La vittoria di Pirro
Mercoledì, 15 dicembre 2010
Il titolo non sarà di certo originale, ma non crediamo esista una diversa definizione per qualificare la vittoria di Berlusconi al voto di fiducia di ieri in parlamento.
Una vittoria che avrà appagato il suo sciovinismo esasperato, ma che trascina sia lui che il Paese, - che è quello che più conta, - nel tunnel incertissimo delle elezioni di primavera. Sì, perché solo un illuso potrebbe pensare di governare con i due o tre voti di scarto, peraltro frutto di un ignobile mercimonio di vomitevoli mentecatti, un’Italia che nei consuntivi di Draghi proprio di ieri conferma di boccheggiare e di marciare inesorabilmente verso il precipizio.
Ma veniamo ai fatti. La vittoria di Silvio Berlusconi non è solo il frutto del consenso strappato ai quattro accattoni che pur di conservare il posto in parlamento avrebbero venduto persino madre e sorella. Al superamento della sfiducia hanno contribuito molti fattori e primariamente lo stato confusionale e d’inconsistenza in cui si dibatte un opposizione sempre più smarrita, dove PD e IdV da ieri hanno evidenziato la loro vera vocazione di movimenti talent scout, capaci solo di portare in parlamento quinte colonne del Cavaliere, ma non un progetto politico credibile. Razzi, Calearo, Scilipoti sono figure meschine senza ruolo e senza peso in seno ad un’armata Brancaleone incapace non di liberare il Santo Sepolcro dal giogo dei Mori, ma persino di garantire la disciplina al proprio interno, con il risultato che l’esito di ogni spedizione risiede nelle mani di un pugno di venduti, che quantunque senza peso alcuno finiscono per fare numero.
Il PD, inoltre, è ormai da tempo la maschera di se stesso, senza leadership, nelle mani di un buonuomo senza grinta e appeal che farebbe certamente meglio a spendere il suo talento nella Caritas piuttosto che nella compagine più significativa d’opposizione. Peraltro un partito corroso all’interno da mille dubbi, dallo scontro perpetuo tra i suoi ideologi salottieri in cui il doppiopetto ha definitivamente reso ridicola ogni memoria d’eskimo: a cosa serve riempire la piazza quando s’è poi nei fatti incapaci di tradurre in azione la rabbia e il disgusto che ne emerge? Non bastano né slogan, né ironico disprezzo per sloggiare l’avversario, che a ben riflettere sugli slogan è nato e del disprezzo ha fatto la propria bandiera.
Questo PD ha definitivamente seppellito l’insegnamento di Berlinguer, quell’insegnamento che predicava idee e progetti per far breccia nel cuore e nelle menti, quel progetto che sapeva parlare ai lavoratori, agli umili, ai diseredati da un potere cancerogeno che non ha mai fatto mistero di preoccuparsi solo degli interessi di coloro che hanno già tanto e vogliono sempre di più. Gli operai della Fiat in lotta per la salvaguardia dei loro diritti (pochi) sanciti nel contratto di lavoro non sono frange d’una eversione elitaria che vuol mantenere privilegi ad ogni costo, ma sono il nerbo vero di un Paese sempre più diviso tra coloro che non hanno più nulla, né speranza né dignità, e una casta di stupratori di ogni diritto alla sopravvivenza dignitosa. Marchionne non è il prodotto casuale dei tempi. E’ il figlio di un’ideologia sfrontata e di rapina che osanna il profitto anche a costo di sterminio sociale, con l’avallo dei Saccone, Maroni, Cicchitto e quanti facciano parte di quella delinquenza politica senza scrupoli che ha preso il sopravvento non per merito proprio quanto per debolezza di chi avrebbe dovuto contrastarli.
Non diverso è il discorso dell’IdV di Di Pietro, capace solo di insultare e sbeffeggiare, ma senza un progetto che superi l’antiberlusconismo preconcetto. Questo si sta dimostrando un altro movimento che pur d’emergere non disdegna d’attingere nelle discariche di periferia i propri rappresentanti, - e non v’è certo bisogno di citare esempi, - ma nella prassi poi si palesa come un drappello di scalmanati armati solo dell’offesa e privo di cervello, di quel senso della politica che impone in certi frangenti di accantonare rancori e velleità per realizzare quei compromessi funzionali alla realizzazione di un progetto, quasi il consenso derivasse solo dall’arroccamento su un Aventino virtuale dall’alto del quale si sputa su tutto ciò che passa sotto.
