Le scemenze di zio Mario
Giovedì, 2 febbraio 2012
Che l’Italia fosse il paese degli emulatori, di coloro che s’innamorano di comportamenti border line o del trash culturale d’oltre oceano, era cosa risaputa. Chi non ricorda le macchiette di Alberto Sordi nelle vesti dell’americanaccio con tanto di chopper e bomber a scorrazzare per le vie di Roma? E poi al giorno d’oggi abbiamo Marchionne, l’italo-canadese con il cipiglio yankee, che vede la fabbrica nostrana come la fotocopia di Detroit o di Chicago e vorrebbe imporre con l’approccio del proprietario di piantagioni di cotone dell'Alabama chi e come si lavora nel suo latifondo. E si è ancora fortunati se non pretende che i "suoi" operai cantino gospel mentre avvitano bulloni o spingono un carrellino con utensili vari.
L’emulazione è una malattia altamente contagiosa, una patologia virale alla quale pochi sfuggono, specialmente quando, per effetto del successo con il quale hanno scalato le gerarchie sociali, perdono progressivamente l’aderenza con la realtà effettiva e cominciano a vedere il mondo con una sorta di grandangolare spinto, che ampia la visuale ma distorce vistosamente le dimensioni delle cose. Questa patologia in qualche caso genera gli effetti di una sbornia, che esalta l’umore e induce a proferire frasi sconnesse e affermazioni senza senso, lungi dall’avere contezza delle assurdità che si sciorinano.
E che la patologia non risparmi nessuno e colpisca a caso ce lo conferma anche la recente intervista a Matrix del professore Monti, capo del governo tecnico che guida il Belpaese, alle prese con il tentativo di traghettare l’Italia fuori dalle tenebre della crisi più dura dal dopoguerra ad oggi.
Sì, quel professor Monti a cui gli ossimori e il tempismo debbono sembrare esibizione di scienza e non, piuttosto, una manifestazione di confusione e di pochezza becera distante anni luce dall’aplomb di un ex rettore di università – per inciso, tra le più prestigiose in Europa – con un trascorso da commissario alla Comunità europea. Peccato che l’illustre professore al pari di quanti l’hanno preceduto sembri non rendersi conto che l’Italia non è l’America, quantunque abbia un suo far-west istituzionale, e che parecchie ricette di quella realtà non sia affatto potabili dalle nostre parti anche in presenza di una globalizzazione dei mercati. E che alcune ricette non siano applicabile nulla ha a che vedere con le funzioni digestive dei commensali, ma impatta con usi, costumi, cultura e valori millenari che è velleitario pretendere di sradicare senza un’adeguata e lunga liturgia educativa delle componenti sociali cui s’intende somministrare il new deal: imporre il consumo di carne di porco agli Arabi, ancorché motivando la cosa con esigenze di natura alimentare, è impresa assai ardua. Così parlare di mobilità sfrenata in un paese che ha nella continuità e nella fidelizzazione del posto di lavoro la sua essenza è, per certi versi, come bestemmiare in chiesa. Ma forse al rigido professore con il gusto per l'humor d'oltre Manica queste considerazioni sfuggono. E allora, facendosi usbergo di sottile ironia, si cimenta nel tentativo impraticabile di raddrizzare le gambe ai cani, asserendo in un paese che ha sempre puntato al posto fisso che ci si deve abituare alla mobilità del lavoro, sottovalutando che con i contratti da co.co.pro., a progetto, interinali, staff leasing, job sharing, stage gratuiti e altre ridicole diavolerie c'è gente che entra ed esce dalle aziende come si trattasse della ritirata d'un bar.
Ma si sa, la politica - alla quale il professore si ritiene orgogliosamente estraneo - non ha mai brillato per coerenza e onestà intellettuale e il professore, che si tiene nello staff un poveraccio come tal Michel Martone, non fa eccezione: da un lato blandisce i giovani con la promessa di posti di lavoro, dall'altro toglie loro ogni speranza innalzando l'età pensionabile; da un lato dichiara di voler combattere il precariato, dall'altro fa accattonaggio intellettuale sposando le tesi per l'abolizione dell'art. 18 del suo collega Ichino, che nell'elaborare la sua grottesca teoria oltre alla logica s'è bevuto anche il cervello. Insomma, un premier nel segno della continuità con le fesserie sui precari proferite dal mitico Brunetta e le stupidaggini dell'Unto del Signore di Arcore, che suggeriva di fidanzarsi con suo figlio per aver fortuna nella vita.
