giovedì, febbraio 16, 2012

Il predicatore bolso

Giovedì, 16 febbraio 2012
Non ci è mai piaciuto Aldo Grasso de il Corriere della Sera, quel saccentello che si arroga il diritto di rilasciare giudizi e critiche, spesso con la pretesa dell’assolutezza, su tutto ciò che fa spettacolo. Ma questa volta bisogna riconoscere che la sua definizione di “predicatore stanco” alla volta di Adriano Celentano, quell’Adriano nazional-popolare capace di tenere incollati al piccolo schermo 16 milioni d’Italiani - un record senza precedenti - con le sue filippiche a metà strada tra il semiserio e il profetico, francamente ci sembra più che azzeccata.
Non che dall’Adriano ci si dovesse attendere chissà quale rivelazione, abituati come siamo a sentirlo a cadenze regolari, - fortunatamente diluite nel tempo, - sparare a zero sui cattivi della nostra epoca e sui guasti autolesionisti che l’umanità si produce. Ma stavolta, approfittando di un appuntamento come quello del mitico Sanremo, - sul quale sarà necessario soffermarsi un attimo, - che ci venga a dare lezioni di fede in un momento in cui il Paese deve fare i conti con il prosaico e laico problema di come sbarcare il lunario, ci è sembrato decisamente sopra le righe o, se si preferisce in linea con il titolo, al di sotto di ogni sperabile previsione.
Che la Chiesa con qualche rara eccezione pensi da sempre a gestire i propri fattacci e a far politica è cosa risaputa e non è certo il sermone del Molleggiato che ci ha aperto improvvisamente gli occhi. Cambiano i tempi e cambiano anche i papati, e se ieri Sua Santità si faceva distrarre dalla materialità del regno Pontificio e dal profumo e dalla leggiadria di qualche giovane di corte, con cui non esitava fornicare nelle sante stanze vaticane, oggi l’attenzione alla politica, dietro la quale si celano interessi di vil denaro, non ha mutato i termini del problema. Oggi, come secoli fa, la Chiesa è ancora una potente macchina organizzativa dietro la quale si celano interessi innominabili, un’azienda che da lavoro a migliaia di persone, uomini e donne, in divisa da prete, monaco, suora e laici addetti a servizi disparati. Non crediamo che il buon Dio, suo figlio Gesù e Pietro, fondatore della grande Chiesa, avessero immaginato un papa Borgia, provetto traffichino e tombeur de femme, o un Pio XII, passato alla storia anche per un Concordato con il Terzo Reich di Adolf Hitler. Che poi la Chiesa e i suoi giornali oggi parlino molto più di politica che del verbo di Dio e di ciò che il suo volere rappresenti per la salvezza dell’umanità, è probabilmente un ulteriore passo avanti nel processo di “laicizzazione” della cultura anche vaticana. Dunque, non basta questa scoperta d’acqua calda per chiedere a gran voce che chiudano giornali come l’Avvenire o Famiglia Cristiana, il cui stile rispecchia anzi in modo più evidente quanto i problemi della gente cattolica siano più ancorati alla realtà quotidiana che al post mortem ed a quello che verrà.
Parlare di queste cose vuol dire far politica? Sicuramente. Ma dimentica il guru Adriano che non esiste una dimensione apolitica dell’esistenza, ove questa con comportamenti, espressione del pensiero e rappresentazioni di se stessi non finisca per costituire un modello di confronto che regola i rapporti tra gli esseri umani. Se così non fosse avrebbero ragione gli integralismi più beceri che autorizzano ogni scelleratezza in nome di una fede assolutistica e sanguinaria.
Sbaglia dunque Celentano nell’infilarsi in un dibattito vuoto e che puzza solo di provocazione allo scopo di far cassetta: si parli male di me, ma l’importante è che se ne parli. E sbaglia pure Grasso quando con logica infantile rimprovera al Predicatore bolso di aver dimenticato di citare i Giudei nella sua visione di un paradiso fatto di fratellanza e concordia: in quel paradiso mancano buddisti, sciiti, copti e persino animisti, cioè tutti coloro che in assoluta buona fede credono in un loro Dio ed hanno una loro onesta visione della vita dello spirito e di ciò che sarà dopo la morte.
