Il compagno sinistro
Martedì, 21 febbraio 2012
In quel discorso al Lingotto di Torino del 27 giugno 2007 aveva acceso gli animi, infarcendo il suo programma di tanti “si può fare”, mutuati dagli ormai mitici “yes, we can” di Barack Obama. Con lui, benedetto da Piero Fassino e Massimo D’Alema, i DS, divenuti PD qualche mese dopo con la sua elezione alla segreteria del partito, sembrava dovessero ritrovare il rilancio di consensi offuscato dalle traversie che avevano coinvolto la vecchia Quercia e l’ex PCI.
Ma al di là delle tante dichiarazioni programmatiche e di buona volontà, il PD di Veltroni ha continuato ad avere vita travagliata, contrassegnata dallo scontro tra un’ala sinistra, tradizionalista e lealista dei principi operaisti fondativi, e un’ala borghese, rappresentata dagli ex Ulivo di Dario Franceschini e dalla Margherita di Francesco Rutelli, che in termini di esperienza e provenienza politica nulla avevano in comune con la forte radicazione ideologica della Quercia e dei DS.
Questo travaglio ebbe ripercussioni letali anche a livello di quel governo capeggiato da Romano Prodi, finito nel tritacarne degli scontri tra il PRC di Fausto Bertinotti, il PdCI di Oliviero Diliberto, i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio, da una parte, e le frange borghesi di Francesco Rutelli e gli ex DC di sinistra come Clemente Mastella (UDEUR), e dello stesso Veltroni.
Era naturalmente prevedibile che, una coalizione in cui si sarebbe dovuta riconoscere una sorta di pari dignità a tantissimi ex Democristiani insieme con i compagni di Bertinotti, difficilmente avrebbe tenuto; e così infatti accadde, con un conseguente ricorso alle urne, il cui responso punì, forse oltremisura, quell’armata Brancaleone e decretò non solo un clamoroso ridimensionamento del PD, ostinatosi a correre da solo, ma anche la scomparsa dalla scena politica nazionale della sinistra radicale.
Da allora per Walter Veltroni, divenuto per tutti “Ualter” e che nel frattempo ha abbandonato la poltrona di segretario del PD, è stato un crescendo di trasformismi continui, di assunzione di posizioni revisioniste che poco hanno a che vedere con la linea progressista del suo partito, quantunque nei movimenti verso posizioni centriste dell’intera compagine ex comunista difficilmente oggi potrebbe riconoscersi un’ortodossia e la spiccata matrice operaista degli anni ’80-‘90.
Oggi Veltroni, che non può certo definirsi “un compagno che sbaglia”, ma “un compagno che ha dismesso l’elmetto e ha indossato un gessato alla moda”, è uno dei più accaniti sostenitori della necessità di rivedere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per il rilancio dell’occupazione, con ciò sposando le tesi suggestive di Pietro Ichino, reclutato a tempo pieno nel PD, nonostante sia ben lungi qualunque nesso tra libertà di licenziamento e incremento occupazionale.
D’altra parte che Veltroni non sia mai stato un comunista è cosa risaputa. Pur avendo militato per anni nel PCI, ed essere anche stato eletto a consigliere comunale di Roma nelle sue liste, in più di un'occasione ha ammesso pubblicamente di non essere mai stato veramente comunista: una delle sue dichiarazioni più famose infatti dice: «Si poteva stare nel Pci senza essere comunisti. Era possibile, è stato così» e in un intervista a Gianni Riotta per il quotidiano La Stampa dichiarò: «Comunismo e libertà sono stati incompatibili. Questa è la grande tragedia dopo Auschwitz».
Secondo il libro di Michele De Lucia, Il Baratto, Walter Veltroni, come responsabile Comunicazioni del PCI e seguendo la linea del partito all'epoca, avrebbe aiutato a ratificare nel 1985 il decreto di Craxi che permetteva a Silvio Berlusconi di aggirare la decisione di tre pretori di procedere al sequestro nelle loro regioni di competenza del sistema che permetteva la trasmissione simultanea nel Paese di tre canali televisivi. Questo in cambio, sempre secondo l’autore del libro, del controllo di Rai 3 da parte del PCI.
La linea politica, voluta e sostenuta da Veltroni, di dialogo con le forze di maggioranza anche su temi come la giustizia, è stata spesso percepita all'interno della sinistra, e del partito stesso, come troppo debole: in particolare il movimento dei girotondini ha criticato la linea politica perseguita da Veltroni, accusata di essere eccessivamente accondiscendente e permissiva con Berlusconi. A tali critiche si sono associate voci autorevoli della sinistra, come Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Pancho Pardi e Umberto Eco
Anche Giulietto Chiesa, che dalle colonne de il Manifesto aveva esortato la sinistra massimalista ed antagonista a coalizzarsi contro il Partito Democratico ed aveva poi fondato all'uopo il partito politico denominato Per il Bene Comune, commentò l'esito delle elezioni evocando la fine della democrazia in Italia ed attribuendone la principale responsabilità a Veltroni ed ai banchieri italiani, che ne avrebbero sostenuto la campagna elettorale. Infine, in un'intervista al programma televisivo Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio, nel marzo 2009, a un anno dal voto, Prodi ha attribuito parte della responsabilità della caduta del suo governo anche alla decisione di Veltroni di sganciarsi dalle ali estreme della coalizione dell'Unione. Secondo Prodi quella decisione causò infatti un'accelerazione della crisi in corso.