Secondo il professore, dunque, ci si deve abituare al cambiamento di posto di lavoro e poi «che monotonia quel posto fisso»!, una frase che, ancorché inopportuna, a dir poco, in un paese che registra quasi il 9% di disoccupazione totale, – dato falsato al ribasso, visto che non tiene conto di una quota stimata del 4-5% rappresentata dagli scoraggiati che hanno rinunciato a cercare un lavoro che non c'è, - che sale al 32% se riferita ai giovani entro i 30 anni in cerca d’occupazione e che interessa il 54% dei ragazzi del Sud, che suona in netta contraddizione sia con i dichiarati intenti del governo di riformare il mercato del lavoro per generare nuove opportunità, sia con i drammatici dati ISTAT sull’inoccupazione, diffusi qualche ora prima di quell’intervista.
Ma ciò che preoccupa di quella che non può ritenersi solo una semplice boutade del presidente del consiglio è la morale che deriva dal suo tweet: lavoratori-cittadini considerati alla stregua di greggi avvezze ad una transumanza senza sosta e pazienti come pecore disposte a subire ogni decisione del pecoraio, dalla tosatura alla spremitura senza mai accennare ad un moto di ribellione.
Non è certo necessario dare un’occhiata al web per sapere cosa pensano gli Italiani di tale corbelleria, che rappresenta un vero vilipendio alla loro dignità di aspiranti cittadini a pieno titolo. Italiani tutelati da quella carta straccia costituzionale che recita tronfia il diritto al lavoro di tutti, ma che nei fatti viene negato in omaggio alla tutela degli interessi famelici di gruppi finanziari, congreghe industriali, interessi di banche e assicurazioni e loro manager inclusi, che non esitano a calpestare ogni dovere a contribuire in modo fattivo e tangibile alla creazione di posti di lavoro pur di massimizzare i loro profitti.
La crisi che ha investito il paese e l’intera economia mondiale deriva dalle folli speculazioni messe in atto da una finanza senza scrupoli, rappresentata da banche e istituzioni finanziarie, quei santuari criminali primi ad esser stati aiutati con denaro pubblico e nei fatti esentati dal riparto delle misure varate per fronteggiare quella crisi. Scaricare sulla gente comune l’onere di quelle conseguenze, chiedendo di tirare la cinghia, adattarsi alla transumanza, subire il precariato lavorativo e sociale, renderla più povera e indifesa di fronte alle violenze di un capitalismo di rapina, suona francamente osceno. Così come oscena appare la protesta di coloro che sentono l’offesa da quest’andazzo e non assumono iniziative più incisive per far capire che non è più tollerabile continuare a vivere sotto il tallone di una classe politica manifestamente ladra e sprezzante delle tragedie sociali che si consumano sotto i suoi occhi. Non è più possibile assistere agli show di un drappello d’infami che rubano i soldi pubblici del discutibile finanziamento pubblico dei partiti per arricchirsi, che profittano della propria posizione di potere per lucrare su compravendite immobiliari, per esimersi da processi in cui sono imputati di gravissimi reati, che fingono di ridursi le laute prebende da lenoni, che per primi evadono l’obbligo di regole fiscali e civilistiche ricorrendo all’impiego di portaborse precari e sottopagati, e così via dicendo.
E davanti a questo scempio etico, che allontana i cittadini dalla politica, che nessuno si permetta con un termine in voga di parlare di “antipolitica”, teorizzando che questa conduce all’autoritarismo ed alla morte della democrazia. In una situazione come quella che viviamo la democrazia è passata a miglior vita ormai da tempo ed il richiamo a mantener la calma e a continuare la lotta civile per il confronto è solo un mistificatorio espediente per reggere in vita le divisioni sociali che si sono determinate nel tempo e il consolidamento del potere di un’oligarchia tiranna.
E allora, se lo “zio Mario” vuol smentire quanto comincia a radicarsi nella percezione di chi aveva salutato il suo esordio come un auspicato cambiamento di registro, smetta di parlare di salutare mobilità, che peraltro nessuno osteggerebbe in presenza di vacche pasciute, ma si dedichi con maggior vigore e credibilità di quanto non abbia fino ad ora fatto a smantellare le posizioni di privilegio di certe corporazioni, vere ostacolo al rilancio dell'economia, e al risanamento di un mercato del lavoro oramai in ginocchio e infettato da un precariato putrido, e di meccanismi di esercizio della politica da sud-est asiatico. Il paese, quello che si sporca le mani e che dice di voler salvare, se si dedicherà a fare ciò che ha promesso, senza infingimenti ed equivoci, gliene sarà riconoscente e gli riconoscerà senza riserve aver adempiuto al suo mandato con la serietà e l'onestà che da lui ci si attendeva.
