Giuristi per caso e sindacalisti arroccati
Lunedì, 28 novembre 2011
Chi ha capito qualcosa di ciò che sorregge l’idea di revisione della normativa sul lavoro del professor Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del PD, alzi la mano.
Sì, perché l’insigne professore nella trasmissione de la7 di ieri sera, condotta da Luca Telese e Nicola Porro, ospite Maurizio Landini della Fiom, ha per tutta la durata del talk-show insistito sulla necessità di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori come momento di ammodernamento di un mercato del lavoro agonizzante.
In buona sostanza, la tesi di Ichino è che il mercato del lavoro italiano soffre di un dualismo antagonistico che lo rende asfittico e incapace di generare nuove opportunità occupazionali. Da una parte ci sarebbero i lavoratori cosiddetti tutelati, quelli che non è possibile licenziare grazie ai contratti stipulati in osservanza alle norme dei CCNL, ricadenti sotto l’ambito della Legge 300/70, e i peones del lavoro, cioè coloro che prestano la propria opera in base ai cosiddetti contratti atipici (lavoro interinale, staff leasing, lavoro a termine, ecc.), che invece proprio perché sfuggenti la contrattualistica nazionale non godono di alcuna tutela in caso di licenziamento.
Tale dualismo è destinato a squilibrarsi a favore dell’occupazione atipica, secondo il professore, e pertanto sarebbe auspicabile che si mettesse una pietra sopra al famigerato articolo 18, così creando condizioni di parità tra le due diverse categorie di prestatori d’opera. E se questo non bastasse a motivare il superamento dell’antiquata tutela legislativa, le mutazioni intervenute nella realtà, che spingono sempre più i lavoratori a cambiare tipologia d’impiego e d’azienda nel corso della vita lavorativa, suggerirebbero un processo di liberalizzazione della circolazione della manodopera, svincolato da lacci e lacciuoli che poco servono davanti ad una mobilità crescente.
Come ha ben sottolineato Maurizio Landini, contraltare di queste ardita e, per alcuni versi, cervellotica ipotesi, non si comprende affatto dalle considerazioni di Ichino quale valore aggiunto deriverebbe all’occupazione dalla soppressione di una tutela minima come prevista dall’articolo 18, considerato che quella tutela non è stata prevista per ingessare il mercato del lavoro, quanto per delimitare lo strapotere padronale di liberarsi a proprio insindacabile giudizio di risorse scomode sul piano extra prestazionale. In altri termini, pur in vigenza dell’articolo in questione le aziende conservano la facoltà di disfarsi di lavoratori incapaci, ma su questa decisione grava l’onere di dimostrarne l’inettitudine, affinché questa non s’assuma a pretesto per discriminare in base a principi costituzionalmente garantiti. E’ evidente che, in assenza di tutele, il padronato non esiterebbe a liberarsi del sindacalista piuttosto che delle lavoratrici in procinto di divenire madri, - giusto per fare degli esempi, - poiché ci si troverebbe in entrambi i casi al cospetto di prestatori d’opera a ridotte capacità prestazionali: nel primo caso per l’evidente coinvolgimento in un’attività rivendicativa a favore di altri lavoratori e contro gli interessi del datore di lavoro; nel secondo caso in presenza di un’addetta la cui condizione psico-fisica è senza dubbio preminente rispetto alle esigenze d’impiego in attività faticose o stressanti.
Né, com’è stato evidenziato, la liberalizzazione aberrante messa in pratica dal 1997 nel mercato del lavoro con il precariato ha contribuito a moltiplicare la domanda delle imprese. Semmai, quella liberalizzazione ha determinato un lento e massiccio fenomeno d’espulsione di addetti, che sono stati sostituiti in misura più ridotta da precari senza diritti e senza speranza. La dimostrazione di quanto questo fenomeno abbia fallito nelle intenzioni sta nell’incremento della disoccupazione, particolarmente di giovani e ultra cinquantenni e nei licenziamenti di massa a cui ha fatto ricorso il sistema delle imprese già dall’indomani della crisi economica che ha colpito l’occidente sviluppato e industriale.
