martedì, luglio 31, 2012

No alle morti impunite per ragion di stato


Martedì, 31 luglio 2012
Nel suo lungo settennato Giorgio Napolitano ha dato più volte prova di sapere come accattivarsi la simpatia dei cittadini, intervenendo in svariate occasioni per esprimere il proprio punto di vista su questioni riguardanti i rapporti tra le istituzioni e dando nello stesso tempo “una regolata” alle esuberanze di quanti hanno tentato di dare ai principi costituzionali un’interpretazione addomesticata, se non addirittura mortificante.
Certo, non sempre nel gioco delicato degli equilibri il capo dello stato ha soddisfatto le attese di quanti in molte circostanze gli avrebbero richiesto un ruolo maggiormente incisivo e determinato, ma in linea di massima l’equidistanza impostagli dalla cautela con la quale va gestito il suo ruolo super partes ne ha costruito nel tempo una figura tutto sommato abbastanza equilibrata.
Le scorse settimane, tuttavia, hanno mostrato un capo dello stato in rapido regresso d’immagine, colpevoli alcune telefonate tra il suo consulente giuridico Loris D’Ambrosio e lui personalmente con Nicola Mancino, già vice presidente del CSM ed ex ministro dell’Interno nel periodo ‘92/’94.
La vicenda è quella delle intercettazioni telefoniche disposte dai pm che indagano sulla presunta trattativa Stato-mafia, sull’utenza di uno degli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, accusato adesso di falsa testimonianza, che ha aperto un conflitto senza precedenti tra la presidenza della Repubblica e la procura di Palermo, rea d’aver registrato conversazioni tra l’ex ministro e D’Ambrosio, oltre che lo stesso Napolitano.
Secondo la procura palermitana, Mancino avrebbe fatto pressioni e manifestato preoccupazioni per la sua posizione nell’inchiesta. Le telefonate sono state intercettate in via indiretta, perché l’utenza di Mancino era stata messa sotto controllo. E se il contenuto delle conversazioni Mancino-Napolitano non è noto, la notizia dei colloqui tra i due è finita sui giornali, aprendo mille polemiche e un conflitto di fronte alla Consulta promosso dal Capo dello Stato, che ha ritenuto lese le sue prerogative. Nel ricorso predisposto dall’Avvocatura dello Stato si ritiene innanzitutto violato l’art. 90 della Costituzione, in base al quale il Capo dello Stato non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. C’è poi da considerare la legge 219 del 1989, che all’articolo 7 stabilisce che nei confronti del Presidente della Repubblica non possono essere eseguite intercettazioni se non dopo che la Consulta lo abbia sospeso dalla carica. Questa legge non distingue tra intercettazioni dirette e indirette, in quanto,  secondo vari giuristi la ratio del legislatore era di vietare tout court che il Capo dello Stato fosse intercettato.
La tesi della procura di Palermo poggia, invece, sull’articolo 268 del codice di procedura penale, secondo cui il gip dispone l’acquisizione delle intercettazioni che “non appaiano manifestamente irrilevanti” e, “procedendo anche d’ufficio”, decide lo stralcio del materiale di cui è vietato l’utilizzo tramite la cosiddetta “udienza filtro”, a cui pm e difensori hanno il diritto di partecipare. Questo però, se applicato alle conversazioni di Napolitano, mette in campo una serie di implicazioni: una valutazione di rilevanza applicata alle parole del capo dello Stato, la possibilità che il contenuto delle intercettazioni possa essere reso pubblico, e ancora l’ipotesi che il giudice possa ritenere rilevanti le conversazioni intercettate e non ne disponga la distruzione.
