martedì, febbraio 07, 2012

Gli schiavisti del terzo millennio

Martedì, 7 febbraio 2012
Era stato Padoa Schioppa, ministro dell’economia del governo Prodi, a parlare per primo di «bamboccioni» rivolgendosi ai giovani, che già a quel tempo reclamavano una maggiore attenzione da parte delle istituzioni alle loro condizioni di sottoccupati e sfruttati da un sistema economico che con la precarietà del lavoro intendeva garantirsi manodopera a basso costo e libertà di licenziamento. Ciò che con un eufemismo si definiva flessibilità e dava alle imprese l’illusione di poter mantenere una competitività in mercati globali grazie al basso costo della forza lavoro impiegata.
Il noto ex banchiere se ne uscì con quella battuta forse più spinto dal decadimento cerebrale dovuto all’età che da una precisa volontà di offendere una generazione già al tempo in forte sofferenza per una palese mancanza di futuro, una generazione che implorava l’attenzione del governo Prodi ad una questione lavoro che rischiava, com’è puntualmente avvenuto, d’incancrenirsi e di trascinare milioni di persone nel vicolo cieco della disperazione.
La storia ci conferma che quelle preoccupazioni sono divenute realtà e che, proprio grazie all’insipiente ignavia di Prodi e soci, Berlusconi ha avuto la chance di ritornare al potere, illudendo le masse con posti di lavoro per tutti e riforme del mercato del lavoro tese a stemperare gli effetti della famigerata legislazione Biagi.
Com’è altrettanto noto, il governo Berlusconi nulla ha fatto in materia, ma ha pensato bene di circondarsi di ministri, come Sacconi o Brunetta, che non solo hanno sprezzatamente guardato alla questione come marginale, ma non hanno perso occasione per insultare e ricoprire di contumelie i rappresentanti dei movimenti di lotta contro il fenomeno del precariato. Ai «bamboccioni» si sono aggiunti così «scansafatiche» e «perdigiorno», con l’intento di negare e svilire una questione sociale divenuta oramai centrale anche alla luce della congiuntura disastrosa del sistema paese.
Dall’attuale governo Monti e dalle sue dichiarazioni d’esordio, ci si sarebbe attesi un’attenzione privilegiata al fenomeno occupazionale giovanile. Ma, dopo tante dichiarazioni d’intento e buoni propositi, sembra che la musica non sia cambiata granché, visto che, sull’onda dei precedenti capiscuola, anche i ministri Fornero e Cancellieri, rispettivamente al Lavoro e Politiche sociali e agli Interni, delegati alla trattativa con le parti sociali per una riforma del mercato del lavoro, abbiano preferito la scorciatoia dell’ironica minimizzazione del problema, anziché affrontarlo con la doverosa serietà e attenzione, associando le loro infelici dichiarazioni su «mammoni alla ricerca illusoria del posto fisso» alle stupide affermazioni del loro presidente del consiglio sulla «monotonia del posto fisso».
Al di là della palese bassezza morale di queste esternazioni, peraltro precedute dalla sublime idiozia del sottosegretario Michel Martone, secondo il quale chi non consegue una laurea entro il ventottesimo anno è uno «sfigato», - dimenticando le poco edificanti vicende personali di raccomandato di ferro che gli hanno consentito di conseguire importantissimi traguardi, raccomandazioni senza le quali sarebbe oggi in qualche ortomercato a scaricare cassette d’arance, - quel che stupisce è l’accanimento con il quale si continua a stigmatizzare la condizione di milioni di giovani disoccupati, addossando loro colpe che non hanno ed assumendo queste a pretesto dell’incapacità di risolvere ciò che, con il passare del tempo, sta assumendo sempre più la fisionomia di una mina sociale pronta a deflagrare senza preavviso.
