Grecia, colonia miserabile d’Europa
Martedì, 14 febbraio 2012
La Grecia è salva. Forse non ancora.
Questo il dilemma che ancora grava su dodici milioni di anime, ormai ridotte allo stremo da ben cinque provvedimenti di risanamento dell’economia varati in poco più di un anno dai governi succedutisi al potere, che non hanno ancora trovato la quadratura per scongiurare l’ipotesi di default dell’intera penisola Ellenica.
E la Grecia non è che la prima vittima sacrificale sull’altare degli egoismi franco-tedeschi, che schiacciano l’Europa e allontanano sempre più l’ipotesi di un’unione anche politica del continente. Già, perché dopo la durissima lezione imposta alla Grecia da chi s’è autoproclamato egemone del destino dell’Europa e dell’euro, la fiducia dei cittadini comunitari nell’istituzione continentale è sempre più flebile. Chi sarà la prossima vittima, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna o l’Italia?
E’ vero, la Grecia viene fuori da un lunghissimo periodo di scialacquamento economico, di una gestione politica fatta di biechi clientelismi e di sperpero di denaro pubblico. Basti pensare che su una popolazione di 12 milioni di abitanti un terzo dei cittadini trova impiego nella pubblica amministrazione, generando un costo per il pubblico bilancio spaventoso e senza giustificazione alcuna. In più, il paese è quasi totalmente privo di una propria capacità industriale, con un’agricoltura sottosviluppata, con un economia alla mercé delle importazioni massicce a prezzi insostenibili per i modesti redditi dei suoi abitanti. C’è infine un sistema fiscale terzomondista, figlio della dittatura dei colonnelli, che ha dissanguato poveri, classe operaia e ceto medio, lasciando del tutto indenne il ristretto club dei grandi capitalisti armatori, ai quali è stata data la possibilità di costituire ingenti depositi all’estero e di sottrarre quote rilevanti di ricchezza alla nazione.
La sua posizione geografica, inoltre, la rende un fianco debole della sicurezza europea, costringendola ad enormi spese militari per armamenti di difesa, che hanno raggiunto la folle quota del 7% del PIL: neanche gli Stati Uniti, gendarmi del mondo, hanno un rapporto simile nel loro bilancio statale. Se si pensa che quel fiume di denaro finisce poi per ingrassare gli armieri tedeschi e francesi, ben si comprende come l’operazione risanamento dei conti, imposta e orchestrata con condizioni capestro proprio da Sarkozy e da Merkel, si rappresenta come una prova di squallida protervia e d’arroganza senza precedenti: da un lato l’imposizione di un taglio draconiano al bilancio, con riduzioni al numero dei dipendenti pubblici, falcidia dei salari e delle pensioni, blocco di ogni spesa pubblica con l’obiettivo di contenere il deficit al 120% del PIL entro il 2020 – quote di riduzione del 20% all’anno, - dall’altro lato l’imposizione di onorare i contratti per le forniture militari nella misura degli impegni assunti, se non addirittura di incrementare gli acquisti.
Il risultato è che la Grecia ha già messo in saldo non solo alcuni dei gioielli costituenti il patrimonio dello stato, come il porto del Pireo venduto ai Cinesi, ma dovrà inventarsi chissà cosa per poter onorare l’impegno di ridurre il debito nei termini concordati e ottenere quegli aiuti pagati a prezzo di sangue – 330 miliardi di euro complessivamente – per mantenere in vita la baracca. E come se non bastasse alle prossime elezioni, previste per l’aprile di quest’anno, la Germania ha imposto che i candidati al parlamento greco sottoscrivano, per poter essere eletti, un documento con il quale s’impegnano a sostenere il varo della legislazione necessaria al rispetto degli impegni assunti con i creditori.
Parlare d’Europa in queste condizioni e di solidarietà sinceramente fa sorridere, nella migliore delle ipotesi, non fosse per il senso di vomito che genera un atteggiamento che con le sue frustranti ingerenze suona smaccatamente di bieco colonialismo.
C’è da chiedersi perché la Grecia abbia accettato di sottostare a queste condizioni capestro, rinunciando nei fatti alla propria sovranità e mortificandosi senza appello nella dignità di popolo libero. Peraltro senza alcuna speranza di potersi risollevare con le condizioni che le sono state imposte. Come ha acutamente rilevato qualche economista svincolato dai rigidi schemi dell’opportunismo degli interessi dei paesi europei in questo momento forti, sarebbe stato meglio per la Grecia dichiarare il default e trascinare nel fango e nella disperazione anche coloro che oggi si fingono falsi salvatori della sua economia e le impongono sacrifici insostenibili: un paese con le condizioni che gli sono state dettate sta solo prolungando la sua agonia, dando la possibilità alle iene mascherate da soccorritori di sterilizzare gli effetti del fallimento certo che verrà. Un default e un ritorno alla dracma avrebbe permesso alla Grecia di saldare il conto definitivamente e di tentare di risalire con fatica la china senza le pastoie e le ipoteche messe in atto. Il fallimento non avrebbe che liberato i Greci dalle loro catene, dalla palla al piede con la quale hanno limitato la propria libertà di manovra, senza per questo subire un effetto peggiore della macelleria sociale ormai in atto.
E se queste sono le premesse per la realizzazione di un’Europa unita anche politicamente, in cui il comando è relegato nelle mani del più forte, allora non c’è speranza, non v’è spazio per sognare maggiore libertà e maggiore benessere da un’integrazione, di fatto, solo sulla carta.
