L’ipocrisia dei formalismi
Martedì, 26 luglio 2011
Viviamo in tempi di crisi planetaria, che non è solo di natura economica, ma, ahimè, anche culturale e di valori. Che sia il trascorso benessere e, dunque, una certa mollezza dei costumi ad aver lasciato in eredità una riforma dell’etica comune, non è di per sé rilevante: certi processi umani di portata collettiva non sono soggetti a mutamento correttivo coercitivo - e, dunque, non è agevole pensare di recuperare in qualche modo. Rappresentano semmai un’evoluzione della modalità interattiva del vivere comune, dei processi relazionali tra gli individui, tendenti, in fondo, a semplificare i rapporti interpersonali, attraverso un adattamento alle necessità di meccanismi di vita che spingono all’essenzialità, alla velocizzazione dei messaggi, a scambi che puntano “al sodo” delle ragioni per le quali i rapporti di comunicazione si motivano.
Quest’ambiente interelazionale umano, naturalmente, nel suo esplicitarsi non è esente da distorsioni plateali, in quanto le variabili che entrano i gioco – livello personale di educazione, cultura, modelli comportamentali dei piccoli gruppi, radicazione dei sistemi di valori individuali, in altri termini ciò che i sociologi definiscono sottocultura – in un mondo decisamente più aperto e più trasversale, finiscono per influenzare, come schegge impazzite che si muovono in tutte le direzioni, i rapporti tra gli individui, con il risultato di scardinare le regole in essere e determinare una sorta di caos nel quale è abbattuto ogni formalismo.
E’ un esempio di questo processo inarrestabile il continuo mutamento del linguaggio dei giovani, sempre più teso alla creazioni di neologismi sparagnini per definire cose, comportamenti e situazioni, che nel linguaggio convenzionale hanno molto spesso necessità di ricorrere a perifrasi o descrizioni elaborate, per questa ragione meno immediate e incisive, e che sovente dopo un periodo di rodaggio finiscono per divenire patrimonio generale e arricchimento delle lingua.
Di questa trasformazione fa parte la prorompente diffusione del tu nella gestione dei rapporti interpersonali anche tra sconosciuti, diffusione che ha soppiantato l’anacronistico voi e il codificato lei quale pronome di cortesia verso soggetti ai quali è dovuto un senso di rispetto spesso solo formale.
Beppe Severgnini e Vittorio Messori, entrambi giornalisti del Corriere della Sera, da tempo hanno intrapreso una sorta di battaglia contro quello che, a loro avviso, costituisce un «fastidio per l’insopportabile dilagare del "tu" sempre e comunque», che nella loro interpretazione assumerebbe un significato «prepotente e confidenziale».
La questione, per quanto apparentemente accademica, non è di secondaria importanza, poiché al dibattito soggiace una concezione dei rapporti umani non solo improntati ad un formalismo assai dubbio, ma ad un concetto di rispetto dell’altrui persona che, a ben analizzare, risiede più in un fatto di forma che di sostanza.
Prescindendo da ciò che sono i protocolli e le etichette di natura squisitamente ufficiale, dove il lei assume un significato non tanto di ostentato rispetto, quanto di implicito riconoscimento del ruolo esercitato dall’interlocutore – si pensi ai rapporti diplomatici e di natura istituzionale – non v’è alcun dubbio che nella vita quotidiana non è certo l’utilizzo di una forma pronominale più diretta che rivela il rispetto verso l’interlocutore. La prassi politica dell’ultimo quindicennio, improntata ad ogni sorta d’insulto e di vilipendio dell’avversario vero e presunto, è una conferma che il lei è una modalità assolutamente priva di ogni congiunzione con il rispetto dell’interlocutore. Semmai è forma attraverso la quale marcare ulteriormente le distanze ed esprimere il proprio disprezzo verso un soggetto nei confronti del quale non si nutre alcuna stima, sino a configurare una sorta di ipocrita simulazione di considerazione, tradita dal contenuto stesso del processo d’interazione verbale.
Ciò non significa che, sull’altro versante, non si configurino abusi altrettanto deprecabili. Il tu rivolto a soggetti ritenuti implicitamente inferiori, come gli immigrati o le persone in qualche maniera umili o collaboratori e dipendenti, è altrettanto spia di un malessere culturale che non trova giustificazione alcuna.
Né la difesa del tu può intendersi quale manifestazione di ideologie fraternizzanti e anticlassiste, come vorrebbe insinuare Messori, il quale sostiene che «chi è ancora impregnato di spirito sessantottardo replicherà che questo fa parte del classismo da abbattere per una società più giusta». E’ semmai vero che l’utilizzo di forme decisamente più “confidenziali” come il tu tendono a rendere i rapporti tra gli individui più egualitari e meno “sovrastrutturati”, visto che non è certo l’impiego di un pronome che determina la “rilevanza” sociale di un soggetto nei confronti di un altro. Così appare del tutto spropositato e fuorviante che Missori, nel tentativo di conferire ancore più spessore alla sua teoria, arrivi persino a sostenere che l’impiego di forme pronominali informali rappresenti una sorta di nostalgia totalitaria: «Ogni totalitarismo impone la «fraternità» a colpi di «tu» obbligatorio. Dunque, non è questione solo di gusti o di galateo: l’impegno per salvare il «lei» (o, per chi preferisca, come al Sud, il «voi») è forse un piccolo ma significativo impegno per la libertà». Questo abbarbicarsi a forme in via d’estinzione per rivolgersi al proprio interlocutore rivelano, piuttosto, un’intrinseca debolezza dell’autostima, ben foraggiata da un lei senza significato e contenuto.
