Le bugie sull’art. 18
Mercoledì, 4 gennaio 2012
Dopo aver messo mano a pensioni e tasse, con risultati sotto gli occhi di tutti e su cui abbiamo espresso il nostro scettiscismo, adesso il governo Monti s’appresta a varare un pacchetto di norme indirizzate a favorire la ripresa dell’economia e, per far questo, ha già dichiarato che intende apportare modifiche sostanziali al mercato del lavoro, atte a correggere le gravissime distorsioni generate da anni di precariato selvaggio, oltre che all’istituto del salario e della cassa integrazione.
Al momento, al di là di generiche dichiarazioni d’intento, non è dato sapere su quale terreno s’intenda intervenire, sebbene voci di corridoio su un possibile contratto unico con salario minimo di base da una parte e l’acceso dibattito scatenatosi sulla legge 300/70 dall’altra lascino intravvedere come le settimane a venire preludano a probabili scontri sociali come da tempo non si registrano più nella cronaca sindacale italiana.
Il dibattito, che alla luce delle premesse sembra tutto in salita, è già abbondantemente inficiato da uno scenario assai controverso, sul quale pesano le modalità di interlocuzione preannunciate dal governo – previsti tavoli di interlocuzione separata con le singole parti sociali – e lo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che da più parti si vorrebbe abrogato in nome di una flessibilità e di una propedeuticità alla ripresa dell’occupazione, che, francamente, appare una plateale contraddizione in termini.
Tralasciando ogni commento sulle modalità con le quali il governo intenderebbe condurre il negoziato con le parti sociali, – una volta tanto è probabile abbia ragione il leader della Cisl Raffaele Bonanni, secondo il quale conta il risultato più che il metodo della trattativa, - la questione dell’articolo 18 è divenuto argomento di scontro acceso sotto l’egida di una fantomatica tesi secondo la quale qualora le aziende acquisissero maggiore libertà nel licenziare finirebbero per assumere, in assenza di vincoli, maggiore manodopera.
Il ragionamento non presenta alcun elemento ulteriore di supporto logico a questa affermazione apodittica e, dunque, appare francamente una deliberata idiozia concettuale che, se imposta al tavolo della discussione, rischia non solo di chiudere il confronto sin dalla sua fase iniziale, ma addirittura di aprire una pericolosissima frattura politica anche tra le forze che appoggiano i tecnici di Monti, con conseguenze prevedibili sull’esito della legislatura.
D’altra parte non è certo immaginabile che il PD, a cui, in nome di una gravissima emergenza, è toccato far ingoiare al proprio elettorato le misure del pacchetto “salva Italia”, sia in grado di dare un ulteriore avallo ad una cancellazione dell’articolo 18, - ancorché tale decisione si dimostrasse logicamente sostenibile. Né le elucubrazioni del professore Ichino, fautore di questa bizzarra teoria e parlamentare di questo partito, sembrano riscuotere grande successo all’interno della sua compagine politica. In ogni caso non sembra affatto sensato che in un momento nel quale è avvertita l’inderogabile necessità di garantire l’occupazione e di crearne di nuova si proceda ad uno smantellamento di un presupposto di legge che da sempre costituisce il baluardo contro lo strapotere ricattatorio degli apparati imprenditoriali, che non aspettano che questa eventualità per dar vita ad una ecatombe di lavoratori giudicati scomodi e scarsamente produttivi sol perché non allineati o in contrapposizione con gli inconfessabili desideri capitalistici di aver mano libera nel perpetrare il peggiore sfruttamento del lavoro.
Il sistema imprenditivo italiano ha ampiamente dimostrato che non v’è strumento di flessibilità che tenga rispetto alla propensione allo sfruttamento bieco che gli è connaturato: i contratti atipici attuati a partire dal 2003, in sostituzione di quegli strumenti di flessibilità di ingresso al lavoro costituiti dai contratti di formazione e lavoro, non solo non hanno prodotto occupazione aggiuntiva né professionalizzazione diffusa, ma sono stati utilizzati per rimpiazzare manodopera a tempo indeterminato con vessati d’ogni sorta, con sottopagati e ricattati alla ricerca di un impiego, per taglieggiare professionisti consolidati con la minaccia di licenziamento e di sostituzione con sbarbatelli senza mestiere, ma pronti a vendere anche l’anima per stipendi da terzo mondo.
Assumere, pertanto, che l’abolizione dell’articolo 18 sia il presupposto per generare nuova occupazione e consolidarne la stabilizzazione è mendace e strumentale ed insistere su questo passaggio denota una propensione al crimine sociale imperdonabile. Al contrario, la difesa di una legislazione che inibisce di spadroneggiare a proprio piacimento come agli albori dell’industrializzazione è un diritto-dovere democratico da difendere ad ogni costo, anche con le barricate e le armi se necessario, poiché le categorie deboli della società, quelle lavoratrici, i giovani e le donne, non hanno altro strumento per affermare il diritto costituzionale al lavoro che impedendo agli sfruttatori senza scrupoli, che si aggirano in ogni dove in questo Paese, di mettere a repentaglio la loro sopravvivenza, togliendo loro l’unico strumento con il quale possono effettivamente sentirsi cittadini con dignità.