Mesta la figura di Fini e del suo FLI, che, nato sullo strappo da quel partito padronale in cui aveva condotto i suoi, ha visto frantumarsi ogni speranza di infliggere la lezione che avrebbe meritato al suo arrogante avversario per aver confidato eccessivamente nell’onesta di qualche Carneade senza patria e senza religione. D’altra parte l’errore Fini lo commise già nel 2008, quando spiazzato dalle mosse del Cavaliere accettò di salire su un treno che riteneva probabilmente di poter dirottare in corsa. Di occasioni per dimostrare che voleva un’Italia nuova e democratica ne ha avute tante, occasioni nelle quali avrebbe potuto palesare quella volontà di dare una sterzata decisa agli inconfessabili disegni di Berlusconi. Invece ha accettato i diktat ed ha avallato le scelte scellerate del comitato d’affari rappresentato dal governo in carica ed oggi non può lagnarsi di dover pagare lo scotto dell’utile ma tardiva alzata di testa: oggi la sua figura esce dallo scontro più appannata e la strada per una rinnovata credibilità non è certo in discesa. L’olio di ricino che i suoi referenti ideologici hanno somministrato in passato al dissenso oggi è probabile tocchi a lui e i suoi fedeli, che hanno il compito per sopravvivere di costruirsi un’identità riconoscibile entro le elezioni sempre più vicine.
In questo mesto quadro, paradossalmente, l’unico che conserva una credibilità non scalfita è Casini e l’UDC, quantunque abbia anche lui dovuto registrare la partenza di qualche peone prezzolato, che ha mantenuto una posizione chiara e continua a sostenere che mai cederà alle lusinghe di un Berlusconi che, sebbene vincitore sulla fiducia, non può certo pensare di continuare a vessare gli Italiani con la inconsistente maggioranza che si ritrova e, pertanto, ha necessità di acquisire qualche ciambella di salvataggio prima che la sua barca affondi irrimediabilmente.
Intanto la piazza rumoreggia e ieri, alla notizia della fiducia strappata da Berlusconi in parlamento, la rabbia di lavoratori e studenti s’è scatenata in tutt'Italia, come a dimostrare che quanto accadeva nel giardino d’inverno non è certo quanto una consistente parte del Paese s’attendeva. E c’è da sperare che se questo dissenso di popolo dovesse continuare il senso di responsabilità prevalga e si torni finalmente a chiedere il responso degli elettori, accantonando egoismi e pericolose spavalderie.
(nella foto, immagini dei disordini di ieri)
Una vittoria che avrà appagato il suo sciovinismo esasperato, ma che trascina sia lui che il Paese, - che è quello che più conta, - nel tunnel incertissimo delle elezioni di primavera. Sì, perché solo un illuso potrebbe pensare di governare con i due o tre voti di scarto, peraltro frutto di un ignobile mercimonio di vomitevoli mentecatti, un’Italia che nei consuntivi di Draghi proprio di ieri conferma di boccheggiare e di marciare inesorabilmente verso il precipizio.
Ma veniamo ai fatti. La vittoria di Silvio Berlusconi non è solo il frutto del consenso strappato ai quattro accattoni che pur di conservare il posto in parlamento avrebbero venduto persino madre e sorella. Al superamento della sfiducia hanno contribuito molti fattori e primariamente lo stato confusionale e d’inconsistenza in cui si dibatte un opposizione sempre più smarrita, dove PD e IdV da ieri hanno evidenziato la loro vera vocazione di movimenti talent scout, capaci solo di portare in parlamento quinte colonne del Cavaliere, ma non un progetto politico credibile. Razzi, Calearo, Scilipoti sono figure meschine senza ruolo e senza peso in seno ad un’armata Brancaleone incapace non di liberare il Santo Sepolcro dal giogo dei Mori, ma persino di garantire la disciplina al proprio interno, con il risultato che l’esito di ogni spedizione risiede nelle mani di un pugno di venduti, che quantunque senza peso alcuno finiscono per fare numero.
Il PD, inoltre, è ormai da tempo la maschera di se stesso, senza leadership, nelle mani di un buonuomo senza grinta e appeal che farebbe certamente meglio a spendere il suo talento nella Caritas piuttosto che nella compagine più significativa d’opposizione. Peraltro un partito corroso all’interno da mille dubbi, dallo scontro perpetuo tra i suoi ideologi salottieri in cui il doppiopetto ha definitivamente reso ridicola ogni memoria d’eskimo: a cosa serve riempire la piazza quando s’è poi nei fatti incapaci di tradurre in azione la rabbia e il disgusto che ne emerge? Non bastano né slogan, né ironico disprezzo per sloggiare l’avversario, che a ben riflettere sugli slogan è nato e del disprezzo ha fatto la propria bandiera.