L’interrogativo di fondo, in sostanza, è uno: si può utilizzare l’intercettazione, anche indiretta, del Capo dello Stato, come una qualsiasi altra intercettazione? C’è chi ritiene che, se così non fosse, verrebbe violato anche il principio di uguaglianza, che come ha stabilito la stessa Corte Costituzionale, prevede l’applicazione di un criterio di ragionevolezza, per cui le stesse disposizioni di legge devono essere adeguate o congruenti alle finalità della legge.
Fin qui la disputa dottrinaria, sulla quale deciderà la Corte Costituzionale e che, di fondo, non è né rilevante né offre valore aggiunto alla vera questione che soggiace lo scontro tra istituzioni. Poiché la questione vera è la ricerca della verità su una delle vicende più scabrose della vita democratica della Repubblica e cioè la sussistenza di una trattativa tra lo stato e la mafia che costò la vita a Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino alcune settimane dopo. Verità in parte già accertata con una sentenza che ha confermato che quella trattativa vi fu, ma che ancora oggi non ha consentito di perseguire i colpevoli che nelle istituzioni la portarono avanti e che con il loro comportamento decretarono di fatto la condanna a morte di Falcone e Borsellino.
In questa prospettiva l’iniziativa di Napolitano di sollevare il conflitto tra poteri dello stato appare manifestamente fuori luogo. Anzi suona come un pericolosissimo tentativo omertoso d’insabbiare il tentativo di far luce su uno dei drammi nazionali dei nostri tempi chiudendo la bocca a chi della vicenda conosce molto più di quanto sia lecito sospettare.
Uno dei protagonisti di questa incresciosa vicenda, Loris D’Ambrosio, è passato a miglio vita proprio alcuni giorni fa, stroncato da un infarto fulminante provocato – secondo non meglio dichiarate supposizioni – dallo stress cui sarebbe stato sottoposto dalla disputa sulle intercettazioni della magistratura palermitana.
Ciò, francamente, appare fazioso e fuorviante e conferma il sospetto che l’oggetto delle intercettazioni sia effettivamente grandemente compromettente per gli intercettati, non fosse perché l’effettiva assenza di notitia criminis in quei colloqui telefonici non avrebbe potuto generare alcuna reazione emotiva superiore al normale fastidio del sapersi “spiati”. Qualora il decesso di D’Ambrosio fosse effettivamente da attribuire all’ansia derivategli dal fatto di sapere che gli inquirenti erano venuti a conoscenza di fatti riservati connessi a quelli che platealmente appaiono come delitti di stato, francamente la sua morte travalica il concetto d’umana pietà e colloca la figura del consulente giuridico del Quirinale in una prospettiva fosca. Azzarderemmo nel sostenere che anche l’inquilino del Colle tinge la sua immagine di una nebbia imbarazzante, poiché e al di là della ragion di stato – qualora ammessa in questa circostanza in cui la strada e costellata di morti ammazzati eccellenti – la verità è un dovere democratico da cui non può esimersi neanche Iddio prima ancora che il Capo dello stato.
Bata questo solo dubbio per far sì che l’azione di Napolitano di ricorrere alla Consulta non possa che meritare censura, poiché non v’è alcun principio tecnico e giuridico che possa prevalere sul dovere morale di perseguire con punizioni adeguate chi si sia macchiato di delitti infamanti come l’omicidio e la strage.
Non sappiamo quale esito avrà la disputa, ma è certo che a prescindere dal risultato nella vicenda non vi sarà che uno sconfitto: il senso profondo della democrazia che dovrebbe accompagnare come un credo irrinunciabile chiunque assolva compiti istituzionali.

