mercoledì, novembre 30, 2011

Risanamento e farsa (infinita) delle pensioni

Mercoledì, 30 novembre 2011
Le questioni pensioni e debito pubblico sono per la politica italiana una sorta di cantiere perenne, sui quali non v’è esecutivo che con escavatori, cazzuole, pale e altri strumenti edili più o meno idonei non si diletti a realizzare varianti, restauri, opere di puntellamento e altre fantasie architetturali di dubbia efficacia. Mentre di debito pubblico però si discute da sempre, - con interventi e risultati costantemente inquinati dal clientelismo che segna il dna di chiunque s’alterni nella stanza dei bottoni al governo del nostro sciagurato Paese, - dal 1995, finalmente, per illuminatissima intuizione di un signore con oltre 30 milioni di lire mensili di appannaggio di quiescenza, fu individuato il tarlo corrosivo delle pubbliche finanze: le pensioni. Da quel momento è stato un massacro continuo di ogni regola preesistente, nel nome di una crociata criminale contro i “privilegi” di chi aveva pagato per una vita per garantirsi una rendita di vecchiaia, ritenuta non più sostenibile per il pubblico bilancio e considerata una delle cause principali della crescita esponenziale del debito pubblico.
S’intervenne così sulle cosiddette baby-pensioni, sull’introduzione di un meccanismo contributivo in luogo del sistema retributivo vigente, sui coefficienti rendimento dei contributi versati da lavoratori e imprese, ad un primo innalzamento dell’età necessaria per l’accesso alla quiescenza, nonché all’accorpamento al carrozzone INPS della maggior parte degli istituti di previdenza autonoma, sospettati di non essere in grado nel medio termine di rispettare gli impegni assunti con i rispettivi iscritti.
Erano quelli gli anni della disastrata situazione contabile INPS, affogata dagli oneri impropri di trattamenti di malattia, sostegno di maternità, invalidità varie, cassa integrazione e prepensionamenti a pioggia, che si era valutato poter riequilibrare con un colpo alla credibilità dello stato nel patto non scritto con i cittadini, che avevano in corso un rapporto di lavoro basato su regole il cui cambiamento avrebbe fatto certamente gridare all’inadempienza fraudolenta se attuato in ambito privato, e alla cannibalizzazione delle risorse degli enti previdenziali autonomi, le cui risorse confluivano nella mensa del vorace istituto pubblico per la previdenza sociale.
Seguì a quella riforma un lungo periodo di tregua, tregua tuttavia armata, poiché nel frattempo gli oneri impropri accollati alla previdenza continuavano ad erodere in prospettiva le disponibilità dell’INPS, che per pagare le pensioni, quelle vere, costringeva lo stato ad aumentare gli stanziamenti di bilancio e ad aggravare l’indebitamento..
Nel frattempo l’Italia entrava nell’euro, - non è dato ben comprendere se per soddisfare le velleitarie ambizioni di un Romano Prodi intenzionato a passare alla storia come l’uomo della nuova era o perché, effettivamente, quella transizione avrebbe comunque permesso al Paese di fare un salto di qualità, - trascinandosi dietro un montagna di problemi mai risolti, che forse segretamente si sperava di poter addossare alle finanze ben più opulente dei partner monetari.
Contrariamente ad ogni speranza, i conti dell’Italia hanno continuato a marciare su un terreno putrido e pericoloso e le manovre arrabattate per tamponare le falle, allargate anche da una ragione di cambio lira-euro pazzesca e penalizzante, hanno costretto altri illuminati cantieristi a rimettere mano alle pensioni, - l’eterno spauracchio di un manipolo di politicanti senza idee e, soprattutto, senza il minimo senso dell’equità sociale e la distribuzione del sacrificio. Si assiste così alla cervellotica manovra Maroni-Tremonti, che cambia in corsa i limiti d’età e infligge un duro colpo alle pensioni di anzianità, lasciando nella disperazione migliaia di lavoratori espulsi dalle imprese in ragione dell’età anagrafica, dunque impossibilitati a reperire un nuovo lavoro, e tagliati fuori dall’accesso a breve alla pensione, - unico mezzo di sostentamento alle drammatiche mutate condizioni di vita.
