La verità a servizio
Mercoledì, 15 settembre 2010
Basta!, non se ne può proprio più di Alessandro Sallusti, - il Nonsferatu del giornalismo, come è sato definiti da molti colleghi, - condirettore de Il Giornale, quotidiano di casa Berlusconi, che non perde occasione per esibirsi in manifestazioni di stomachevole faziosità in ogni trasmissione cui viene invitato.
Per quanto si capisca che personaggi come lui, - velenosi all’estremo, maestri della propaganda di parte, - finiscano comunque per fare audience per chi li ospita nelle proprie trasmissioni, è intollerabile che dover sopportare le sue elucubrazioni allusive e smaccatamente manichee sugli scheletri negli armadi dei casuali interlocutori che si trova di fronte. Peraltro, le valutazioni che adduce sono sistematicamente infarcite da un odio malriposto e da aberrazioni comparative che nulla hanno a che vedere con il giornalismo d’informazione e d’inchiesta, ma appaiono come una riedizione squadrista di certe riviste anarcoidi-nichiliste, che raramente impattano la realtà dei fatti ma servono ad infojare gli animi.
Per fornire un esempio di questa inclinazione alla crocefissione dell’avversario e allo scoopismo da marciapiede, basta ricordare come, in una edizione di Ballarò dello scorso anno, il pittbull di Arcore abbia accusato D'Alema di «moralismo» fuori luogo, facendo poi un paragone tra la vicenda oscura e ridicola della casa di Scajola e la cosiddetta «affittopoli» degli anni novanta, quando alcuni politici, tra cui lo stesso D'Alema, furono criticati perché abitavano in affitto in case di enti previdenziali pagando l'equo canone. «L'accostamento è del tutto improprio.» - ha detto D'Alema con voce alterata - «Io, come migliaia di persone, pagavo ciò che era previsto dalla legge, e non troppo poco». Sallusti ha replicato ricordando che però D'Alema lasciò la casa dell'ente che aveva in affitto sull’onda dello sdegno popolare. D'Alema ha ribattuto: «È stato fatto un accostamento che non c'entra nulla. Io ero in affitto, non ero né ministro né capo di governo, ero in un ente previdenziale pubblico e pagavo l'equo canone previsto dalla legge. Quando uscì la questione che i politici non potevano restare, e io non pagavo con i soldi che mi dava uno speculatore amico mio, io la lasciai. Io ebbi gratuitamente la sensibilità di lasciare la casa». Sallusti ha però rintuzzato: «Anche Scajola ha lasciato il suo posto senza essere indagato», quasi la vicenda dell'ex ministro fosse un peccatuccio veniale paragonabile ad una questione d'affito ad equo canone.
Com’è noto, la rissa si concluse con il caloroso invio di D’Alema a Sallusti «vada farsi fottere!», che certamente evidenziò una censurabile caduta di stile del leader del PD, ma che davanti all’incalzanti e fuorviane pressing del condirettore del foglio filo governativo, apparve in qualche modo comprensibile, considerato che l’accostamento tra la vicenda Scajola e l’affitto ad equo canone di D’Alema fu operazione di propaganda idiota oltre ogni liceità.
Ma si sa che il lupo perde il pelo e non il vizio. E così di questo giornalismo d’angiporto Sallusti non riesce a fare a meno. Ancora ieri e sempre sulla scena di Ballarò, ne ha avuto per tutti, in primis per Fini, con la tiritera sulla casa di Montecarlo e per il trasformismo di cui sarebbe autore. «Prima fascista per oltre dieci anni, poi pidiellino, oggi interprete di una destra europea e progressista: ma è tonto oppure ci fa? E’ credibile che si renda conto sempre con grave ritardo di una sua collocazione sbagliata?», ha affermato Sallusti schizzando velenose insinuazioni. Poi è stata la volta di Vendola, le cui dichiarazioni di democraticità non sarebbero autentiche perché figlio di un passato comunista che ha fatto milioni di morti in tutto il mondo lì dove ha gestito il potere. E infine di Granata, secondo lui reticente nel chiarire i loschi traffici del suo capo Fini sulla vicenda di Montecarlo. Naturalmente, rimbeccato da Granata sui misteri della villa di Arcore del suo mandante, giusto per fare pari e patta, Sallusti ha preferito glissare, dato che sulla vicenda di quella casa e sui raggiri di Previti e Berlusconi ai danni della contessina Casati non v’è più molto da svelare.
