giovedì, settembre 09, 2010

Le radici dell’odio sociale

Giovedì, 9 settembre 2010
Tanto tuonò che piovve. Questa è la conseguenza della gravissima decisione di Federmeccanica, appoggiata nella sua iniziativa dalla Confindustria della Marcegaglia, di inviare formale disdetta del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici a far data dalla sua scadenza naturale.
Così, come non fosse stato sufficiente il lento logoramento delle regole della convivenza sociale determinatosi con i due anni di governo di centro-destra e le ricadute della crisi internazionale sul mondo del lavoro, ecco l’improvvisa accelerazione di Federmeccanica, che accoglie l’invito di Marchionne e comunica alle organizzazioni sindacali che il contratto nazionale in essere è morto e sepolto dalla sua prossima scadenza naturale, il 2013.
La mossa, salutata con soddisfazione dalla Confindustria, apre scenari inediti nelle fabbriche, poiché il recesso unilaterale dell’associazione di categoria degli industriali non ha ricadute esclusivamente sulla disciplina economica del rapporto di lavoro, ma sull’insieme dell’impalcatura normativa che governa i rapporti tra associazioni datoriali e rappresentanze dei lavoratori, tra aziende e singoli prestatori d’opera, lasciati nell’impari rapporto di forza alla mercé del probabile ricatto di un padronato sempre più insofferente di regole e vincoli definiti ai tavoli negoziali e da valersi erga omnes.
L’iniziativa, peraltro da più parti interpretata come un’azione di forza verso la CGIL, il sindacato di sinistra che già da tempo ha assunto posizioni intransigenti verso un padronato in cerca di smontare pezzo per pezzo il sistema delle relazioni industriali e la normativa giuslavorista, - i recenti fatti accaduti alla FIAT di Pomigliano non sono che l’ultima puntata di uno scontro che va avanti ormai da quasi un decennio e che coinvolge anche il senso della mai realizzata unità sindacale, - rischia di divenire l’innesco per un autunno movimentato, contrassegnato da scontri dalle conseguenze imprevedibili, che ci riporta indietro di molti anni e che sono oggi solo oggetto di ricordo delle generazioni più anziane.
Non che Federmeccanica non sia nuova a sortite provocatorie in questa direzione. Felice Mortillaro, presidente di Federmeccanica e ideologo dell'impresa privata negli anni '80, nemico giurato dell'uguaglianza, che propugnava la linea secondo cui in fabbrica la Costituzione non può valere, si rese autore di sfide divenute epiche al sindacato, nella convinzione che la libertà dell’imprenditore, di colui che investe il proprio danaro e si assume il rischio d’impresa, non può essere condizionata da lacci e lacciuoli imposti da terze parti che nulla hanno a che vedere con quell’ordine di rischio. Com’è evidente, Mortillaro sottostimava l’interesse diretto di ogni lavoratore al buon andamento dell’azienda per la quale lavorava, andamento positivo senza il quale non avrebbero potuto esserci le condizioni necessarie per la continuità del lavoro e la conservazione dell’occupazione. Ma questo passaggio, più ideologico che tecnico, purtroppo avvilito anche da una politica sindacale asservita agli interessi di visibilità e di poltrona dei suoi leader, - che in omaggio al potere dettato dalle tessere hanno scelleratamente permesso la fermentazione di assenteismo, prevaricazione, scioperi selvaggi, e quanto nei manuali del nichilismo fine a se stesso, - non è mai stato promosso al rango di motore di una modernità di rapporti tra parti non contrapposte ma complementari del processo produttivo e nel meccanismo di creazione della ricchezza. Così, le cosiddette parti sociali hanno continuato a misurarsi a colpi di contrapposizione talvolta dura e violenta.
Né il salo di qualità evidenziato da alcune organizzazioni sindacali, come la CISL e la UIL, verso una politica del lavoro maggiormente “parlata” ha determinato le condizioni per una svolta.
In primo luogo perché leader come Bonanni e Angeletti hanno preteso di scavalcare, se non azzerare, le regole della democrazia interna, sottoscrivendo intese con le controparti padronali senza il prevenivo vaglio dei lavoratori, ma arrogandosi il diritto di rappresentarne senza contraddittorio la volontà. Secondariamente perché parecchie intese sottoscritte hanno effettivamente ridotto i diritti dei lavoratori e creato condizioni di precarietà e di disagio in qualche caso antistoriche, trasferendo così la convinzione che quei leader, in realtà, stessero più operando per l’accreditamento della loro immagine personale più che l’interesse delle categorie rappresentate. Gli accordi sul lavoro precario, l’Alitalia, le pensioni, Termini Imerese, Pomigliano, - giusto per citarne alcuni tra i più recenti, - tra l’altro osteggiati dalla CGIL, sono sicuramente la spia inoppugnabile di un comportamento sindacale acquiescente e discutibile, dove l’interesse vero dei lavoratori è stato sacrificato sull’altare incomprensibile e inaccettabile di un perbenismo e di una ragionevolezza sospetta, elementi che se hanno rinforzato l’accreditamento di personaggi come Bonanni o Angeletti, o hanno ghettizzato il dissenso di Epifani, Cremaschi e dell’intera CGIL, hanno prodotto un micidiale indebolimento del sindacato in generale ed una crescente disaffezione dei lavoratori.
La contestazione di Bonanni alla festa del PD di ieri a Torino non giunge pertanto casuale, ma per quanto non condivisibile nei metodi, è l’esternazione di una rabbia che cova ormai da troppo tempo e che giorno dopo giorno si alimenta ciecamente contro gli autori di questo processo di svendita dei lavoratori. E questo atteggiamento di arrendevolezza non può giustificarsi con il ricatto padronale di un’eventuale delocalizzazione degli impianti verso paesi più ospitali nell’eventualità, approfittando delle palesi debolezze dei sindacati, non spunti condizioni a lui favorevoli.
Occorre dunque un atto autocritico che rilanci l’unità del sindacato e che ne ripristini il ruolo, senza il quale i prossimi mesi, segnati dal perdurare di una grave crisi politica e istituzionale, non lasciano che intravvedere che la riedizione di un’escalation di eventi che il bene collettivo suggerirebbe fosse meglio prevenire.

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