(nella foto, Loris D'Ambrosio, morto alcuni giorni or sono a causa di un infarto)

lunedì, luglio 30, 2012

Quando lo stato ostenta disprezzo per il cittadino


Lunedì, 30luglio 2012
Nel nostro paese il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione è sempre stato difficile, contraddistinto com’è da un atavico sbilanciamento dei rapporti di forza a favore dell’appartato pubblico.
Questo rapporto malato affonda le sue radici in una concezione medievale dello stato dell’apparato burocratico pubblico, che non ha mai superato la convinzione che il suo compito sia di dispensare e non piuttosto di erogare servizi. La differenza che soggiace all’uso dei due verbi non è di poco conto, poiché l’erogazione presume una relazione commerciale tra il soggetto pubblico e il soggetto privato: ricevo un servizio perché comunque ho pagato. Nel secondo significato è la bonomia dell’apparato pubblico che concede quanto richiesto, a prescindere dal fatto che il cittadino abbia sostenuto un onere per garantirsi l’accesso al servizio di cui trattasi.
Questo paradigma fa sì che ciò che costituisce un diritto venga automaticamente declassato a  favore, a mera regalia, spesso clientelare, di chi è preposto al disbrigo delle interlocuzioni dei cittadini, che nel chiedere devono persino fare grande attenzione a non urtare la suscettibilità del burocrate di turno, pena l’allungamento sine die dei tempi di soddisfazione di una richiesta, se non addirittura il rifiuto di veder concesso l’oggetto della richiesta stessa.
Sì, perché la cavillosità di cui spesso sono infarciti regolamenti, leggi e procedure è tale da lasciare un margine di discrezionalità nel quale persino il signor nessuno, investito di un incarico pubblico, riesce a dare scacco anche al più agguerrito richiedente o a mortificare il più legittimo dei diritti.
Qualche esempio? Basta chiedere a qualunque cittadino vanti un credito nei confronti di un comune, una provincia, lo stato o un ente pubblico: termini perentori per saldare un eventuale debito nei confronti di queste istituzioni, con tanto di maggiorazioni e interessi di mora a livello da far sbavare d’invidia un usuraio incallito, e tempi biblici per la restituzione di un importo non dovuto o un credito d’imposta o un qualunque rimborso.
La vita quotidiana del cittadino italiano è zeppa di casi  del genere, senza contare quelli che hanno per oggetto il rilascio di una licenza, di un’autorizzazione, un permesso. In questi casi, quasi che la sterminata pletora dei travet pubblici, pagati con i soldi dei cittadini, sia perennemente impegnata in attività talmente onerose e impegnative da render bazzecole  le fatiche del mitico Sisifo, il meccanismo clientelare diventa un must. Conosci qualcuno?, allora v’è speranza che la pratica arrivi in porto; non conosci nessuno?, allora mettiti il cuore in pace e aspetta fiducioso l’arrivo di Godot.
Quando, poi, non è necessario dotarsi di un lubrificante per consentire alla macchina burocratica di girare senza cigolii o inceppamenti o favorire la voglia (molto scarsa) di lavorare del suo rappresentante di turno. Un sistema ampiamente codificato e consolidato, che ha istituzionalizzato le mazzette e che consente di portare a casa anche ciò che va ben oltre il teorico diritto e costituisce, invece, una plateale violazione di leggi dello stato.
Qualche esempio ancora? Come mai in presenza di una legge che vieta l’edificazione in prossimità delle coste – tant’è che qualche costruzione non ha persino potuto fruire di alcuna delle famigerate sanatorie emanate nel tempo - qualche buontempone ha rilasciato un’autorizzazione a costruire un mega capannone agricolo a ridosso di una delle poche spiagge di Avola? Va precisato che nella zona incriminata non ci sono né agrumeti né produzioni agricole di sorta, ma solo alberi ornamentali e qualche arbusto di salvia e origano a crescita spontanea, la cui raccolta per scopi meramente personali non è tale da richiedere capannoni di stivaggio.
Un altro caso? Un pensionato si accorge che nel calcolo della sua pensione l’efficientissima Inps ha inopinatamente omesso alcune settimane contributive. Chiede pertanto all’efficientissimo istituto di ricalcolargli l’importo pensionistico sulla base del recupero delle settimane omesse, reperite peraltro dopo mesi di ricerca e senza plausibile ragione nel conto contributivo di un altro soggetto: dopo quasi un anno è ancora in attesa che Mastrapasqua e il suo cast, - a cui dieci euro di differenza provocheranno sorrisi di compatimento, - si decidano a chiudere la pratica. Del caso, effettivamente accaduto, è stato investito personalmente persino il ministro Fornero, che probabilmente, preso da impegni tali da non consentirle neanche una telefonata a qualcuno dei suoi oberatissimi portaborse per gestire lo sconcio, ha fatto finta di non aver ricevuto la segnalazione.