Evidentemente in questa società a corto di valori e in drammatico calo di rispetto, quello vero, verso il prossimo, qualcuno è convinto che la salvezza sia da ricercare nella riedizione della distanza formale: certamente sarà più rispettoso affermare “lei è un cornuto!”, piuttosto che a quel cornuto premettere un irriverente tu.
(nella foto, Beppe Severgnini, giornalista del Corriere della Sera e promotore della campagna per il recupero del lei)
Quest’ambiente interelazionale umano, naturalmente, nel suo esplicitarsi non è esente da distorsioni plateali, in quanto le variabili che entrano i gioco – livello personale di educazione, cultura, modelli comportamentali dei piccoli gruppi, radicazione dei sistemi di valori individuali, in altri termini ciò che i sociologi definiscono sottocultura – in un mondo decisamente più aperto e più trasversale, finiscono per influenzare, come schegge impazzite che si muovono in tutte le direzioni, i rapporti tra gli individui, con il risultato di scardinare le regole in essere e determinare una sorta di caos nel quale è abbattuto ogni formalismo.
E’ un esempio di questo processo inarrestabile il continuo mutamento del linguaggio dei giovani, sempre più teso alla creazioni di neologismi sparagnini per definire cose, comportamenti e situazioni, che nel linguaggio convenzionale hanno molto spesso necessità di ricorrere a perifrasi o descrizioni elaborate, per questa ragione meno immediate e incisive, e che sovente dopo un periodo di rodaggio finiscono per divenire patrimonio generale e arricchimento delle lingua.
Di questa trasformazione fa parte la prorompente diffusione del tu nella gestione dei rapporti interpersonali anche tra sconosciuti, diffusione che ha soppiantato l’anacronistico voi e il codificato lei quale pronome di cortesia verso soggetti ai quali è dovuto un senso di rispetto spesso solo formale.
Beppe Severgnini e Vittorio Messori, entrambi giornalisti del Corriere della Sera, da tempo hanno intrapreso una sorta di battaglia contro quello che, a loro avviso, costituisce un «fastidio per l’insopportabile dilagare del "tu" sempre e comunque», che nella loro interpretazione assumerebbe un significato «prepotente e confidenziale».
La questione, per quanto apparentemente accademica, non è di secondaria importanza, poiché al dibattito soggiace una concezione dei rapporti umani non solo improntati ad un formalismo assai dubbio, ma ad un concetto di rispetto dell’altrui persona che, a ben analizzare, risiede più in un fatto di forma che di sostanza.
Prescindendo da ciò che sono i protocolli e le etichette di natura squisitamente ufficiale, dove il lei assume un significato non tanto di ostentato rispetto, quanto di implicito riconoscimento del ruolo esercitato dall’interlocutore – si pensi ai rapporti diplomatici e di natura istituzionale – non v’è alcun dubbio che nella vita quotidiana non è certo l’utilizzo di una forma pronominale più diretta che rivela il rispetto verso l’interlocutore. La prassi politica dell’ultimo quindicennio, improntata ad ogni sorta d’insulto e di vilipendio dell’avversario vero e presunto, è una conferma che il lei è una modalità assolutamente priva di ogni congiunzione con il rispetto dell’interlocutore. Semmai è forma attraverso la quale marcare ulteriormente le distanze ed esprimere il proprio disprezzo verso un soggetto nei confronti del quale non si nutre alcuna stima, sino a configurare una sorta di ipocrita simulazione di considerazione, tradita dal contenuto stesso del processo d’interazione verbale.
Ciò non significa che, sull’altro versante, non si configurino abusi altrettanto deprecabili. Il tu rivolto a soggetti ritenuti implicitamente inferiori, come gli immigrati o le persone in qualche maniera umili o collaboratori e dipendenti, è altrettanto spia di un malessere culturale che non trova giustificazione alcuna.
Né la difesa del tu può intendersi quale manifestazione di ideologie fraternizzanti e anticlassiste, come vorrebbe insinuare Messori, il quale sostiene che «chi è ancora impregnato di spirito sessantottardo replicherà che questo fa parte del classismo da abbattere per una società più giusta». E’ semmai vero che l’utilizzo di forme decisamente più “confidenziali” come il tu tendono a rendere i rapporti tra gli individui più egualitari e meno “sovrastrutturati”, visto che non è certo l’impiego di un pronome che determina la “rilevanza” sociale di un soggetto nei confronti di un altro. Così appare del tutto spropositato e fuorviante che Missori, nel tentativo di conferire ancore più spessore alla sua teoria, arrivi persino a sostenere che l’impiego di forme pronominali informali rappresenti una sorta di nostalgia totalitaria: «Ogni totalitarismo impone la «fraternità» a colpi di «tu» obbligatorio. Dunque, non è questione solo di gusti o di galateo: l’impegno per salvare il «lei» (o, per chi preferisca, come al Sud, il «voi») è forse un piccolo ma significativo impegno per la libertà». Questo abbarbicarsi a forme in via d’estinzione per rivolgersi al proprio interlocutore rivelano, piuttosto, un’intrinseca debolezza dell’autostima, ben foraggiata da un lei senza significato e contenuto.
Evidentemente in questa società a corto di valori e in drammatico calo di rispetto, quello vero, verso il prossimo, qualcuno è convinto che la salvezza sia da ricercare nella riedizione della distanza formale: certamente sarà più rispettoso affermare “lei è un cornuto!”, piuttosto che a quel cornuto premettere un irriverente tu.
(nella foto, Beppe Severgnini, giornalista del Corriere della Sera e promotore della campagna per il recupero del lei)
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