La caduta del governo Berlusconi, di cui Maroni e Tremonti sono ministri e autori di quella beffa, e il reingresso della sinistra guidata da Prodi nella stanza dei bottoni, modifica in parte la scellerata riforma, ma contrariamente agli impegni elettorali assunti, - che prevedevano la cancellazione delle norme introdotte dal precedente esecutivo, - le norme vengono modificate con l’introduzione di scalini e di coefficienti età/minimo contributivo, che in buona sostanza lasciano immutato il senso della legislazione incriminata. E’ evidente che la tavola apparecchiata da Berlusconi all’esecutivo di centro-sinistra faccia assai comodo, poiché lenire gli effetti di una riforma fortemente penalizzante con qualche pannicello caldo illude Prodi e i suoi che il consenso popolare sia garantito. D’altra parte anni di egemonia democristiana, di politica basata sull’illusionismo, difronte ad una situazione dei conti pubblici sempre più fuori controllo, fanno ritenere al professore di Bologna che il maquillage convinca i gonzi di un ripristino di condizioni più accettabili rispetto a quelle capestro partorite dal governo precedente e, contemporaneamente, senza compromissione dell’equilibrio del bilancio statale.
Com’è storia, il governo Prodi andrà a casa dopo due anni di laceranti scontri al suo interno su questioni di equità sociale, pensioni comprese. E cadrà in condizioni di credibilità talmente compromesse da determinare una nuova vittoria della destra berlusconiana, - divenuta nel frattempo anco più conservatrice e reazionaria, al punto da sentirsi obbligata a rimetter mano alle pensioni e al lavoro, oramai muro basso di ogni abuso che eviti di colpire il cuore dei problemi veri del disastro economico-finanziario del Paese.
Si assiste così ad ulteriori giri di vite sui requisiti per l’accesso al pensionamento di donne, pubblici dipendenti, diritto al percepimento dell’assegno di quiescenza in nome di un risanamento più differibile e imposto dall’Europa, eludendo quasi con disprezzo ogni attenzione al cancro vero del sistema Italia, rappresentato da un’evasione enorme diffusa, dall’esenzione dalla tassazione di redditi e patrimoni cospicui – vedi rendite finanziarie e grandi proprietà immobiliari, - privilegi medievali di una casta politica degna di giudizio sommario nelle pubbliche piazze, sperperi di spesa per il mantenimento di apparati politico-burocratici funzionali solo alla ricollocazione di politici trombati e senza più occupazione; negazione dell’esistenza di una gravissima crisi a rischio default del Paese, per fronteggiare la quale sarebbero stati necessari provvedimenti immediati e incisivi non destinati ai soliti noti oramai spremuti e incapaci di traguardare la prima quindicina d’ogni mese con i redditi da fame a disposizione.
Anche questo governo finirà, travolto dagli scandali personali di un premier border line e dalle mille anime presenti all’interno della coalizioni, che l’ha trascinato comatoso per tre lunghi anni senza la minima capacità di incidere sui problemi veri all'origine del deficit spaventoso.
A questo governo se n’è sostituito uno d’emergenza, uno voluto dalla presidenza della Repubblica e formato da tecnici con a capo Mario Monti, emerito professore della Bocconi e, fino a ieri, sospetto di equidistanza nei confronti della politica arruffona e compromissoria. Le iniziative di questo esecutivo sono ancora in fieri, ma che non lasciano presagire nulla di innovativo. Si parla, infatti, nuovamente di pensioni, divenute oramai il Moloc del secolo; si parla ancora di modifiche dell’età per accedervi e di trasformazione, in corsa, di rendimento dei contributi versati, con un passaggio immediato e universale al sistema contributivo rispetto a quello retributivo ancora in essere per tanti e ad esaurimento, che porterà ad uno sfalcio degli assegni di pensione a poco più della metà di quanto precedentemente atteso.
A nostro modesto avviso, - anche alla luce di quanto anticipato in queste ore quale bersaglio degli interventi di Monti e soci e delle scelte degli incarichi di governo attribuiti dal premier, - ci sembrerebbe che la logica perversa che sembra dominare chi assurge al potere non sia affatto mutata, - né l’assunzione dell’incarico di presidente del consiglio da parte del noto luminare è di per sé un elemento che legittima qualunque corbelleria dovesse proporre. La nomina di qualche sottosegretario con la fedina penale non proprio immacolata e comunque espressione di quel ricatto partitico, a cui, in tutta evidenza, non riesce a sottrarsi anche l’ex rettore della Bocconi, e le anticipate linee d’intervento su patrimoniali, incrementi di tassazione diretta e indiretta, pensioni, limature ai trattamenti della casta politica, non lasciano molte speranze di un avvio sulla strada maestra del ripristino dell’equità, della giustizia sociale e del risanamento morale. E a chi dovesse obiettare che non è lecito criticare in assenza di riscontri tangibili, è opportuno rammentare che il buon giorno si vede dal mattino, non certo da tentative previsioni del tempo non sempre confermate nella realtà.