Ci auguriamo che il ministro Fornero, uno dei tanti carneadi di questo ridicolo governo dei professori, subisca lo stesso trattamento quando verrà il suo turno, quantunque ci rendiamo conto che, nella sua posizione e con le amicizie che sicuramente potrà vantare,  l’assegno di pensione a lei lo portino sino a casa nelle 24 ore successive alla sua decisione di andare in quiescenza.
E dire che in apparenza viviamo in uno stato che dell’efficienza, ha fatto una bandiera, un simulacro, al punto da varare forse perché cosciente dei vizietti dei suoi dipendenti leggi rimaste prive di concreta applicazione, come la mitica 241 del ’90, con la quale si assegnavano tempi e modalità certe di espletamento di una pratica amministrativa, oltre che responsabilità e sanzioni a carico dei burocrati inadempienti, distratti e ignavi.
Insomma, il cittadino sorpreso a trasgredire qualche obbligo deve rassegnarsi a subire dure sanzioni, talvolta anche abnormi rispetto all’illecito consumato, mentre la pubblica amministrazione, pervicacemente strafottente e inadempiente, gode di d’una sorta d’immunità smisurata, che se si decide d’attaccare finisce anche per costare in bolli, ricorsi e nuove interminabili attese di giustizia.
Vengono in mente i casi di bambini sorpresi ad acquistare un pacchetto di caramelle o un gelato senza scontrino fiscale: qui si calca la mano, pensando così di fornire esempio a monito e di integerrima efficienza nei confronti dei soggetti deboli, mentre si chiudono gli occhi sulla fuga d’intere mandrie dal recinto di qualche amico degli amici iscritto nella lista degli intoccabili.
Davanti a certi sconci censurati persino dalla comunità internazionale, s’è pensato di legiferare nei confronti delle lungaggini intollerabili dei processi civili, con il varo delle cosiddetta legge Pinto. Anche in questo caso la strafottenza di tanti magistrati e cancellieri ha di fatto vanificato l’intento deterrente delle norme ed i processi continuano a durare un’eternità, con esito disastroso per le parti in causa. Senza contare poi che se si chiede ad un legale di procedere nei confronti di quei magistrati fannulloni o posapiano la risposta è molto spesso di diniego, visto che, secondo la regola del cane che non mangia cane, sono pochi i patrocinatori disposti a promuovere l’azione risarcitoria ai danni di quei magistrati con i quali magari si ritroveranno difronte in successive occasioni.
Ma se non basta questo stato dell’arte, il massimo si raggiunge quando questa pubblica amministrazione irreversibilmente ammalata giunge persino all’incredibile sfottò inviando zelanti avvisi circa diritti inesistenti o che non competono per niente.
E’ palese dimostrazione di questo crudele sfottò la nota inoltrata dall’Inps a milioni di pensionati a proposito della perequazione automatica spettante a partire da ogni primo gennaio ai titolari di pensione. Con un simpatico stampato si dà contezza ai pensionati degli incrementi previsti in base alla variazione del costo della vita rilevato per l’anno precedente. La comunicazione è senz’altro utile,  se non fosse che l’istituto in questione inoltra la nota anche a coloro per i quali il duo Monti-Fornero ha varato un provvedimento che azzera per il biennio 2012/2013 ogni rivalutazione per le pensioni superiori a tre volte il minimo dell’importo per l’assegno di pensione sociale. Risultato, la nota suona come una macabra beffa per quanti, pensionati, non solo sono assoggettati alla normale tassazione sul reddito, ma hanno visto sparire, magari per poche decine di euro di sforamento, l’unico strumento che avevano per recuperare in minima parte l’erosione del proprio assegno dall’inflazione.
Ma quando, al di là dei tronfi proclami sull’efficienza ed il riordino della pubblica amministrazione, ci scrolleremo dal groppone questi meccanismi borbonici e inizieremo a comportarci da stato moderno ed evoluto? Non sarebbe forse opportuno mandare in galera o in eventuali istituti di rieducazione mentale qualche politicante e qualche amministratore cialtrone, piuttosto che penalizzare sempre e solo i cittadini, magari con prese per i fondelli di pessimo gusto o perseverando nel mantenere atteggiamenti incivile o che sono la negazione della tanto decantata democrazia?
Fino a quando non sarà effettuato questo salto di qualità e lo stato non si porrà veramente al servizio del cittadino, non rimane che ricorrere alle vie traverse, con buona pace delle tante dichiarazioni d’intento e degli auspici degli ipocriti benpensanti che infestano la nostra esistenza quotidiana.