L’emulazione è una malattia altamente contagiosa, una patologia virale alla quale pochi sfuggono, specialmente quando, per effetto del successo con il quale hanno scalato le gerarchie sociali, perdono progressivamente l’aderenza con la realtà effettiva e cominciano a vedere il mondo con una sorta di grandangolare spinto, che ampia la visuale ma distorce vistosamente le dimensioni delle cose. Questa patologia in qualche caso genera gli effetti di una sbornia, che esalta l’umore e induce a proferire frasi sconnesse e affermazioni senza senso, lungi dall’avere contezza delle assurdità che si sciorinano.
E che la patologia non risparmi nessuno e colpisca a caso ce lo conferma anche la recente intervista a Matrix del professore Monti, capo del governo tecnico che guida il Belpaese, alle prese con il tentativo di traghettare l’Italia fuori dalle tenebre della crisi più dura dal dopoguerra ad oggi.
Sì, quel professor Monti a cui gli ossimori e il tempismo debbono sembrare esibizione di scienza e non, piuttosto, una manifestazione di confusione e di pochezza becera distante anni luce dall’aplomb di un ex rettore di università – per inciso, tra le più prestigiose in Europa – con un trascorso da commissario alla Comunità europea. Peccato che l’illustre professore al pari di quanti l’hanno preceduto sembri non rendersi conto che l’Italia non è l’America, quantunque abbia un suo far-west istituzionale, e che parecchie ricette di quella realtà non sia affatto potabili dalle nostre parti anche in presenza di una globalizzazione dei mercati. E che alcune ricette non siano applicabile nulla ha a che vedere con le funzioni digestive dei commensali, ma impatta con usi, costumi, cultura e valori millenari che è velleitario pretendere di sradicare senza un’adeguata e lunga liturgia educativa delle componenti sociali cui s’intende somministrare il new deal: imporre il consumo di carne di porco agli Arabi, ancorché motivando la cosa con esigenze di natura alimentare, è impresa assai ardua. Così parlare di mobilità sfrenata in un paese che ha nella continuità e nella fidelizzazione del posto di lavoro la sua essenza è, per certi versi, come bestemmiare in chiesa. Ma forse al rigido professore con il gusto per l'humor d'oltre Manica queste considerazioni sfuggono. E allora, facendosi usbergo di sottile ironia, si cimenta nel tentativo impraticabile di raddrizzare le gambe ai cani, asserendo in un paese che ha sempre puntato al posto fisso che ci si deve abituare alla mobilità del lavoro, sottovalutando che con i contratti da co.co.pro., a progetto, interinali, staff leasing, job sharing, stage gratuiti e altre ridicole diavolerie c'è gente che entra ed esce dalle aziende come si trattasse della ritirata d'un bar.
Ma si sa, la politica - alla quale il professore si ritiene orgogliosamente estraneo - non ha mai brillato per coerenza e onestà intellettuale e il professore, che si tiene nello staff un poveraccio come tal Michel Martone, non fa eccezione: da un lato blandisce i giovani con la promessa di posti di lavoro, dall'altro toglie loro ogni speranza innalzando l'età pensionabile; da un lato dichiara di voler combattere il precariato, dall'altro fa accattonaggio intellettuale sposando le tesi per l'abolizione dell'art. 18 del suo collega Ichino, che nell'elaborare la sua grottesca teoria oltre alla logica s'è bevuto anche il cervello. Insomma, un premier nel segno della continuità con le fesserie sui precari proferite dal mitico Brunetta e le stupidaggini dell'Unto del Signore di Arcore, che suggeriva di fidanzarsi con suo figlio per aver fortuna nella vita.