(nella foto, Elsa Fornero, ministro del lavoro e della previdenza sociale del neogoverno Monti)

lunedì, novembre 28, 2011

Giuristi per caso e sindacalisti arroccati

Lunedì, 28 novembre 2011
Chi ha capito qualcosa di ciò che sorregge l’idea di revisione della normativa sul lavoro del professor Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del PD, alzi la mano.
Sì, perché l’insigne professore nella trasmissione de la7 di ieri sera, condotta da Luca Telese e Nicola Porro, ospite Maurizio Landini della Fiom, ha per tutta la durata del talk-show insistito sulla necessità di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori come momento di ammodernamento di un mercato del lavoro agonizzante.
In buona sostanza, la tesi di Ichino è che il mercato del lavoro italiano soffre di un dualismo antagonistico che lo rende asfittico e incapace di generare nuove opportunità occupazionali. Da una parte ci sarebbero i lavoratori cosiddetti tutelati, quelli che non è possibile licenziare grazie ai contratti stipulati in osservanza alle norme dei CCNL, ricadenti sotto l’ambito della Legge 300/70, e i peones del lavoro, cioè coloro che prestano la propria opera in base ai cosiddetti contratti atipici (lavoro interinale, staff leasing, lavoro a termine, ecc.), che invece proprio perché sfuggenti la contrattualistica nazionale non godono di alcuna tutela in caso di licenziamento.
Tale dualismo è destinato a squilibrarsi a favore dell’occupazione atipica, secondo il professore, e pertanto sarebbe auspicabile che si mettesse una pietra sopra al famigerato articolo 18, così creando condizioni di parità tra le due diverse categorie di prestatori d’opera. E se questo non bastasse a motivare il superamento dell’antiquata tutela legislativa, le mutazioni intervenute nella realtà, che spingono sempre più i lavoratori a cambiare tipologia d’impiego e d’azienda nel corso della vita lavorativa, suggerirebbero un processo di liberalizzazione della circolazione della manodopera, svincolato da lacci e lacciuoli che poco servono davanti ad una mobilità crescente.
Come ha ben sottolineato Maurizio Landini, contraltare di queste ardita e, per alcuni versi, cervellotica ipotesi, non si comprende affatto dalle considerazioni di Ichino quale valore aggiunto deriverebbe all’occupazione dalla soppressione di una tutela minima come prevista dall’articolo 18, considerato che quella tutela non è stata prevista per ingessare il mercato del lavoro, quanto per delimitare lo strapotere padronale di liberarsi a proprio insindacabile giudizio di risorse scomode sul piano extra prestazionale. In altri termini, pur in vigenza dell’articolo in questione le aziende conservano la facoltà di disfarsi di lavoratori incapaci, ma su questa decisione grava l’onere di dimostrarne l’inettitudine, affinché questa non s’assuma a pretesto per discriminare in base a principi costituzionalmente garantiti. E’ evidente che, in assenza di tutele, il padronato non esiterebbe a liberarsi del sindacalista piuttosto che delle lavoratrici in procinto di divenire madri, - giusto per fare degli esempi, - poiché ci si troverebbe in entrambi i casi al cospetto di prestatori d’opera a ridotte capacità prestazionali: nel primo caso per l’evidente coinvolgimento in un’attività rivendicativa a favore di altri lavoratori e contro gli interessi del datore di lavoro; nel secondo caso in presenza di un’addetta la cui condizione psico-fisica è senza dubbio preminente rispetto alle esigenze d’impiego in attività faticose o stressanti.
Né, com’è stato evidenziato, la liberalizzazione aberrante messa in pratica dal 1997 nel mercato del lavoro con il precariato ha contribuito a moltiplicare la domanda delle imprese. Semmai, quella liberalizzazione ha determinato un lento e massiccio fenomeno d’espulsione di addetti, che sono stati sostituiti in misura più ridotta da precari senza diritti e senza speranza. La dimostrazione di quanto questo fenomeno abbia fallito nelle intenzioni sta nell’incremento della disoccupazione, particolarmente di giovani e ultra cinquantenni e nei licenziamenti di massa a cui ha fatto ricorso il sistema delle imprese già dall’indomani della crisi economica che ha colpito l’occidente sviluppato e industriale.
In questa prospettiva, non v’è dubbio alcuno, che le tesi del professor Ichino si capovolgono e, semmai di riforme fosse necessario parlare, allora sarebbe auspicabile che le tutele fossero estese a tutte le tipologie contrattuali in essere e si desse così un taglio agli abusi più abietti cui abbiamo assistiti inermi nell’ultimo quindicennio.
Ciò non significa che non esistano responsabilità anche dal lato opposto rispetto a quello che Ichino sembra difendere. E’ vero, infatti, che il sindacato di qualunque colore lo si consideri ha sovente abusato delle tutele in questione, assurgendo molto spesso a difensore di pelandroni e perdigiorno, fattisi forti di una sostanziale inamovibilità. Dunque, una revisione dei meccanismi sarebbe alquanto auspicabile e doverosa, poiché non è più sostenibile che assenteisti, malati immaginari, doppio lavoristi e altra fauna simile, molto diffusa particolarmente nel pubblico impiego, continui imperterrita nella propria opera di distruzione della credibilità della classe lavoratrice e metta ogni giorno di più a repentaglio conquiste di civiltà irreversibili.
D’altra parte l’Italia, pur in un contesto di globalizzazione dell’economia, continua a restare il Paese che è, con i suoi vizi e le sue virtù, e pretendere, - peraltro a convenienza, - di trasformarla in una succursale di valori anglosassoni, con una flessibilità esasperata del lavoro pur in presenza di un retroterra non basato sul valore e sulla meritocrazia, ma prioritariamente sulla piaggeria e l’accondiscendenza reverenziale, è culturalmente cosa azzardata e velleitaria. Di questi riferimenti devono tener conto Pietro Ichino, quando sostiene idee liberiste scarsamente fondate, e per altro verso Maurizio Landini, quando rifiuta di meditare sui tanti errori commessi dall’eccesso di garantismo e chiude ad ogni ipotesi di bonifica.