(nella foto un manifesto del gruppo Militanti)

lunedì, luglio 23, 2012

Ricette anticrisi: miopia o stupidità?


Lunedì, 23 luglio 2012
Ormai è un inarrestabile bollettino di guerra. Basta dare uno sguardo alle prime pagine dei giornali per rendersi conto che la vita di parecchi di noi s’è improvvisamente trasformata nell’esistenza di un equilibrista, costretto per necessità a percorrere, cercando di non precipitare, un sottile filo quotidiano dal quale dipende la sopravvivenza: un piede in fallo e si precipita nel burrone senza fondo della miseria, della disperazione, dell’assenza di futuro.
Così, tra spread in vorticosa altalena, disoccupazione in inarrestabile crescita, vertiginoso aumento dei prezzi, intollerabile peso di tasse, accise e balzelli, si assiste impotenti alla propria agonia, mentre sul comodino mille medicine stazionano accatastate senza che dal loro uso sia derivato alcun progresso positivo all’eventuale guarigione.
Eppure qualcosa si potrebbe forse fare, sebbene non sia dato sapere se la mancata assunzione di provvedimenti terapeutici più incisivi dipenda dall’ignavia del medico o dalla nefasta volontà di chi produce e vende le medicine adatte, determinati a preferire la morte del malato piuttosto che la sua ripresa.
A niente sembrano essere serviti i giri di vite imposti da Monti. Gli effetti della dolorosa riforma delle pensioni sono stati in parte vanificati da una disoccupazione crescente e attestatasi a numeri a due cifre come non si vedevano da parecchi lustri. Gli sperati benefici attesi dal prolungamento dell’età pensionabile sono stati erosi dal crollo degli occupati e, dunque, dalla drastica riduzione dei contributi versati per finanziare il pagamento delle pensioni in essere. La riforma del mercato del lavoro a firma Elsa Fornero, ancorché concettualmente sbagliata, ha esordito in un mercato in forte contrazione, con il risultato che siamo ormai alla situazione in cui otto contratti su dieci sono di puro precariato e la disoccupazione giovanile ha ormai raggiunto il 28-30% su base nazionale e il 50% abbondante nel Sud del paese.
Nel frattempo, mentre universalmente si riconosce che la crisi è strutturale ed investe la tenaglia debito pubblico-consumi, anziché puntare su politiche di rilancio dell’economia, che significa aumentare il reddito disponibile attraverso la creazione di occupazione, si continua a disquisire su come restringere il girovita. Come il mitico Tafazzi, non ci si rende conto del gravissimo danno che si produce con misure restrittive e, per contro, dei benefici che potrebbero derivare dall’incremento della capacità di spesa dei cittadini: maggiore consumo significa maggiore introiti per le finanze pubbliche sotto forma di tasse indirette. Ma significa altresì maggiori introiti derivanti dalle imposizioni dirette sui redditi, dato che il consumo spinge le imprese ad un incremento della produzione e, quindi, allargamento della base occupazionale. Un allargamento della base occupazionale significa crescita della base percettrice di reddito, su cui attingere tasse e contributi per il mantenimento dell’equilibrio del sistema.