In questa prospettiva, non v’è dubbio alcuno, che le tesi del professor Ichino si capovolgono e, semmai di riforme fosse necessario parlare, allora sarebbe auspicabile che le tutele fossero estese a tutte le tipologie contrattuali in essere e si desse così un taglio agli abusi più abietti cui abbiamo assistiti inermi nell’ultimo quindicennio.
Ciò non significa che non esistano responsabilità anche dal lato opposto rispetto a quello che Ichino sembra difendere. E’ vero, infatti, che il sindacato di qualunque colore lo si consideri ha sovente abusato delle tutele in questione, assurgendo molto spesso a difensore di pelandroni e perdigiorno, fattisi forti di una sostanziale inamovibilità. Dunque, una revisione dei meccanismi sarebbe alquanto auspicabile e doverosa, poiché non è più sostenibile che assenteisti, malati immaginari, doppio lavoristi e altra fauna simile, molto diffusa particolarmente nel pubblico impiego, continui imperterrita nella propria opera di distruzione della credibilità della classe lavoratrice e metta ogni giorno di più a repentaglio conquiste di civiltà irreversibili.
D’altra parte l’Italia, pur in un contesto di globalizzazione dell’economia, continua a restare il Paese che è, con i suoi vizi e le sue virtù, e pretendere, - peraltro a convenienza, - di trasformarla in una succursale di valori anglosassoni, con una flessibilità esasperata del lavoro pur in presenza di un retroterra non basato sul valore e sulla meritocrazia, ma prioritariamente sulla piaggeria e l’accondiscendenza reverenziale, è culturalmente cosa azzardata e velleitaria. Di questi riferimenti devono tener conto Pietro Ichino, quando sostiene idee liberiste scarsamente fondate, e per altro verso Maurizio Landini, quando rifiuta di meditare sui tanti errori commessi dall’eccesso di garantismo e chiude ad ogni ipotesi di bonifica.
(nella foto, il senatore professor Pietro Ichino)
Sì, perché l’insigne professore nella trasmissione de la7 di ieri sera, condotta da Luca Telese e Nicola Porro, ospite Maurizio Landini della Fiom, ha per tutta la durata del talk-show insistito sulla necessità di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori come momento di ammodernamento di un mercato del lavoro agonizzante.
In buona sostanza, la tesi di Ichino è che il mercato del lavoro italiano soffre di un dualismo antagonistico che lo rende asfittico e incapace di generare nuove opportunità occupazionali. Da una parte ci sarebbero i lavoratori cosiddetti tutelati, quelli che non è possibile licenziare grazie ai contratti stipulati in osservanza alle norme dei CCNL, ricadenti sotto l’ambito della Legge 300/70, e i peones del lavoro, cioè coloro che prestano la propria opera in base ai cosiddetti contratti atipici (lavoro interinale, staff leasing, lavoro a termine, ecc.), che invece proprio perché sfuggenti la contrattualistica nazionale non godono di alcuna tutela in caso di licenziamento.
Tale dualismo è destinato a squilibrarsi a favore dell’occupazione atipica, secondo il professore, e pertanto sarebbe auspicabile che si mettesse una pietra sopra al famigerato articolo 18, così creando condizioni di parità tra le due diverse categorie di prestatori d’opera. E se questo non bastasse a motivare il superamento dell’antiquata tutela legislativa, le mutazioni intervenute nella realtà, che spingono sempre più i lavoratori a cambiare tipologia d’impiego e d’azienda nel corso della vita lavorativa, suggerirebbero un processo di liberalizzazione della circolazione della manodopera, svincolato da lacci e lacciuoli che poco servono davanti ad una mobilità crescente.