(nella foto, il senatore professor Pietro Ichino)

lunedì, novembre 14, 2011

Nuovo governo alla prova dei fatti

Lunedì, 14 novembre 2011
Come si supponeva, è bastato l’annuncio dell’incarico a Monti per frenare la speculazione sul debito nazionale e ridare un certo fiato alla borse. Ciò non significa che i problemi italiani siano risolti, ma, più semplicemente, che i mercati ritengono talmente credibile la figura del nuovo presidente del consiglio incaricato da indurre gli speculatori a rimettere le pistole nelle fondine in attesa di vedere quali saranno le mosse del nuovo esecutivo.
D’altra parte che il governo Monti abbia in programma di aggredire la crisi in atto con il varo di misure lacrime e sangue è cosa scontata, sebbene non sia ancora nota la direzione delle misure in preparazione e chi, prioritariamente, sarà chiamato a dare il contributo più significativo in termini di oneri.
Certo è che, parecchi degli obiettivi sottovalutati dall’esecutivo precedente o coloro addirittura tenuti indenni da un’equa distribuzione dei sacrifici, debbono necessariamente prepararsi al peggio, poiché non è pensabile imbastire nuove manovre a danno esclusivo di chi è da sempre nel vorace mirino delle politiche di risanamento ed oggi è giunto allo stremo. Ciò non significa che a pagare non possano essere chiamati anche i soliti noti. Ma una strategia che puntasse solo e ancora una volta in questa direzione, al di là dei giudizi di moralità, si rivelerebbe immediatamente perdente e priva di credibilità, visto che le rape non possono né produrre sangue né ulteriori succhi grazie a rinnovate spremiture.
In questa prospettiva una patrimoniale si configura ineluttabile, così come si delinea inevitabile una poderosa stretta sui meccanismi che favoriscono l’evasione fiscale e la produzione di redditi che sfuggono a qualunque meccanismo di rilevazione.
Le misure d’assumere non sono poi così complicate come da sempre ci ha fatto credere chi ha convissuto o ha strizzato l’occhio all’evasione. Un bonus fiscale a favore di quanti nella dichiarazione dei redditi presentassero un resoconto da servizi fruiti da professionisti (ingegneri, medici, avvocati, commercialisti, ecc.) costerebbe poco rispetto alla possibilità di raggiungere la redditività effettiva di categorie notoriamente avvezze a pianger miseria con la Porsche in garage.
Analogamente, attraverso i pubblici registri non dovrebbe essere difficile censire i proprietari di auto al di sopra di una certa cilindrata o di barche e verificare la congruenza dei redditi dichiarati, - ciò senza ledere il sacrosanto diritto di ciascuno di spendere i propri soldi nel modo che più gli aggrada. E meccanismi rigorosi di tal genere non risparmierebbero certamente i furbetti che spesso ricorrono a forme di noleggio per sfuggire ai controlli, dato che le società di leasing dovrebbero mettere a disposizione della Guardia di Finanza l’elenco delle persone che si avvalgono dei loro servizi e quest’ultimi giustificare i redditi che consentono l’utilizzo continuativo di mezzi milionari.
Gli esempi potrebbero continuare, ma non crediamo che il valente presidente del consiglio abbia bisogno del nostro supporto per attivare i metodi più adeguati per scovare il cancro dell’evasione.
