giovedì, dicembre 02, 2010

L’eutanasia del capitalismo

Giovedì, 2 dicembre 2010
Islanda, Grecia, Irlanda e la previsione è che a breve anche Portogallo e Spagna, seguite a ruota dall’Italia possano conoscere il cosiddetto default, il collasso delle loro economie a causa del macigno del debito pubblico e della crisi di insolvenza del sistema.
Le vicende in atto, messe a nudo dalla gravissima crisi mondiale, che ha colpito prima il sistema americano e poi s’è rapidamente espansa nel resto del pianeta, non è imputabile ai complessi meccanismi speculativi messi in pratica dagli spregiudicati santuari finanziari di mezzo mondo, ma si rappresenta sempre più come una crisi di modello di sviluppo e di filosofia del capitalismo, filosofia di mercato globale che al primo inciampo non avrebbe potuto non avere come conseguenza un effetto domino, con la messa a nudo delle insufficienti politiche di equilibrio interne alle singole comunità nazionali.
In Europa, poi, gli squilibri interni, sottostanti all’avvio della moneta unica, sono serviti da detonatore all’innesco esplosivo proveniente dagli USA, la cui economia è stata per lunghi anni drogata da una politica ammiccante e scellerata sostenuta dal liberismo guerrafondaio di Bush e del suo governo.
L’Europa dell’euro è nata su basi estremamente fragili, dove Germania e Francia hanno costituito le fondamenta sulle quali si reggeva un palazzo fatto di cartapesta, nei cui piani soprastanti sono state collocate Italia, Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo e paesi le cui economie registravano un divario assai forte. Il risultato di quest’architettura da palafitta ha fatto sì che il primo terremoto di una certa intensità ha fatto cadere i pezzi del palazzo e reso pericolante ciò che ne è rimasto, mentre le fondamenta hanno sostanzialmente retto e, con piccole opere di riparazione, hanno dimostrato di essere pronte a reggere una nuova costruzione. E senza considerare la “follia” recente e prossima dell’inserimento di paesi come Romania, Bulgaria, Lituania, Estonia, Cipro ed altri in predicato, sino alla Turchia e la Serbia, che sembra rispondere più alle esigenze di costituire un blocco militare d’interposizione con l’Oriente e la disfatta Unione Sovietica che una nuova realtà geografica d’integrazione economica e sociale .
Il problema, dunque, una volta tanto non s’è originato dalla base, ma dalle sovrastrutture, i cui materiali non erano adeguati a sostenere un’onda d’urto come quella registrata. L’errore è consistito nel consentire ai paesi ai margini di entrare a pieno titolo in un sistema monetario i cui costi si sono rivelati eccessivamente onerosi.
Questa filosofia costruttiva ha fatto sì che i paesi più deboli e comunque ancora immaturi per il salto di qualità, abbiano dovuto imporre costi altissimi ai propri cittadini, importando in un solo colpo il gap sul differenziale dei prezzi esistente e riducendo così in povertà stremante ingenti fette di popolazione, impossibilitata a garantirsi un livello di consumi come il precedente per effetto dell’automatico e immediato raddoppio dei prezzi dei beni a parità di reddito disponibile. Sul lato industriale, lo stesso processo ha accelerato in modo esponenziale la delocalizzazione delle attività produttive verso aree del mondo nelle quali il costo dei fattori di produzione era e rimane così basso da garantire il mantenimento dei margini di profitto derivanti dalla circolazione dei prodotti finiti.
Il combinato tra delocalizzazione e incremento delle importazioni dai paesi produttori a basso costo di prodotti realizzati fino ad allora in economia, ha segnato in un’inarrestabile spirale il tracollo delle economie nazionali, con incrementi spaventosi di disoccupazione e ulteriore caduta dei redditi.
La diagnosi effettuata dai vari governi nel tentativo di varare politiche d’emergenza per frenare il fenomeno sì è rivelata del tutto esatta. Sarebbe stato necessario varare politiche di sostegno ai consumi per mettere in moto un meccanismo virtuoso di rilancio produttivo. Com’era prevedibile, però, queste iniziative sono rimaste solo sulla carta, confinate nella biblioteca delle speranze, poiché la contemporanea esigenza di falciare la spesa pubblica, fonte di erosione consistente del PIL, ha colpito alla cieca sia la spesa improduttiva che quella in grado di generare effetto alone. La medicina, dunque, s'è rivelata un placebo incapace di curare la malattia.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Un risultato che non è circoscritto ai confini del nostro Paese, ma che con comprensibili sfaccettature diverse colpisce le realtà storicamente più deboli del Vecchio Continente, imponendo una realistica fase di riflessione che deve necessariamente cambiare i meccanismi sciovinisti sui quali s’è basata un’Unione Europea nei fatti del tutto finta.
In primo luogo, sarebbe opportuno un ripensamento dell’euro, che non può continuare a costituire moneta comune di una realtà profondamente squilibrata e che costringe ad ogni stormir di foglie i paesi forti, quelli creditori, a salassare i propri cittadini con oneri che finanziano i prestiti da erogare a quei paesi in procinto d’insolvenza, sebbene questi prestiti servano a garantire la soddisfazione dei crediti che le loro stesse imprese hanno contratto.
In secondo luogo, sarebbe auspicabile il ritorno a meccanismi protezionistici contro l’invasione di prodotti da paesi terzi, che notoriamente praticano dumping sociale per garantirsi la penetrazione sui mercati di quelli sviluppati.
In terzo luogo, occorrerebbe fissare criteri di cambio più credibili sui mercati monetari internazionali, che prevengano un export drogato da prezzi artificiosamente “sgonfiati”. La delocalizzazione selvaggia, in questa logica, è una scelta priva di senso, poiché tende solo a spostare geograficamente e nel tempo un problema di squilibrio sociale e di equità della distribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro che prelude solo al suicidio del sistema economico internazionale.
La storia è maestra di vita, o almeno dovrebbe esserlo, pertanto non dovrebbe mai trascurarsi che i più grandi disastri dell’umanità, come le guerre, sono sempre stati figli di tensioni e fratture nel sistema dell’economia. Che poi l’ipocrisia di un capitalismo miope, con il supporto di maestri del pensiero debole, ammanti questi eventi di contrapposizioni religiose, d’irredentismi e di altro pattume ideologico manufatto ad arte, è solo l’inganno di cui amano cibarsi gli sprovveduti.

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