Questo il dilemma che ancora grava su dodici milioni di anime, ormai ridotte allo stremo da ben cinque provvedimenti di risanamento dell’economia varati in poco più di un anno dai governi succedutisi al potere, che non hanno ancora trovato la quadratura per scongiurare l’ipotesi di default dell’intera penisola Ellenica.
E la Grecia non è che la prima vittima sacrificale sull’altare degli egoismi franco-tedeschi, che schiacciano l’Europa e allontanano sempre più l’ipotesi di un’unione anche politica del continente. Già, perché dopo la durissima lezione imposta alla Grecia da chi s’è autoproclamato egemone del destino dell’Europa e dell’euro, la fiducia dei cittadini comunitari nell’istituzione continentale è sempre più flebile. Chi sarà la prossima vittima, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna o l’Italia?
E’ vero, la Grecia viene fuori da un lunghissimo periodo di scialacquamento economico, di una gestione politica fatta di biechi clientelismi e di sperpero di denaro pubblico. Basti pensare che su una popolazione di 12 milioni di abitanti un terzo dei cittadini trova impiego nella pubblica amministrazione, generando un costo per il pubblico bilancio spaventoso e senza giustificazione alcuna. In più, il paese è quasi totalmente privo di una propria capacità industriale, con un’agricoltura sottosviluppata, con un economia alla mercé delle importazioni massicce a prezzi insostenibili per i modesti redditi dei suoi abitanti. C’è infine un sistema fiscale terzomondista, figlio della dittatura dei colonnelli, che ha dissanguato poveri, classe operaia e ceto medio, lasciando del tutto indenne il ristretto club dei grandi capitalisti armatori, ai quali è stata data la possibilità di costituire ingenti depositi all’estero e di sottrarre quote rilevanti di ricchezza alla nazione.
La sua posizione geografica, inoltre, la rende un fianco debole della sicurezza europea, costringendola ad enormi spese militari per armamenti di difesa, che hanno raggiunto la folle quota del 7% del PIL: neanche gli Stati Uniti, gendarmi del mondo, hanno un rapporto simile nel loro bilancio statale. Se si pensa che quel fiume di denaro finisce poi per ingrassare gli armieri tedeschi e francesi, ben si comprende come l’operazione risanamento dei conti, imposta e orchestrata con condizioni capestro proprio da Sarkozy e da Merkel, si rappresenta come una prova di squallida protervia e d’arroganza senza precedenti: da un lato l’imposizione di un taglio draconiano al bilancio, con riduzioni al numero dei dipendenti pubblici, falcidia dei salari e delle pensioni, blocco di ogni spesa pubblica con l’obiettivo di contenere il deficit al 120% del PIL entro il 2020 – quote di riduzione del 20% all’anno, - dall’altro lato l’imposizione di onorare i contratti per le forniture militari nella misura degli impegni assunti, se non addirittura di incrementare gli acquisti.
Il risultato è che la Grecia ha già messo in saldo non solo alcuni dei gioielli costituenti il patrimonio dello stato, come il porto del Pireo venduto ai Cinesi, ma dovrà inventarsi chissà cosa per poter onorare l’impegno di ridurre il debito nei termini concordati e ottenere quegli aiuti pagati a prezzo di sangue – 330 miliardi di euro complessivamente – per mantenere in vita la baracca. E come se non bastasse alle prossime elezioni, previste per l’aprile di quest’anno, la Germania ha imposto che i candidati al parlamento greco sottoscrivano, per poter essere eletti, un documento con il quale s’impegnano a sostenere il varo della legislazione necessaria al rispetto degli impegni assunti con i creditori.
Parlare d’Europa in queste condizioni e di solidarietà sinceramente fa sorridere, nella migliore delle ipotesi, non fosse per il senso di vomito che genera un atteggiamento che con le sue frustranti ingerenze suona smaccatamente di bieco colonialismo.
C’è da chiedersi perché la Grecia abbia accettato di sottostare a queste condizioni capestro, rinunciando nei fatti alla propria sovranità e mortificandosi senza appello nella dignità di popolo libero. Peraltro senza alcuna speranza di potersi risollevare con le condizioni che le sono state imposte. Come ha acutamente rilevato qualche economista svincolato dai rigidi schemi dell’opportunismo degli interessi dei paesi europei in questo momento forti, sarebbe stato meglio per la Grecia dichiarare il default e trascinare nel fango e nella disperazione anche coloro che oggi si fingono falsi salvatori della sua economia e le impongono sacrifici insostenibili: un paese con le condizioni che gli sono state dettate sta solo prolungando la sua agonia, dando la possibilità alle iene mascherate da soccorritori di sterilizzare gli effetti del fallimento certo che verrà. Un default e un ritorno alla dracma avrebbe permesso alla Grecia di saldare il conto definitivamente e di tentare di risalire con fatica la china senza le pastoie e le ipoteche messe in atto. Il fallimento non avrebbe che liberato i Greci dalle loro catene, dalla palla al piede con la quale hanno limitato la propria libertà di manovra, senza per questo subire un effetto peggiore della macelleria sociale ormai in atto.
E se queste sono le premesse per la realizzazione di un’Europa unita anche politicamente, in cui il comando è relegato nelle mani del più forte, allora non c’è speranza, non v’è spazio per sognare maggiore libertà e maggiore benessere da un’integrazione, di fatto, solo sulla carta.
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page