In buona sostanza, c’è da chiedersi alla luce di questi trascorsi e dei disastrosi risultati determinatosi con la regia del “compagno Ualter” cosa ci faccia un personaggio con questo taglio all’interno del partito più significativo della sinistra e d'opposizione. L’assunzione delle sue posizioni ondivaghe e spesso di reazionario revisionismo ha condotto ad una pesante caduta della credibilità dell’ex PCI di porsi come forza moderna e alternativa alla politica delle destre tradizionali. Provvedimenti auspicati di riforma sociale e del welfare, di progresso democratico e di sviluppo sostenibile sono stati nei fatti costantemente osteggiati più che dalle forze politiche in carica dall’assoluta mancanza di determinazione delle forze vessillo di una democrazia di base e maggiormente diffusa. La stessa legge elettorale, il famigerato Porcellum voluto da Forza Italia e Lega, che rappresenta il vulnus più odioso al principio di democrazia rappresentativa, s’è potuto realizzare grazie all’avallo del PD e delle componenti più reazionarie presenti al suo interno. Analogo comportamento ebbero quelle forze, questa volta sostenute persino dal “dopiopettista” D’Alema, quando fu il momento di mettere mano con una controriforma all’iniquo sistema pensionistico inventato da Maroni con la regia di Tremonti.
Oggi, la lotta in corso per la difesa dell’articolo 18 e per la salvaguardia degli ammortizzatori sociali rischia di subire una sconfitta proprio per l’avallo delle stesse componenti al disegno reazionario del governo tecnico in carica.
Alla luce di queste vicende, che certo non fanno onore né al decantato senso di responsabilità del PD né alla sua coerenza con i principi di partito operaio, il rischio di un imborghesimento definitivo della sinistra italiana è assai forte, con la conseguenza che, mentre all’indomani del fallimento del governo Prodi si assistette ad una migrazione di voti di protesta dalla sinistra verso la Lega, oggi incombe massiccio l’astensionismo o la frammentazione dei consensi verso la miriade di liste civiche in fase di formazione, il cui peso specifico è pressoché nullo.
E allora è urgente che il PD e la sinistra tutta, in attesa della nuova tornata elettorale prevista per la primavera del 2013, inizi sin da ora ad attrezzarsi per fare chiarezza al suo interno e ristabilire le fila di un’unitarietà perduta, cominciando, per esempio, a far pulizia di quanti con spudorataggine si dichiarano militanti di sinistra, ma in realtà sono solo sinistri militanti.
Ma al di là delle tante dichiarazioni programmatiche e di buona volontà, il PD di Veltroni ha continuato ad avere vita travagliata, contrassegnata dallo scontro tra un’ala sinistra, tradizionalista e lealista dei principi operaisti fondativi, e un’ala borghese, rappresentata dagli ex Ulivo di Dario Franceschini e dalla Margherita di Francesco Rutelli, che in termini di esperienza e provenienza politica nulla avevano in comune con la forte radicazione ideologica della Quercia e dei DS.
Questo travaglio ebbe ripercussioni letali anche a livello di quel governo capeggiato da Romano Prodi, finito nel tritacarne degli scontri tra il PRC di Fausto Bertinotti, il PdCI di Oliviero Diliberto, i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio, da una parte, e le frange borghesi di Francesco Rutelli e gli ex DC di sinistra come Clemente Mastella (UDEUR), e dello stesso Veltroni.
Era naturalmente prevedibile che, una coalizione in cui si sarebbe dovuta riconoscere una sorta di pari dignità a tantissimi ex Democristiani insieme con i compagni di Bertinotti, difficilmente avrebbe tenuto; e così infatti accadde, con un conseguente ricorso alle urne, il cui responso punì, forse oltremisura, quell’armata Brancaleone e decretò non solo un clamoroso ridimensionamento del PD, ostinatosi a correre da solo, ma anche la scomparsa dalla scena politica nazionale della sinistra radicale.
Da allora per Walter Veltroni, divenuto per tutti “Ualter” e che nel frattempo ha abbandonato la poltrona di segretario del PD, è stato un crescendo di trasformismi continui, di assunzione di posizioni revisioniste che poco hanno a che vedere con la linea progressista del suo partito, quantunque nei movimenti verso posizioni centriste dell’intera compagine ex comunista difficilmente oggi potrebbe riconoscersi un’ortodossia e la spiccata matrice operaista degli anni ’80-‘90.
Oggi Veltroni, che non può certo definirsi “un compagno che sbaglia”, ma “un compagno che ha dismesso l’elmetto e ha indossato un gessato alla moda”, è uno dei più accaniti sostenitori della necessità di rivedere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per il rilancio dell’occupazione, con ciò sposando le tesi suggestive di Pietro Ichino, reclutato a tempo pieno nel PD, nonostante sia ben lungi qualunque nesso tra libertà di licenziamento e incremento occupazionale.
