venerdì, dicembre 17, 2010

Il riformismo nell’epoca dell’arroganza

Venerdì, 17 dicembre 2010
Le battaglie di Roma, Bologna, Palermo e di tante città italiane, quantunque episodi culminanti di un malessere studentesco cominciato già da tempo con i provvedimenti di riforma della scuola e dell’università, stanno assumendo una connotazione ben diversa da quella iniziale. Il 14 scorso il movimento di massa, che ha messo a ferro e fuoco in particolare la Capitale, non era costituito solamente da studenti, ma al fianco di questi v’erano i cassintegrati, i disoccupati, i terremotati dell’Aquila e dell’Abruzzo, i cittadini di Terzigno e delle aree campane nelle quali il gravissimo problema dei rifiuti è divenuto un’emergenza improrogabile, di cui anche l’Europa ha sollecitato soluzioni radicali.
Questa composizione eterogenea ha conferito alla lotta studentesca un significato che ne travalica le istanze e che ne trasforma la portata in aggregazione di rivendicazioni sociali composite, spia di un diffuso e radicato malcontento le cui conseguenze non sono prevedibili, ma che non lasciano presagire se non una nuova stagione di disordini di cui era dagli anni ’70 che non si sentiva più parlare.
E’ conferma di questo passo avanti di questo movimento di contestazione sempre più globalizzato la violenza scatenatasi qualche minuto dopo la diffusione della notizia che il governo Berlusconi aveva, pur se per il rotto della cuffia, portato a casa la fiducia. E ignorare questo delicatissimo passaggio non è solo disinformazione mistificante, ma vuol dire nascondersi dietro un paravento di vetro e declinare le responsabilità che incombono su quella classe politica che giorno dopo giorno continua a dimostrare una scellerata e tignosa volontà di governar forzando la mano e ignorando l’esistenza di un Paese nel quale la delusione si sta trasformando in rabbia ottusa e senza speranza.
Il malessere di cui si parla non è né ignoto né irrisolvibile. E'solo la protervia di una casta autoritaria e menefreghista che ne sta alimentando il fuoco, con l’inerzia e comportamenti vergognosamente omissivi, che nulla hanno a che vedere con la gestione concreta degli interessi della generalità dei cittadini. Tali comportamenti hanno assunto nel tempo il vero e proprio significato di crimini premeditati contro le fasce sociali tra le più deboli della nostra realtà: lavoratori dipendenti, studenti, giovani in cerca d’occupazione, pensionati, soggetti con problemi di salute, immigrati, a cui si sono aggiunte categorie nuove come i dipendenti pubblici, le imprese e quelle nuove frutto di eventi naturali non prevedibili, come i terremotati abruzzesi e gli alluvionati siciliani e veneti. Alle istanze di costoro non è stata data alcuna risposta, se non inaccettabili imposizioni di sacrifici insostenibili determinatisi a causa della crisi mondiale da una parte e dal populismo ottuso di politiche di rigore sulla spesa pubblica, dall'altra, che hanno falcidiato esclusivamente ogni barlume di sociale e cancellato il senso comune dello stato e della convivenza civile. Ultimo, ma non per questo di minore rilevanza, i sedici lunghi anni di fuorvianti guerre senza quartiere contro ogni legalità, al solo scopo di salvaguardare gli interessi economici e personali di un uomo senza scrupoli e senza moralità come Silvio Berlusconi, entrato in politica dopo la scomparsa del suo padrino Bettino Craxi, hanno azzerato il senso della politica e la già scarsa fiducia residua del Paese nei confronti delle istituzioni e delle sue rappresentanze.
Siamo il Paese nel quale l’indice di povertà è tra i più elevati tra le nazioni sviluppate, ma anche quello in cui il peso della pressione fiscale ci consegna la medaglia di bronzo in ambito europeo. Siamo il Paese dove la disoccupazione registra uno dei tassi più elevati e a, livello giovanile, tocca punte terzomondiste del 40%, ma allo stesso tempo si finge di non capire che il ricorso al precariato spacciato per flessibilità del lavoro è una sorta di punteruolo rosso che sta uccidendo il nerbo futuro della nostra società. Siamo un Paese che registra un divario abissale e mai ridotto tra nord e sud della Penisola, ma che nello stesso tempo ha varato ridicole norme su un federalismo scriteriato solo per soddisfare gli egoismi velleitari di una Lega cialtrona e populista. Siamo il Paese delle clientele politiche e delinquenziali, che hanno favorito l’ipertrofia della pubblica amministrazione ed il contemporaneo degrado dei servizi, le speculazioni affaristiche sulla sanità, la massiccia evasione fiscale, il lavoro nero diffuso, le combine nella gestione degli appalti pubblici, la corruzione della magistratura e quanto di più vergognoso si possa immaginare, ma che allo steso tempo finge di scandalizzarsi davanti alla presa d’atto di una disastrosa gestione dello stato proprio da parte di coloro che, da ben altri pulpiti, in passato sono stati gli autori dei misfatti.
Poi con l’arrivo della crisi mondiale e sotto la spinta dello sdegno dei partner europei, non più disposti a tollerare la zavorra che rappresentiamo, prima si varano misure a sostegno di quei santuari finanziari che nella crisi hanno giocato un ruolo fondamentale e poi provvedimenti che tagliano la spesa alla cieca, ma badando bene a colpire solo le categorie più deboli. Questa non sono scelte miopi, ma veri e propri attentati alla stabilità sociale, che hanno l’obiettivo di determinare le condizioni affinché la ricchezza si concentri sempre più stabilmente nelle mani di un élite sempre più ristretta in dispregio ad ogni principio d’equità.
In fine, lo scontro frontale con la magistratura, quella magistratura certamente non priva di responsabilità omissive in passato, ma che non può bollarsi di parte solo perché osa attaccare i santuari del malaffare di cui il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, è oggi caposcuola.
Davanti a questo degrado si fa in fretta a gridare al ritorno di certe nefaste pratiche violente del passato, - d’altra parte la criminalizzazione dell’avversario è tecnica antica quanto l’ammiccante propensione all’abuso da parte di chi gestisce il potere. La sovranità nelle democrazie è del popolo e non di chi la esercita per sua delega. E quando le istanze del popolo rimangono lettera morta allora quel popolo ha il diritto di ricorrere ad ogni mezzo per farsi ascoltare, mentre chi gestisce il potere deve avere la capacità di assumersi la responsabilità delle conseguenze della propria sordità, perché non si potrà mai parlare di riforme vere senza la condivisione di chi poi ne dovrà subire gli effetti.

(nella foto, immagini di guerriglia metropolitana durante i disordini a Roma del 14 scorso)

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