Così sul web alle ultime edificanti parole dei ministri in questione s’è scatenata un’ironia amara e velenosa, che rappresenta un allarme da non sottovalutare. «Questo governo ci insulta ogni settimana e dimostra di non conoscere la realtà del Paese», ha scritto qualcuno, seguito dalle sconfortate considerazioni di qualcun altro che non esita a denunciare: «Noi trentenni vogliamo stare vicino a mamma e papà, signora Cancellieri, perché lo Stato non è vicino a noi. Il Welfare State per i giovani non esiste. E un Paese che non difende i suoi figli resta un Paese morto».
Ma il più duro è Alessandro Robecchi, giornalista e scrittore, che mette insieme alcune «coincidenze»: nota che la Fornero, di Torino, ha un posto fisso, a Torino. Come il marito, Mario Deaglio, docente all'università, a Torino. «E come la figliola, associato di Medicina. Dove? All'Università di Torino: bravi, avete indovinato». Poi aggiunge che «la figliola» di posti fissi «ne ha addirittura due». Nella foto (che mostra le lacrime in tv), conclude Robecchi, «mamma Fornero piange pensando ai numerosi sacrifici che l'università di Torino ha dovuto affrontare per la sua famiglia».
Ma quel che sconcerta di queste improvvide sortite è la miseria intellettuale dei suoi autori, incapaci di coniugare cosa significhi per un giovane accettare, ove peraltro esista, un lavoro precario e mal pagato lontano dalla casa natia. Pensa forse Fornero o Cancellieri che con una retribuzione di 700/800 euro sia possibile pagarsi un affitto, mangiare e pagare la bolletta del telefono, della luce e del riscaldamento? Non pensano piuttosto questi illuminatissimi ministri che il supporto della famiglia d’origine è molto spesso la condizione per sopravvivere in un sistema canagliesco che specula in modo riprovevole sul desiderio legittimo di chi, pur di cominciare a rendersi indipendente, è disposto ad accettare anche condizioni umilianti di lavoro? E che fine hanno fatto le tanto decantate asserzioni di Monti e valenti cattedratici a proposito del vistoso gap tra le retribuzioni in Italia e il resto d’Europa? Chi rifiuterebbe mai un serio posto di lavoro pagato adeguatamente a mille chilometri dalla città natale? Chi scrive fece una scelta di questo genere negli anni settanta e lasciò amici ed affetti ad oltre 1600 chilometri dal luogo in cui trovò lavoro, senza per questo sentirsi un eroe o un appartenente ad una specie rara. La stessa scelta fecero in tanti, sulle orme dei loro genitori e dei loro nonni. Ma le condizioni d'allora erano ben diverse: non erano stati inventati gli infami call center, i contratti a progetto, in lavoro in affitto con retribuzione da fame e gli stage formativi, sebbene anche quelle scelte implicassero sacrifici e rinunce.
Abbia la dignità d’ammettere allora il professor Monti e il suo staff che, nel segno della continuità più coerente, il suo governo ha l’obiettivo di completare l’opera di macelleria sociale iniziato da Berlusconi e Sacconi, da realizzarsi con la cancellazione di quell’articolo 18 dello Statuto, citato oggi a panacea di ogni distorsione del mercato del lavoro e d’ostacolo alla ripresa della crescita.
Dei giovani, del loro affrancamento dalla schiavitù dell’era moderna, rappresentata dalla precarietà delle condizioni di lavoro e di vita, al professore non importa nulla. A lui importa solo offrire su un piatto d’argento agli interessi di un capitalismo onnivoro e spietato le condizioni per sentirsi libero di disporre di carne da macello a proprio piacimento e di poter mettere in poratica di uno dei più potenti strumenti di ricatto al proprio strapotere da sempre esistente: o accetti le condizioni che t’impongo o ti condanno all’emarginazione sociale, con l’espulsione da quel sistema dal quale trai i sussidi per la tua sopravvivenza.
Complimenti, professore, nessuno in un sedicente sistema democratico era riuscito a far di meglio.

(nella foto, il "grande" Michel Martone, sottosegretario al Lavoro, le cui credenziali non lasciano dubbi su quali metodi ricorrere per combattere la sfiga)

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