Sono queste nozioni elementari di economia, talmente elementari da sfuggire non solo a Monti, che è costretto a fare il gioco dei poteri forti internazionali per dare credibilità al sistema Italia, ma anche a chi, come Angela Merkel, è in evidente stato di confusione irreversibile al punto da non rendersi conto che il crollo dell’euro e con lui dell’Europa non può  avere che conseguenze nefaste per la pingue economia tedesca.
La Merkel, infatti, continua a restare sorda agli inviti a riflettere su ciò che sarebbe dell’economia teutonica qualora la crisi travolgesse definitivamente non solo la piccola Grecia ma ben più importanti paesi come Spagna e Italia. L’effetto del default sarebbe l’immediata insolvenza dei debiti di quei paese i cui titoli sono principalmente nelle mani delle banche tedesche ed il collasso dell'esportazioni della Germania, non più indirizzabili verso aree geografiche non più in grado di pagarne il controvalore. Il rischio della reazione a catena che s’innescherebbe sarebbe tale da dover indurre a più miti consigli il più ostinato dei politici, non tanto per semplice lungimiranza, quanto per opportunistico calcolo di convenienza. Ma questo non sembra essere il caso della Merkel, che rimane incomprensibilmente sorda ad ogni invito alla riflessione.
Sul fronte del rilancio economico, poi, appare inevitabile che lo stato scenda in campo per promuovere le necessarie iniziative: ci rendiamo conto che nell’immediato il finanziamento di spesa non può che produrre un nuovo incremento del debito pubblico, quantunque, e sulla scorta delle considerazioni sopra esposte, i benefici derivati sarebbero certo in grado di riequilibrarne l’onere. Non va a tal proposito sottovalutato l’utilizzo dei cosiddetti project bond, varati appositamente per il finanziamento di iniziative di spesa produttiva.
C’è infine un ulteriore passo che la l’Europa potrebbe fare per combattere la spietata speculazione internazionale, che potrebbe consentire di allentare il perenne stato d’allerta e la precarietà in cui si muovono le economie del sud del continente. Il passo dovrebbe consistere nel lasciare alla BCE la libertà di incidere sulla stabilizzazione con l’acquisto delle emissioni di titoli del debito sovrano, sì da togliere alla speculazione l’arma principale di ricatto sulla stabilità dell’intera Unione. I tassi d’interesse lucrati su queste operazioni potrebbero essere impiegati per ulteriori operazioni d’intervento sulle aree di crisi, realizzando così una sorta di circolo virtuoso in cui i fabbisogni di finanziamento del debito divengono essi stessi strumenti di sostegno all’equilibrio del sistema ed incentivo per le operazioni di crescita economica.
Al di là di ogni ipotesi, soggetta in ogni caso all’approvazione dei vari capi di governo dei paesi aderenti all’Unione, resta comunque una situazione che giorno dopo giorno si rappresenta sempre più problematica e sempre più foriera, alla luce delle turbolenze sociali in atto in quelle regioni continentali dove la crisi sembra mordere maggiormente, di possibili derive pericolose per la complessiva tenuta della democrazia, specialmente se non si provvederà con la dovuta rapidità al varo di misure innovative e di speranza, che lascino intravvedere un barlume di luce dal tunnel da cui non pare si riesca ad uscire nonostante i tentativi e senza una buona dose di fantasia.