Questo PD ha definitivamente seppellito l’insegnamento di Berlinguer, quell’insegnamento che predicava idee e progetti per far breccia nel cuore e nelle menti, quel progetto che sapeva parlare ai lavoratori, agli umili, ai diseredati da un potere cancerogeno che non ha mai fatto mistero di preoccuparsi solo degli interessi di coloro che hanno già tanto e vogliono sempre di più. Gli operai della Fiat in lotta per la salvaguardia dei loro diritti (pochi) sanciti nel contratto di lavoro non sono frange d’una eversione elitaria che vuol mantenere privilegi ad ogni costo, ma sono il nerbo vero di un Paese sempre più diviso tra coloro che non hanno più nulla, né speranza né dignità, e una casta di stupratori di ogni diritto alla sopravvivenza dignitosa. Marchionne non è il prodotto casuale dei tempi. E’ il figlio di un’ideologia sfrontata e di rapina che osanna il profitto anche a costo di sterminio sociale, con l’avallo dei Saccone, Maroni, Cicchitto e quanti facciano parte di quella delinquenza politica senza scrupoli che ha preso il sopravvento non per merito proprio quanto per debolezza di chi avrebbe dovuto contrastarli.
Non diverso è il discorso dell’IdV di Di Pietro, capace solo di insultare e sbeffeggiare, ma senza un progetto che superi l’antiberlusconismo preconcetto. Questo si sta dimostrando un altro movimento che pur d’emergere non disdegna d’attingere nelle discariche di periferia i propri rappresentanti, - e non v’è certo bisogno di citare esempi, - ma nella prassi poi si palesa come un drappello di scalmanati armati solo dell’offesa e privo di cervello, di quel senso della politica che impone in certi frangenti di accantonare rancori e velleità per realizzare quei compromessi funzionali alla realizzazione di un progetto, quasi il consenso derivasse solo dall’arroccamento su un Aventino virtuale dall’alto del quale si sputa su tutto ciò che passa sotto.
Mesta la figura di Fini e del suo FLI, che, nato sullo strappo da quel partito padronale in cui aveva condotto i suoi, ha visto frantumarsi ogni speranza di infliggere la lezione che avrebbe meritato al suo arrogante avversario per aver confidato eccessivamente nell’onesta di qualche Carneade senza patria e senza religione. D’altra parte l’errore Fini lo commise già nel 2008, quando spiazzato dalle mosse del Cavaliere accettò di salire su un treno che riteneva probabilmente di poter dirottare in corsa. Di occasioni per dimostrare che voleva un’Italia nuova e democratica ne ha avute tante, occasioni nelle quali avrebbe potuto palesare quella volontà di dare una sterzata decisa agli inconfessabili disegni di Berlusconi. Invece ha accettato i diktat ed ha avallato le scelte scellerate del comitato d’affari rappresentato dal governo in carica ed oggi non può lagnarsi di dover pagare lo scotto dell’utile ma tardiva alzata di testa: oggi la sua figura esce dallo scontro più appannata e la strada per una rinnovata credibilità non è certo in discesa. L’olio di ricino che i suoi referenti ideologici hanno somministrato in passato al dissenso oggi è probabile tocchi a lui e i suoi fedeli, che hanno il compito per sopravvivere di costruirsi un’identità riconoscibile entro le elezioni sempre più vicine.
In questo mesto quadro, paradossalmente, l’unico che conserva una credibilità non scalfita è Casini e l’UDC, quantunque abbia anche lui dovuto registrare la partenza di qualche peone prezzolato, che ha mantenuto una posizione chiara e continua a sostenere che mai cederà alle lusinghe di un Berlusconi che, sebbene vincitore sulla fiducia, non può certo pensare di continuare a vessare gli Italiani con la inconsistente maggioranza che si ritrova e, pertanto, ha necessità di acquisire qualche ciambella di salvataggio prima che la sua barca affondi irrimediabilmente.
Intanto la piazza rumoreggia e ieri, alla notizia della fiducia strappata da Berlusconi in parlamento, la rabbia di lavoratori e studenti s’è scatenata in tutt'Italia, come a dimostrare che quanto accadeva nel giardino d’inverno non è certo quanto una consistente parte del Paese s’attendeva. E c’è da sperare che se questo dissenso di popolo dovesse continuare il senso di responsabilità prevalga e si torni finalmente a chiedere il responso degli elettori, accantonando egoismi e pericolose spavalderie.
(nella foto, immagini dei disordini di ieri)
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