Come ha ben sottolineato Maurizio Landini, contraltare di queste ardita e, per alcuni versi, cervellotica ipotesi, non si comprende affatto dalle considerazioni di Ichino quale valore aggiunto deriverebbe all’occupazione dalla soppressione di una tutela minima come prevista dall’articolo 18, considerato che quella tutela non è stata prevista per ingessare il mercato del lavoro, quanto per delimitare lo strapotere padronale di liberarsi a proprio insindacabile giudizio di risorse scomode sul piano extra prestazionale. In altri termini, pur in vigenza dell’articolo in questione le aziende conservano la facoltà di disfarsi di lavoratori incapaci, ma su questa decisione grava l’onere di dimostrarne l’inettitudine, affinché questa non s’assuma a pretesto per discriminare in base a principi costituzionalmente garantiti. E’ evidente che, in assenza di tutele, il padronato non esiterebbe a liberarsi del sindacalista piuttosto che delle lavoratrici in procinto di divenire madri, - giusto per fare degli esempi, - poiché ci si troverebbe in entrambi i casi al cospetto di prestatori d’opera a ridotte capacità prestazionali: nel primo caso per l’evidente coinvolgimento in un’attività rivendicativa a favore di altri lavoratori e contro gli interessi del datore di lavoro; nel secondo caso in presenza di un’addetta la cui condizione psico-fisica è senza dubbio preminente rispetto alle esigenze d’impiego in attività faticose o stressanti.
Né, com’è stato evidenziato, la liberalizzazione aberrante messa in pratica dal 1997 nel mercato del lavoro con il precariato ha contribuito a moltiplicare la domanda delle imprese. Semmai, quella liberalizzazione ha determinato un lento e massiccio fenomeno d’espulsione di addetti, che sono stati sostituiti in misura più ridotta da precari senza diritti e senza speranza. La dimostrazione di quanto questo fenomeno abbia fallito nelle intenzioni sta nell’incremento della disoccupazione, particolarmente di giovani e ultra cinquantenni e nei licenziamenti di massa a cui ha fatto ricorso il sistema delle imprese già dall’indomani della crisi economica che ha colpito l’occidente sviluppato e industriale.
In questa prospettiva, non v’è dubbio alcuno, che le tesi del professor Ichino si capovolgono e, semmai di riforme fosse necessario parlare, allora sarebbe auspicabile che le tutele fossero estese a tutte le tipologie contrattuali in essere e si desse così un taglio agli abusi più abietti cui abbiamo assistiti inermi nell’ultimo quindicennio.
Ciò non significa che non esistano responsabilità anche dal lato opposto rispetto a quello che Ichino sembra difendere. E’ vero, infatti, che il sindacato di qualunque colore lo si consideri ha sovente abusato delle tutele in questione, assurgendo molto spesso a difensore di pelandroni e perdigiorno, fattisi forti di una sostanziale inamovibilità. Dunque, una revisione dei meccanismi sarebbe alquanto auspicabile e doverosa, poiché non è più sostenibile che assenteisti, malati immaginari, doppio lavoristi e altra fauna simile, molto diffusa particolarmente nel pubblico impiego, continui imperterrita nella propria opera di distruzione della credibilità della classe lavoratrice e metta ogni giorno di più a repentaglio conquiste di civiltà irreversibili.
D’altra parte l’Italia, pur in un contesto di globalizzazione dell’economia, continua a restare il Paese che è, con i suoi vizi e le sue virtù, e pretendere, - peraltro a convenienza, - di trasformarla in una succursale di valori anglosassoni, con una flessibilità esasperata del lavoro pur in presenza di un retroterra non basato sul valore e sulla meritocrazia, ma prioritariamente sulla piaggeria e l’accondiscendenza reverenziale, è culturalmente cosa azzardata e velleitaria. Di questi riferimenti devono tener conto Pietro Ichino, quando sostiene idee liberiste scarsamente fondate, e per altro verso Maurizio Landini, quando rifiuta di meditare sui tanti errori commessi dall’eccesso di garantismo e chiude ad ogni ipotesi di bonifica.
(nella foto, il senatore professor Pietro Ichino)
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