giovedì, luglio 19, 2012

Il ritorno del Cavalier Priapo e delle sue gag


Giovedì, 19 luglio 2012
«Il ritorno di un governo Berlusconi sarebbe un film dell'orrore». Così Pier Ferdinando Casini, ospite della trasmissione Radio Anch'io, commenta l'annuncio del Cavaliere di volersi ricandidare come premier.
Sebbene la dichiarazione di Casini ben sintetizzi e liquidi l’osceno annuncio dell’ex Unto del Signore, di voler ritornare in campo e di volersi riproporre – udite, udite! – niente meno che presidente del consiglio del futuro governo uscente dalle elezioni del 2013, nel revival del Cavaliere ci sono tutti gli ingredienti di sfrontatezza, ridicolaggine, arroganza e temerarietà tipiche del personaggio. Ingredienti che vanno ben oltre il limite della sopportazione e che, se non fossimo in un paese di fessi e baciapile, dovrebbero di per sé considerarsi più che sufficienti per sfanculare ad aeternum chi ha fatto dell’Italia lo zimbello d’Europa e del mondo.
E’ del tutto inutile chiedersi con quale faccia l’eroe dei bunga-bunga, lo sparaballe meno credibile dell’universo, l’imbonitore delle masse, abbia azzardato l’annuncio di una sua rentrée. Chi ha contezza della situazione quasi disperata delle sue aziende, oggi non lontane dallo stato disastroso in cui versavano nel lontano 1992, può che darsi una risposta: potersi accaparrare la poltrona di primo ministro consentirebbe al ciarlatano di muovere le manopole giuste per tirare fuori dalla secche le sue boccheggianti aziende e, nello stesso tempo, gli permetterebbe di infliggere un altro colpo di maglio ai processi residui che ha in corso, assicurandogli una vecchiaia ancora al sole e con il conforto del profumo di qualche giovane samaritana ben pagata, disposta per quel denaro a farlo ancora sentire un arzillo tombeur de femme.
E nel dare l’annuncio non ha esitato neanche davanti alle presumibili lacrime di Alfano, quell’Angiolino Jolie – come lo chiama la Littizzetto – umiliato all’inverosimile e trattato peggio di una pianella da sguattera, unta e logora. Né s’è preoccupato delle grasse risate d’un Sarkozy ormai in quiescenza o del disgusto di quella Angela Merkel, apostrofata “culona inchiavabile” ancora qualche mese fa, ma divenuta “amica” nella circostanza.
E’ innegabile, - al tramonto degli Orfei, dei Togni e dei Medrano,  - come la politica nostrana non ci abbia fatto sentire la mancanza dei pagliacci, quantunque la squallida umanità che s’è cimentata nell’interpretazione di questi ruoli sia ben lungi dallo strapparci qualche sorriso. In questo Silvio Berlusconi e la sua compassionevole corte di nani, ballerine, figuranti e chi più ne ha più ne metta è riuscito a strapparci solo indignazione e sgomento, oltre a tanta rabbia per i bocconi amarissimi che ci ha costretto a trangugiare: la crisi non esiste, la disoccupazione è solo apparenza, in Italia non c’è povertà e altre cialtronerie simili. Evidentemente quando proferiva queste scemenze oltre che distratto dalle performance delle olgettine consacrate a Priapo, doveva aver per mente qualcuno dei suoi numerosi amici crapuloni, non certo il povero Bertolaso, intento a farsi massaggiare la cervicale da una masseuse scrupolosa, che indossava preservativi in ogni dito della mano per evidenti ragioni igieniche (ne sono stati trovati parecchi nel budoir delle terapie).  