D’altra parte che Veltroni non sia mai stato un comunista è cosa risaputa. Pur avendo militato per anni nel PCI, ed essere anche stato eletto a consigliere comunale di Roma nelle sue liste, in più di un'occasione ha ammesso pubblicamente di non essere mai stato veramente comunista: una delle sue dichiarazioni più famose infatti dice: «Si poteva stare nel Pci senza essere comunisti. Era possibile, è stato così» e in un intervista a Gianni Riotta per il quotidiano La Stampa dichiarò: «Comunismo e libertà sono stati incompatibili. Questa è la grande tragedia dopo Auschwitz».
Secondo il libro di Michele De Lucia, Il Baratto, Walter Veltroni, come responsabile Comunicazioni del PCI e seguendo la linea del partito all'epoca, avrebbe aiutato a ratificare nel 1985 il decreto di Craxi che permetteva a Silvio Berlusconi di aggirare la decisione di tre pretori di procedere al sequestro nelle loro regioni di competenza del sistema che permetteva la trasmissione simultanea nel Paese di tre canali televisivi. Questo in cambio, sempre secondo l’autore del libro, del controllo di Rai 3 da parte del PCI.
La linea politica, voluta e sostenuta da Veltroni, di dialogo con le forze di maggioranza anche su temi come la giustizia, è stata spesso percepita all'interno della sinistra, e del partito stesso, come troppo debole: in particolare il movimento dei girotondini ha criticato la linea politica perseguita da Veltroni, accusata di essere eccessivamente accondiscendente e permissiva con Berlusconi. A tali critiche si sono associate voci autorevoli della sinistra, come Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Pancho Pardi e Umberto Eco
Anche Giulietto Chiesa, che dalle colonne de il Manifesto aveva esortato la sinistra massimalista ed antagonista a coalizzarsi contro il Partito Democratico ed aveva poi fondato all'uopo il partito politico denominato Per il Bene Comune, commentò l'esito delle elezioni evocando la fine della democrazia in Italia ed attribuendone la principale responsabilità a Veltroni ed ai banchieri italiani, che ne avrebbero sostenuto la campagna elettorale. Infine, in un'intervista al programma televisivo Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio, nel marzo 2009, a un anno dal voto, Prodi ha attribuito parte della responsabilità della caduta del suo governo anche alla decisione di Veltroni di sganciarsi dalle ali estreme della coalizione dell'Unione. Secondo Prodi quella decisione causò infatti un'accelerazione della crisi in corso.
In buona sostanza, c’è da chiedersi alla luce di questi trascorsi e dei disastrosi risultati determinatosi con la regia del “compagno Ualter” cosa ci faccia un personaggio con questo taglio all’interno del partito più significativo della sinistra e d'opposizione. L’assunzione delle sue posizioni ondivaghe e spesso di reazionario revisionismo ha condotto ad una pesante caduta della credibilità dell’ex PCI di porsi come forza moderna e alternativa alla politica delle destre tradizionali. Provvedimenti auspicati di riforma sociale e del welfare, di progresso democratico e di sviluppo sostenibile sono stati nei fatti costantemente osteggiati più che dalle forze politiche in carica dall’assoluta mancanza di determinazione delle forze vessillo di una democrazia di base e maggiormente diffusa. La stessa legge elettorale, il famigerato Porcellum voluto da Forza Italia e Lega, che rappresenta il vulnus più odioso al principio di democrazia rappresentativa, s’è potuto realizzare grazie all’avallo del PD e delle componenti più reazionarie presenti al suo interno. Analogo comportamento ebbero quelle forze, questa volta sostenute persino dal “dopiopettista” D’Alema, quando fu il momento di mettere mano con una controriforma all’iniquo sistema pensionistico inventato da Maroni con la regia di Tremonti.
Oggi, la lotta in corso per la difesa dell’articolo 18 e per la salvaguardia degli ammortizzatori sociali rischia di subire una sconfitta proprio per l’avallo delle stesse componenti al disegno reazionario del governo tecnico in carica.
Alla luce di queste vicende, che certo non fanno onore né al decantato senso di responsabilità del PD né alla sua coerenza con i principi di partito operaio, il rischio di un imborghesimento definitivo della sinistra italiana è assai forte, con la conseguenza che, mentre all’indomani del fallimento del governo Prodi si assistette ad una migrazione di voti di protesta dalla sinistra verso la Lega, oggi incombe massiccio l’astensionismo o la frammentazione dei consensi verso la miriade di liste civiche in fase di formazione, il cui peso specifico è pressoché nullo.
E allora è urgente che il PD e la sinistra tutta, in attesa della nuova tornata elettorale prevista per la primavera del 2013, inizi sin da ora ad attrezzarsi per fare chiarezza al suo interno e ristabilire le fila di un’unitarietà perduta, cominciando, per esempio, a far pulizia di quanti con spudorataggine si dichiarano militanti di sinistra, ma in realtà sono solo sinistri militanti.
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