del PdL in persona, artefice di uno spettacolo indecoroso con le sue genuflessioni a Gheddafi, un personaggio che «non ha certamente alcuna statura morale per dare lezioni di libertà verso le donne o di rispetto dei diritti civili». Poi non risparmia a Berlusconi accuse precise sullo stile, «un uomo che confonde il governare con il comandare come se lo stato fosse un’azienda di famiglia, che non esita a ricorrere ai peggiori metodi stalinisti per liberarsi del dissenso» come ha fato con lui, «che stravolge il concetto d’immunità al punto da volerla rendere impunità e che considera gli avversari nemici da sconfiggere».
Poi è la volta del capitolo giustizia. La magistratura è un caposaldo della nostra democrazia, premette Fini, anche se ci sono alcune mele marce. Fatto salvo l'obiettivo di tutelare le alte cariche dello Stato, non sembrano percorribili ipotesi (come la norma provvisoria contenuta nel provvedimento sul processo breve) che cancellano un gran numero di procedimenti in corso, colpendo cittadini che aspettano da anni di veder riconosciuti i propri diritti: uno stop alla norma a cui sta lavorando la maggioranza con il consigliere giuridico del premier, quel Niccolò Ghedini a cui il presidente della Camera riserva l'immagine del Dottor Stranamore, che «dovrebbe risolvere una cosa e non lo fa mai». Altro punto contestato, eppure sempre nell'agenda di governo, il federalismo che è accettabile, precisa Fini, solo a patto di non penalizzare il Sud. Non manca un accenno anche alla legge elettorale, con un mea culpa per un sistema che riserva agli elettori non più la sovranità popolare ma un «prendere o lasciare». Un passaggio che farà arrabbiare Umberto Bossi e che implicitamente rimanda al mittente l’offerta di Berlusconi di garantire un posto nelle liste ai seguaci del presidente della Camera che facessero opera di contrizione e rientrassero nelle file del PdL, formazione oramai definita «partito del Predellino o Forza Italia allargata», insomma un giocattolo rotto di cui è pressoché impossibile rimettere insieme i pezzi..
A chi aveva dubbi, con il suo discorso Gianfranco Fini ha palesato come per lui e gli amici che lo hanno seguito il PdL sia cosa morta; un discorso che suona come il de profundis per un’esperienza di percorso comune tra destra storica legalista e destra affarista. La stessa presa di posizione di denuncia della condizione di grave disagio sociale per i giovani, in larga parte disoccupati, per le forze di polizia, umiliate dalla politica dei risparmi del governo, che ha tagliato i fondi per le dotazioni, e per i precari della scuola, rimasti senza lavoro a causa delle dissennate scelte della Gelmini e delle politiche dei tagli imposti da Tremonti, denotano l’apertura di un crepaccio incolmabile tra l’andazzo berlusconiano e, sebbene discutibile, visione politica della destra finiana.
Tuto ciò, al momento, lascia solo sconcerto e disorientamento nell’elettorato e nelle stanze del Cavaliere, che fino ad ora non ha rilasciato alcun commento al discorso del suo ex alleato. Certo è che le elezioni anticipate appaiono sempre più imminenti, quantunque la loro indizione si giochi sul comportamento di chi per primo getterà la spugna.
Al momento e nonostante le prese di distanza, Fini ha garantito non solo il suo posizionamento a destra dello schieramento politico, ma anche il suo appoggio ai cinque punti sui quali Berlusconi dichiara voler chiedere nei prossimi giorni la fiducia del parlamento e, così, avviare la conta di quanti sostengono la sua zoppicane maggioranza. Ma il Cavaliere sa di non potersi fare alcuna illusione dal portare a casa una dichiarazione di sostegno, poiché sarà sottoposto ad un logoramento lento e inesorabile con conseguenze incalcolabili sulle sue personali vicende giudiziarie e sulla fiducia degli elettori: certo, uno smacco tremendo per chi, provetto sbruffone, aveva preconizzato che il suo governo sarebbe durato cinque anni filati. Ed ecco la ragione perché il classico giochino del cerino accesso passato di mano in mano è in questa fase il più praticato nelle stanze del potere.
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