Sbaglia infine la Chiesa quando s’indigna di fronte alle scemenze di un indomito showman che non si rassegna all’idea che non si parli più di lui e chiede vendicative sanzioni. In primo luogo perché ha preteso d’insegnare ai suoi fedeli che all’offesa si risponde con la pazienza e con le opere che tangibilmente ne dimostrino l’infondatezza e, secondariamente, perché la vendetta non esiste nel suo codice, fatto di bontà infinita, di comprensione per le pecore smarrite e di perdono. E se volesse dare il buon esempio per smentire quanto e come una certa corruzione alligni anche tra le sue mura, a dispetto delle illazioni dell'ex Ragazzo del Clan, di cose da fare ne avrebbe parecchie: vogliamo cominciare dal gravissimo problema della pedofilia in cui è implicato persino qualche vescovo o certe questioni rimaste oscure come un certo Marcinkus o i riciclaggi di denaro sospetto che coinvolgono la Banca Vaticana?
Francamente lo sdegno di piazza S. Pietro somiglia troppo agli "aita" della vergine cuccia di un certo Parini, guarda caso, prete anche lui.
Ma la questione su cui occorre meditare è piuttosto cosa c’entri l’esibizione di Adriano Celentano, spalleggiato nella sua performance kitsch persino da Gianni Morandi e da un demenziale Pupo. Cosa ci azzecca in una kermesse canora, peraltro orami insopportabile, una insulsa sceneggiata di un’ora di un signore stanco e sul viale del tramonto, incuneata a forza in uno spettacolo che con la canzone ha ben poco a che vedere?
La risposta è semplice e sta nella stessa natura di un appuntamento annuale della RAI che suona come una sorta di Telethon per le avide casse dell’emittente pubblica. Il festival della canzone italiana è da tempo uno zombie senza senso, nel quale nella maggior parte dei casi si aggirano artisti disperati in cerca di rilancio o in cerca d’affermazione presso il grande pubblico, - n’è testimonianza l’annosa polemica ricorrente su favoritismi, eliminazioni, voti truccati e quanto di più meschino rappresenti l’essenza delle competizioni con contenuti trash. Basandosi sul gusto medio dell’ascoltatore tipo la riproposizione del festival, con la partecipazione di nomi di grande richiamo senza i quali gli ascolti sarebbero al lumicino, serve ad acquisire contratti pubblicitari di rilevante importanza, che portano nella casse RAI ingenti risorse per l’autofinanziamento. Poco importa, dunque, che di fondo il festival, che un tempo rappresentava lo specchio d’una cultura nazionale da ostentare con orgoglio, oggi sia morto e sepolto. La sua resurrezione periodica serve solo a far soldi e, quindi, impone che si infarcisca di interventi di grandi nomi in grado di catturare l’immaginario popolare, qualunque sia poi il prezzo pagato allo stile e alla cultura. D’altra parte, se il festival dovesse essere giudicato non per le emozioni complessive che stimola nella percezione collettiva, ma lo si volesse scomporre nei vari blocchi che lo compongono il giudizio non potrebbe che condurre a conclusioni aberranti: un’accozzaglia di stupidaggini infarcite da espressioni da angiporto a cura di tali Paolo e Luca, un’orchestrata sequela di stronzate proferita da un emblema dell’ignoranza, ex-cantante e profeta fallito dal nome Adriano Celentano, quattro cosce e altrettanti seni esibiti da compiacenti cover girl disposte persino ad un eventuale endoscopia in diretta pur di scalare il successo, un trombone dai capelli tinti e la faccia di plastica nei panni impropri dell’anchorman, una sequenza di sfigati a gracchiare motivetti che durano l’espace d’un matin, tutti incollati insieme a testimoniare la nouvelle vogue di una Italia sempre più decadente.

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