Altro discorso è la lotta al privilegio, costituito dalle mille guarentigie che godono caste e particolari categorie sociali. Qui la selva è intricata, ma allo stesso tempo non proibitivo sfoltire. Occorre solo la buona volontà di varare leggi apposite che cancellino lo sconcio di trattamenti retributivi, pensionistici e di altra natura riservati a dipendenti di singole regioni o amministrazioni pubbliche, avocando allo stato centrale la potestà normativa su tali materie, comprese quelle che lasciano libertà di gonfiare a dismisura gli organici o di creare uffici ed enti inutili. L’istituzione di un’autorità centrale, che vigili con potere di inibizione sui conti degli enti periferici e sulla congruenza delle spese, potrebbe costituire un passo significativo verso un federalismo equilibrato del quale lo stato centrale continua a conservare una responsabilità rilevante, a garanzia dell’equilibrio del sistema e degli interessi dei cittadini, essendosi ad oggi dimostrata l’autonomia gestionale di certe regioni una libertà di spreco inammissibile a fini elettoralistici e clientelari.
Un discorso a parte merita la politica ed il suo costo, nei confronti dei quali sono necessari tempestivi interventi che cancellino gli assurdi privilegi che godono in termini di retribuzioni, diarie, rimborsi spese, benefit accessori, trattamenti pensionistici e normativi, il cui onere ricade sulla collettività. La politica deve ritornare ad essere una missione e non una professione con la quale arricchirsi o godere di privilegi borbonici. Tale principio deve valere anche per l’apparato burocratico della Camera e del Senato, i cui compiti lavorativi non sono certamente diversi da quelli disimpegnati da un qualunque dipendente pubblico: un commesso parlamentare non può percepire stipendi da dirigente d’impresa, in disprezzo dei diritti dei pari grado in forza in qualunque amministrazione pubblica.
C’è infine la questione del rilancio occupazionale, che deve essere affrontato sì con i necessari strumenti di flessibilità, ma con la cancellazione definitiva di un precariato perenne che non lascia alcuna speranza e che mortifica le prospettive di vita di migliaia di giovani. Le imprese non devono più fruire della libertà d’assunzione temporanea in modo indiscriminato e continuativo, ma devono garantire la stabilizzazione di coloro che abbiano già prestato la loro opera con contratti atipici almeno per due volte nella stessa mansione e in qualunque realtà produttiva. E le imprese che vengono meno a questo vincolo di legge debbono essere perseguite duramente, anche con aggravi contributivi commisurati alla forza lavoro impiegata, oltre che con l’obbligo immediato di regolarizzare le posizioni contrattuali irregolari.
Queste, ovviamente, non sono che alcune delle iniziative che potrebbero assumersi in via immediata per variare la rotta, ma sono anche le iniziative che potrebbero autorizzare interventi su pensioni o altri istituti già tartassati in passato e che hanno evidenziato sia la pochezza che la volontà persecutoria del governo passato. Non si capirebbe, d’altra parte, cosa s’intenda per equità e giustizia sociale quando l’attenzione alla distribuzione dei sacrifici e, allo stesso tempo, alla creazione di un quadro sociale di maggiore solidarietà, non passasse anche attraverso una diversa regolamentazione delle regole del gioco che non esenti nessuno dall’obbligo di fare la propria parte.
Un nuovo governo che voglia dare il senso della discontinuità e voglia rigenerare la fiducia del Paese non può esimersi, nell’ora del sacrificio generale, dal chiamare in causa chi sino ad ora ha alzato il dito e la voce contro gli effetti d’una crisi senza precedenti, ma nei fatti s’è crogiolato nel privilegio di chiamarsi esente o, peggio, s’è pure arricchito speculando sulle miserie altrui.