Morale, uno spettacolo di scontro su fatti reali, ma dalla collocazione manipolata, tendenti a dimostrare che, in fondo, i farabutti si annidano in ogni dove e nessuno è in diritto di scagliare la prima pietra. Una concezione disfattista della realtà, nella quale ha diritto di primeggiare non il meglio ma il meno peggio.
Ma il quesito che si pone non è tanto quello relativo alla censurabilità di un Sallusti e degli inconfessabili interessi che tutela, quanto se questo modo di fare contrapposizione alle idee degli avversari, - nel vocabolario di Sallusti probabilmente si definirebbero nemici, - spacciando l’insinuazione faziosa per informazione, sia effettivamente un metodo per contribuire a far chiarezza sui grandi temi della democrazia.
Francamente ed assumendo per inevitabile che l’obiettività dell’informazione sia un fatto più teorico che reale, ci parrebbe che il giornalismo di Sallusti sia molto dubbio e sconfini sovente in una modalità più della propaganda schierata che non nella ricerca, magari rude, della verità dei fatti. L’animosità e la virulenza insinuanti ci sembrerebbe molto più terreno di una certa letteratura critica, nella quale non si narrano solo fatti, veri o presunti, ma nella quale emerge il punto di vista ideologico e percettivo di chi narra e scrive. Essere schierati significa assumere aprioristicamente una posizione su fatti di per sé obiettivi, che snatura l’essenza della verità al punto da determinare forzature, talora macroscopiche e sfiguranti, che inducono il narratore ad utilizzare ogni elemento a sostegno e conforto della sua inconfessata tesi. Questo non è giornalismo, ma è qualcosa di diverso, che non può essere spacciato per informazione, neanche in omaggio alle dure leggi dell’audience.
Chi fa di queste pratiche una regola di mestiere dovrebbe avere l’onestà di dichiararlo, senza abusare della credulità di un pubblico sempre più frastornato da uno spettacolo indecoroso di scempio della verità, per finalità non sempre confessabili.
(nella foto, Alessandro Sallusti)
Per quanto si capisca che personaggi come lui, - velenosi all’estremo, maestri della propaganda di parte, - finiscano comunque per fare audience per chi li ospita nelle proprie trasmissioni, è intollerabile che dover sopportare le sue elucubrazioni allusive e smaccatamente manichee sugli scheletri negli armadi dei casuali interlocutori che si trova di fronte. Peraltro, le valutazioni che adduce sono sistematicamente infarcite da un odio malriposto e da aberrazioni comparative che nulla hanno a che vedere con il giornalismo d’informazione e d’inchiesta, ma appaiono come una riedizione squadrista di certe riviste anarcoidi-nichiliste, che raramente impattano la realtà dei fatti ma servono ad infojare gli animi.
Per fornire un esempio di questa inclinazione alla crocefissione dell’avversario e allo scoopismo da marciapiede, basta ricordare come, in una edizione di Ballarò dello scorso anno, il pittbull di Arcore abbia accusato D'Alema di «moralismo» fuori luogo, facendo poi un paragone tra la vicenda oscura e ridicola della casa di Scajola e la cosiddetta «affittopoli» degli anni novanta, quando alcuni politici, tra cui lo stesso D'Alema, furono criticati perché abitavano in affitto in case di enti previdenziali pagando l'equo canone. «L'accostamento è del tutto improprio.» - ha detto D'Alema con voce alterata - «Io, come migliaia di persone, pagavo ciò che era previsto dalla legge, e non troppo poco». Sallusti ha replicato ricordando che però D'Alema lasciò la casa dell'ente che aveva in affitto sull’onda dello sdegno popolare. D'Alema ha ribattuto: «È stato fatto un accostamento che non c'entra nulla. Io ero in affitto, non ero né ministro né capo di governo, ero in un ente previdenziale pubblico e pagavo l'equo canone previsto dalla legge. Quando uscì la questione che i politici non potevano restare, e io non pagavo con i soldi che mi dava uno speculatore amico mio, io la lasciai. Io ebbi gratuitamente la sensibilità di lasciare la casa». Sallusti ha però rintuzzato: «Anche Scajola ha lasciato il suo posto senza essere indagato», quasi la vicenda dell'ex ministro fosse un peccatuccio veniale paragonabile ad una questione d'affito ad equo canone.