Secondo il professore, dunque, ci si deve abituare al cambiamento di posto di lavoro e poi «che monotonia quel posto fisso»!, una frase che, ancorché inopportuna, a dir poco, in un paese che registra quasi il 9% di disoccupazione totale, – dato falsato al ribasso, visto che non tiene conto di una quota stimata del 4-5% rappresentata dagli scoraggiati che hanno rinunciato a cercare un lavoro che non c'è, - che sale al 32% se riferita ai giovani entro i 30 anni in cerca d’occupazione e che interessa il 54% dei ragazzi del Sud, che suona in netta contraddizione sia con i dichiarati intenti del governo di riformare il mercato del lavoro per generare nuove opportunità, sia con i drammatici dati ISTAT sull’inoccupazione, diffusi qualche ora prima di quell’intervista.
Ma ciò che preoccupa di quella che non può ritenersi solo una semplice boutade del presidente del consiglio è la morale che deriva dal suo tweet: lavoratori-cittadini considerati alla stregua di greggi avvezze ad una transumanza senza sosta e pazienti come pecore disposte a subire ogni decisione del pecoraio, dalla tosatura alla spremitura senza mai accennare ad un moto di ribellione.
Non è certo necessario dare un’occhiata al web per sapere cosa pensano gli Italiani di tale corbelleria, che rappresenta un vero vilipendio alla loro dignità di aspiranti cittadini a pieno titolo. Italiani tutelati da quella carta straccia costituzionale che recita tronfia il diritto al lavoro di tutti, ma che nei fatti viene negato in omaggio alla tutela degli interessi famelici di gruppi finanziari, congreghe industriali, interessi di banche e assicurazioni e loro manager inclusi, che non esitano a calpestare ogni dovere a contribuire in modo fattivo e tangibile alla creazione di posti di lavoro pur di massimizzare i loro profitti.
La crisi che ha investito il paese e l’intera economia mondiale deriva dalle folli speculazioni messe in atto da una finanza senza scrupoli, rappresentata da banche e istituzioni finanziarie, quei santuari criminali primi ad esser stati aiutati con denaro pubblico e nei fatti esentati dal riparto delle misure varate per fronteggiare quella crisi. Scaricare sulla gente comune l’onere di quelle conseguenze, chiedendo di tirare la cinghia, adattarsi alla transumanza, subire il precariato lavorativo e sociale, renderla più povera e indifesa di fronte alle violenze di un capitalismo di rapina, suona francamente osceno. Così come oscena appare la protesta di coloro che sentono l’offesa da quest’andazzo e non assumono iniziative più incisive per far capire che non è più tollerabile continuare a vivere sotto il tallone di una classe politica manifestamente ladra e sprezzante delle tragedie sociali che si consumano sotto i suoi occhi. Non è più possibile assistere agli show di un drappello d’infami che rubano i soldi pubblici del discutibile finanziamento pubblico dei partiti per arricchirsi, che profittano della propria posizione di potere per lucrare su compravendite immobiliari, per esimersi da processi in cui sono imputati di gravissimi reati, che fingono di ridursi le laute prebende da lenoni, che per primi evadono l’obbligo di regole fiscali e civilistiche ricorrendo all’impiego di portaborse precari e sottopagati, e così via dicendo.
E davanti a questo scempio etico, che allontana i cittadini dalla politica, che nessuno si permetta con un termine in voga di parlare di “antipolitica”, teorizzando che questa conduce all’autoritarismo ed alla morte della democrazia. In una situazione come quella che viviamo la democrazia è passata a miglior vita ormai da tempo ed il richiamo a mantener la calma e a continuare la lotta civile per il confronto è solo un mistificatorio espediente per reggere in vita le divisioni sociali che si sono determinate nel tempo e il consolidamento del potere di un’oligarchia tiranna.
E allora, se lo “zio Mario” vuol smentire quanto comincia a radicarsi nella percezione di chi aveva salutato il suo esordio come un auspicato cambiamento di registro, smetta di parlare di salutare mobilità, che peraltro nessuno osteggerebbe in presenza di vacche pasciute, ma si dedichi con maggior vigore e credibilità di quanto non abbia fino ad ora fatto a smantellare le posizioni di privilegio di certe corporazioni, vere ostacolo al rilancio dell'economia, e al risanamento di un mercato del lavoro oramai in ginocchio e infettato da un precariato putrido, e di meccanismi di esercizio della politica da sud-est asiatico. Il paese, quello che si sporca le mani e che dice di voler salvare, se si dedicherà a fare ciò che ha promesso, senza infingimenti ed equivoci, gliene sarà riconoscente e gli riconoscerà senza riserve aver adempiuto al suo mandato con la serietà e l'onestà che da lui ci si attendeva.
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