domenica, novembre 13, 2011

Sic transit gloria mundi

Domenica, 13 novembre 2011
L’avevamo predetto e alla fine è accaduto: Berlusconi lascia, ma più che per sua volontà perché costretto dal fallimento totale del suo governo, che ha obbligato Giorgio Napolitano a dargli il benservito e metterlo alla porta per manifesta inettitudine.
E gli è andata bene, tutto sommato, alla luce dei moti di piazza che ieri sera hanno accompagnato il suo arrivo al Quirinale, – con mezz’ora di ritardo, giusto per confermare come l’idiota disprezzo delle regole sia radicato nel suo dna, - che per un attimo hanno riportato alla mente l’uscita di scena di Bettino Craxi, anche se a quest’ultimo va riconosciuta una statura politica imponente rispetto all’immagine di guitto da quattro soldi che oramai accompagnava la figura dell’ex Unto del Signore di Arcore.
Anche per lui sono volati insulti e monetine, oltre a qualche preservativo, giusto per restare in tono con il personaggio. Ma c’è da scommettere che, se maldestramente fosse stato lasciato alla mercé della folla, qualche sputo per sciogliergli il cerone e il fondo tinta non gli sarebbe stato risparmiato.
Erano in tanti coloro che ancora tre anni or sono, all’indomani della sua schiacciante vittoria elettorale, avevano gridato a gran voce di lasciarlo governare, di dargli una chance per dimostrare se nei fatti sarebbe stato così valido come da sbruffone ripeteva da sempre. Adesso costoro son serviti. Hanno dovuto prendere atto che l’uomo era di fatto un millantatore, un imbonitore senza qualità e capacità i cui metodi erano basati sull’inganno: inganno sull’inesistenza di una crisi planetaria che mordeva anche e soprattutto l’Italia; inganno sulle reali ragioni della sua comparsa in politica, non stimolate da encomiabile amor patrio ma dall’ossesso desiderio di uscire indenne dalle innumerevoli malefatte compiute nell’accumulare una fortuna; inganno sulle mille promesse di ridurre tasse, creare posti di lavoro e mirabolanti imprese di ponti sullo Stretto e ricostruzioni lampo di aree terremotate.
Da qualunque parte si guardi alla sua esperienza di governo non v’è alcun riscontro che possa consentire di rendere meno drammatico e tragico il suoi fallimento, un fallimento che va ben oltre la sua persona e che coinvolge irrimediabilmente e definitivamente l’immagine delle centinaia di pagliacci, banditori, servi e giullari che lo hanno accompagnato come cani fedeli nel rovinoso tragitto verso il baratro.
Ancora ieri qualche irriducibile disperato ha provato ad aizzare una claque disgustosa in quel di Milano, illudendosi forse che il teatro Manzoni, tempio degli show Fininvest e situato nel cuore di quella città che al Cavaliere ha dato i natali, potesse ringalluzzire gli sbandati. Ferrara, Feltri, Sallusti, Santanché, Rotondi e tanti altri scalcinati rappresentanti della meteora berlusconiana hanno tenuto l’ultima kermesse, una grottesca adunata sediziosa con tanto di spudorati nostalgici in bella mostra, prima di ripiombare, nell’oblio più assoluto, nelle cantine ammuffite dalle quali erano stati liberati. E come se non bastasse hanno provato persino a lanciare anatemi e porre condizioni al nuovo capo in pectore del governo in formazione, convinti di contare ancora qualcosa in una realtà talmente stufa e disgustata dalla loro cortigianeria sfacciata da non tollerare neppure di vederli circolare o di sentire i loro miserabili latrati. E le prossime settimane confermeranno la fondatezza di queste considerazioni, quando la carta che imbrattano quotidianamente con le loro arroganti ricette rimarrà invenduta nelle edicole del Paese.
Sia comunque ben inteso che l’essersi liberato di Berlusconi e i suoi Bassotti non significherà aver risolto i problemi dell’Italia e della sua economia. Lo sfascio che è stato prodotto è tale da richiedere lustri perché si possa risalire la china e i sacrifici che saranno imposti alla collettività per ricostruire saranno tali da far maledire Monti, o chi per lui, e gli uomini che lo accompagneranno nell’impresa titanica.
C’è da sperare comunque che, forti di quest’ennesima lezione, gli Italiani per i prossimi cent’anni non commettano più un errore analogo: Mussolini, Craxi, Berlusconi dovrebbero essere più che sufficienti nell’aver impartito un’indelebile esperienza ad un popolo troppo incline, per errore di calcolo e opportunistica convenienza, a ber panzane e tributare onori facili a mentecatti e mezze calzette.