Com’è noto, la rissa si concluse con il caloroso invio di D’Alema a Sallusti «vada farsi fottere!», che certamente evidenziò una censurabile caduta di stile del leader del PD, ma che davanti all’incalzanti e fuorviane pressing del condirettore del foglio filo governativo, apparve in qualche modo comprensibile, considerato che l’accostamento tra la vicenda Scajola e l’affitto ad equo canone di D’Alema fu operazione di propaganda idiota oltre ogni liceità.
Ma si sa che il lupo perde il pelo e non il vizio. E così di questo giornalismo d’angiporto Sallusti non riesce a fare a meno. Ancora ieri e sempre sulla scena di Ballarò, ne ha avuto per tutti, in primis per Fini, con la tiritera sulla casa di Montecarlo e per il trasformismo di cui sarebbe autore. «Prima fascista per oltre dieci anni, poi pidiellino, oggi interprete di una destra europea e progressista: ma è tonto oppure ci fa? E’ credibile che si renda conto sempre con grave ritardo di una sua collocazione sbagliata?», ha affermato Sallusti schizzando velenose insinuazioni. Poi è stata la volta di Vendola, le cui dichiarazioni di democraticità non sarebbero autentiche perché figlio di un passato comunista che ha fatto milioni di morti in tutto il mondo lì dove ha gestito il potere. E infine di Granata, secondo lui reticente nel chiarire i loschi traffici del suo capo Fini sulla vicenda di Montecarlo. Naturalmente, rimbeccato da Granata sui misteri della villa di Arcore del suo mandante, giusto per fare pari e patta, Sallusti ha preferito glissare, dato che sulla vicenda di quella casa e sui raggiri di Previti e Berlusconi ai danni della contessina Casati non v’è più molto da svelare.
Morale, uno spettacolo di scontro su fatti reali, ma dalla collocazione manipolata, tendenti a dimostrare che, in fondo, i farabutti si annidano in ogni dove e nessuno è in diritto di scagliare la prima pietra. Una concezione disfattista della realtà, nella quale ha diritto di primeggiare non il meglio ma il meno peggio.
Ma il quesito che si pone non è tanto quello relativo alla censurabilità di un Sallusti e degli inconfessabili interessi che tutela, quanto se questo modo di fare contrapposizione alle idee degli avversari, - nel vocabolario di Sallusti probabilmente si definirebbero nemici, - spacciando l’insinuazione faziosa per informazione, sia effettivamente un metodo per contribuire a far chiarezza sui grandi temi della democrazia.
Francamente ed assumendo per inevitabile che l’obiettività dell’informazione sia un fatto più teorico che reale, ci parrebbe che il giornalismo di Sallusti sia molto dubbio e sconfini sovente in una modalità più della propaganda schierata che non nella ricerca, magari rude, della verità dei fatti. L’animosità e la virulenza insinuanti ci sembrerebbe molto più terreno di una certa letteratura critica, nella quale non si narrano solo fatti, veri o presunti, ma nella quale emerge il punto di vista ideologico e percettivo di chi narra e scrive. Essere schierati significa assumere aprioristicamente una posizione su fatti di per sé obiettivi, che snatura l’essenza della verità al punto da determinare forzature, talora macroscopiche e sfiguranti, che inducono il narratore ad utilizzare ogni elemento a sostegno e conforto della sua inconfessata tesi. Questo non è giornalismo, ma è qualcosa di diverso, che non può essere spacciato per informazione, neanche in omaggio alle dure leggi dell’audience.
Chi fa di queste pratiche una regola di mestiere dovrebbe avere l’onestà di dichiararlo, senza abusare della credulità di un pubblico sempre più frastornato da uno spettacolo indecoroso di scempio della verità, per finalità non sempre confessabili.
(nella foto, Alessandro Sallusti)
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