(nella foto, Susanna Camusso, leader della Cgil, che si batte in difesa dell'art.18)
Al momento, al di là di generiche dichiarazioni d’intento, non è dato sapere su quale terreno s’intenda intervenire, sebbene voci di corridoio su un possibile contratto unico con salario minimo di base da una parte e l’acceso dibattito scatenatosi sulla legge 300/70 dall’altra lascino intravvedere come le settimane a venire preludano a probabili scontri sociali come da tempo non si registrano più nella cronaca sindacale italiana.
Il dibattito, che alla luce delle premesse sembra tutto in salita, è già abbondantemente inficiato da uno scenario assai controverso, sul quale pesano le modalità di interlocuzione preannunciate dal governo – previsti tavoli di interlocuzione separata con le singole parti sociali – e lo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che da più parti si vorrebbe abrogato in nome di una flessibilità e di una propedeuticità alla ripresa dell’occupazione, che, francamente, appare una plateale contraddizione in termini.
Tralasciando ogni commento sulle modalità con le quali il governo intenderebbe condurre il negoziato con le parti sociali, – una volta tanto è probabile abbia ragione il leader della Cisl Raffaele Bonanni, secondo il quale conta il risultato più che il metodo della trattativa, - la questione dell’articolo 18 è divenuto argomento di scontro acceso sotto l’egida di una fantomatica tesi secondo la quale qualora le aziende acquisissero maggiore libertà nel licenziare finirebbero per assumere, in assenza di vincoli, maggiore manodopera.
Il ragionamento non presenta alcun elemento ulteriore di supporto logico a questa affermazione apodittica e, dunque, appare francamente una deliberata idiozia concettuale che, se imposta al tavolo della discussione, rischia non solo di chiudere il confronto sin dalla sua fase iniziale, ma addirittura di aprire una pericolosissima frattura politica anche tra le forze che appoggiano i tecnici di Monti, con conseguenze prevedibili sull’esito della legislatura.
D’altra parte non è certo immaginabile che il PD, a cui, in nome di una gravissima emergenza, è toccato far ingoiare al proprio elettorato le misure del pacchetto “salva Italia”, sia in grado di dare un ulteriore avallo ad una cancellazione dell’articolo 18, - ancorché tale decisione si dimostrasse logicamente sostenibile. Né le elucubrazioni del professore Ichino, fautore di questa bizzarra teoria e parlamentare di questo partito, sembrano riscuotere grande successo all’interno della sua compagine politica. In ogni caso non sembra affatto sensato che in un momento nel quale è avvertita l’inderogabile necessità di garantire l’occupazione e di crearne di nuova si proceda ad uno smantellamento di un presupposto di legge che da sempre costituisce il baluardo contro lo strapotere ricattatorio degli apparati imprenditoriali, che non aspettano che questa eventualità per dar vita ad una ecatombe di lavoratori giudicati scomodi e scarsamente produttivi sol perché non allineati o in contrapposizione con gli inconfessabili desideri capitalistici di aver mano libera nel perpetrare il peggiore sfruttamento del lavoro.
Il sistema imprenditivo italiano ha ampiamente dimostrato che non v’è strumento di flessibilità che tenga rispetto alla propensione allo sfruttamento bieco che gli è connaturato: i contratti atipici attuati a partire dal 2003, in sostituzione di quegli strumenti di flessibilità di ingresso al lavoro costituiti dai contratti di formazione e lavoro, non solo non hanno prodotto occupazione aggiuntiva né professionalizzazione diffusa, ma sono stati utilizzati per rimpiazzare manodopera a tempo indeterminato con vessati d’ogni sorta, con sottopagati e ricattati alla ricerca di un impiego, per taglieggiare professionisti consolidati con la minaccia di licenziamento e di sostituzione con sbarbatelli senza mestiere, ma pronti a vendere anche l’anima per stipendi da terzo mondo.
Assumere, pertanto, che l’abolizione dell’articolo 18 sia il presupposto per generare nuova occupazione e consolidarne la stabilizzazione è mendace e strumentale ed insistere su questo passaggio denota una propensione al crimine sociale imperdonabile. Al contrario, la difesa di una legislazione che inibisce di spadroneggiare a proprio piacimento come agli albori dell’industrializzazione è un diritto-dovere democratico da difendere ad ogni costo, anche con le barricate e le armi se necessario, poiché le categorie deboli della società, quelle lavoratrici, i giovani e le donne, non hanno altro strumento per affermare il diritto costituzionale al lavoro che impedendo agli sfruttatori senza scrupoli, che si aggirano in ogni dove in questo Paese, di mettere a repentaglio la loro sopravvivenza, togliendo loro l’unico strumento con il quale possono effettivamente sentirsi cittadini con dignità.
(nella foto, Susanna Camusso, leader della Cgil, che si batte in difesa dell'art.18)
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