giovedì, novembre 10, 2011

Addio Mr. Chips

Giovedì, 10 novembre 2011
Sembrerebbe finita l’avventura neo autoritaria del governo di Silvio Berlusconi, celebre tycoon, grande puttaniere, apprezzato piazzista, modesto showman, politico fallito. E con lui e con la sua incontenibile protervia se ne va via un pezzo incommensurabile dell’economia italiana e del suo benessere, economia per troppo tempo emarginata a problematica di serie infima e mortificata dai folli propositi del personaggio di privilegiare esclusivamente l’invenzione di meccanismi idonei a garantirgli un’impunità legale e definitiva dalla decina di processi penali che lo riguardano.
Invano ha tentato con ogni mezzo, anche il più meschino e volgare, di spacciarsi per un perseguitato politico, preso costantemente di mira da una magistratura al soldo di un’opposizione mai rassegnata alla sconfitta subita nelle urne. Questa è una colossale bugia inventata per confondere le cose e nascondere la vera ragione della sua comparsa in politica. I reati per i quali è stato perseguito riguardano la sua vita da imprenditore spregiudicato, antecedente la discesa in campo, e solo di recente, in decorrenza di mandato parlamentare e governativo, ha collezionato qualche scampolo di processo ulteriore, come quello per il caso Ruby, grazie al fatto che quando si è inclini al disprezzo della legge non è certo l’occupazione di cariche istituzionali che frena la propensione a delinquere. Anzi in quelle circostanze ci si sente molto più forti e al di sopra d’ogni rischio di perseguibilità.
L’uomo esce sconfitto dalla scena ben oltre ogni possibile immaginazione. Non abbandona la scena per scelta o per presa d’atto d’una impossibilità a continuare a causa d’un dissenso sui suoi programmi politici, ma perché cacciato a furor di popolo per manifesta incapacità e per il palesarsi definitivo d’una mancanza di credibilità assoluta, vittima lui medesimo delle fandonie da avanspettacolo raccontate a mezzo mondo e degli impegni mai mantenuti nei confronti dei suoi elettori e dei suoi interlocutori internazionali.
Si porta sul gobbo un indelebile marchio di infamia persino più grande del folle Mussolini che nelle sventure d’Italia l’ha preceduto. Il controverso Duce lasciò il Paese nello sfascio di una ricostruzione susseguente una folle avventura bellica, situazione nella quale c’erano comunque le condizioni sociali per rimboccarsi le maniche e ricrescere. Silvio Berlusconi lascia in eredità un Paese in piena crisi prefallimentare, distrutto nella speranza, nella voglia di lottare, rinchiuso in un egoismo sordo, profondamente diviso da campanilismi esasperati, corroso da una guerra generazionale senza quartiere, con un tessuto sociale lacerato dalle mille storture provocate dalle sue politiche di guerra al sindacato, dal disimpegno verso la deindustrializzazione di intere aree della Penisola, da un’irrisolta questione occupazionale giovanile, dallo sfruttamento quasi schiavistico di lavoratori costretti a subire qualunque oscurantistica regressione dei diritti nei posti di lavoro. E non ultimo un crollo drammatico della fiducia nella politica e nelle istituzioni, a cui non sono stati risparmiati attacchi farneticanti e schizofrenici, con l’intento di soggiogarne la libertà e addomesticarne il consenso, ma con il risultato di radicare un incontenibile voltastomaco nei confronti della loro credibilità.
Qualcuno ha paragonato il tycoon di Arcore al personaggio di Rasputin per l’enorme potere concentrato nelle sue mani, per l’uso spregiudicato che ne ha fatto e per le mitiche qualità e incontinenze sessuali: d’altra parte l’uno s’era fatto monaco e si spacciava, dunque, per uomo di fede; il Nostro s’è sempre dichiarato unto del Signore, dunque legittimato ad ogni sorta di efferatezza in nome del Padre Celeste. Le notti di entrambi sono velate di misteri e d’avventure mirabolanti e chissà che anche il membro di Berlusconi alla sua dipartita da questo doloroso mondo non venga gelosamente conservato ed esposto in qualche museo, come succede a quello di Rasputin dal 2004, in bella mostra in quello di San Pietroburgo. Certo è che entrambi hanno avuto il malsano potere di avvelenare la realtà sociale nella quale hanno vissuto e agito, con scandali d’ogni taglia e d’ogni tipo e lasciando dietro di sé macerie sociali difficili da rimuovere nel breve periodo.
Insieme con lui sono destinati a sparire dalla geografia politica un numero considerevole di mezze figure e imbonitori, che gli hanno molto spesso tenuto il bordone perché servi veri o perché falsi e opportunisti compagni di viaggio. E' in questa circostanza che, come Mr. Chips, il Cavaliere si renderà conto d’esser stato sempre solo, a dispetto delle sue illusorie convinzioni: la sconfitta è sempre orfana e quando la nave affonda anche i ratti si precipitano sulle scialuppe di salvataggio nella speranza di non affogare.
Agli sconfitti, a coloro che hanno combattuto battaglie oneste e impavide, è d’uso concedere l’onore delle armi, come ultimo atto di rispetto per un avversario che ha condotto il confronto con lealtà e determinazione. Francamente a Berlusconi non ci pare possa riconoscersi tale atto di rispetto, non fosse per il tronfio disprezzo con il quale ha svillaneggiato costantemente avversari e oppositori e per l’epilogo (ancora tutto da verificare al momento in cui scriviamo, ndr) con il quale è stato costretto a lasciare.
Sebbene non sia generalmente considerato gesto d’eleganza infierire sui vinti, noi oggi scegliamo di passare per persone di scarsa sensibilità, e, francamente, nel non nutrire alcun compatimento per la fine meritata di Silvio Berlusconi, peraltro giunta anche troppo tardi, ci permettiamo anche di augurargli, al grido di “Viva l’Italia”, cento di questi giorni!

Ci scusiamo con i lettori per il lungo silenzio trascorso sino ad oggi, ma tra le storture di questo disgraziato Paese vi è anche la qualità del servizio telefonico e adsl. Purtroppo siamo ostaggio della Telecom, che, al di là della tanto decantata liberalizzazione della telefonia, continua a mantenere il monopolio delle centrali di smistamento traffico, dalle quali, in tante aree del Paese, persevera nell’erogare servizi da terzo mondo. Purtroppo la zona dalla quale scriviamo usufruisce di servizi adsl da albori della civiltà e ciò molto spesso c’impedisce di tenervi informati con il nostro punto di vista sui fatti della vita quotidiana.