«Se Berlusconi si ritira dalla politica i sondaggi danno un 10% di voti al Pdl, se lui non si ritira ma lo appoggia con altri candidati si parla del 18%, con lui candidato il partito è al 28%. La decisione mi sembra quindi scontata», afferma Ennio Doris, numero uno di Banca Mediolanum e amico intimo del Cavaliere. In autunno gli consigliò di farsi da parte, ma ora il patron dell’istituto di credito spiega in un’intervista al direttore di Affaritaliani.it, Angelo Maria Perrino, perché l'ex premier abbia deciso di ridiscendere in campo e perché ritenga essenziale tale decisione. All’intervistatore, che gli ha fatto rilevare come appaia più che ottimistica l’ipotesi di un’affermazione così vistosa, considerato che il consuntivo del passato esecutivo Berlusconi non può che considerarsi disastroso, il profeta della “banca tutt’intorno a te” s’è dichiarato certo delle proprie allucinazioni, tenuto conto che  nel programma elettorale dell’ex Unto del Signore c’è la rinnovata bufala della riduzione delle tasse, da realizzare attraverso la spending review e l’alienazione del patrimonio pubblico.
Ovvia la domanda successiva: ma allora perché non questa riduzione non è stata fatta con il governo precedente, quando all'Economia sedeva quel gran genio di Giulio Tremonti? E qui Ennio Doris, mollemente seduto sulla sua inseparabile Frau, s’è sparato la stupidaggine del secolo: «Le coalizioni fanno fatica a realizzare progetti così ambiziosi!», come dire “vedrai che adesso che prenderà il 28%”, - largamente meno del 46% della coalizione precedente, - “il miracolo si compirà e farà impallidire l’autore della moltiplicazione dei pani e dei pesci”.
Ma se non mancano i boccaloni  e i manipolatori delle masse presunti, in questo clima svergognato di battage pubblicitario pro Cavalier Viagra non mancano altrettanto quelli veri, come l’indomabile Sallusti e i suoi scherani armati di penna al vetriolo, che alla notizia della rentrée hanno cominciato ad elevare salmi e ad organizzare sacrifici propiziatori. Tra gli immolati per accattivarsi la benevolenza dei numi c’è la Minetti, indicata come “trombata dal Cavaliere” – non si capisce bene se trattasi d’un ritorno al passato, e nulla è dato sapere circa la posizione assunta dalla vittima nella circostanza – e, -ahilui!, - la Santanché, la Danielona prossima allo stesso Sallusti, che, in tempi non remoti, aveva dichiarato che il vecchio reprobo di Arcore ce l’aveva su con lei solo perché s’era sempre rifiutata di dargliela. Ovviamente il suo successivo ingresso nel PdL, con tanto di scalata ai vertici della dirigenza, sino alla presunta auto-candidatura alla segreteria del partito in alternativa ad Angiolino Jolie, lascia intuire che anche per la Santanché il famoso detto dell’ugonotto Enrico IV di Francia “Parigi val bene una messa” sia sempre di grande attualità.
In ogni caso, illudersi di rifarsi la faccia e la credibilità "trombando" (il verbo volutamente equivoco e de il Giornale) qualche Lolita imposta a suo tempo nei ranghi del partito e nelle istituzioni è ancora una volta sintomo di una patologia mentale grave e persistente.
Noi, francamente, non nascondiamo la nostra felicità per la decisone del Cavaliere, non fosse perché le sue gesta, le sue iniziative, le sue dichiarazioni offrono spunti tragicomici interessanti nel grigiore cui ci sta assopendo il mesto professore Monti e la sua troupe di bolsi professori. Ci auguriamo solamente che nel suono fragoroso delle pernacchie l'impareggiabile Cavaliere non se ne venga fuori con la solita battuta ipocrita: “Sono stato frainteso! Rimango fuori e faccio il padre nobile”, anche se di nobile nei suoi trascorsi c'è veramente poco.

sabato, luglio 07, 2012

La dieta del cuoco Monti



 
Sabato, 7 luglio 2012
Il minestrone è servito. Il presidente del consiglio Monti, negli inediti panni di un Vissani più che mai scatenato, ha riunito il suo cast di cuochi, cucinieri e lavapiatti e, nella notte del 5 luglio, artefice il dietologo Bondi, ha presentato la nuova ricetta dimagrante al Paese. Una ricetta a base di tagli, risparmi, contenimenti di spesa, riduzioni di stanziamenti e limatura di costi, il tutto condito da qualche testa di burocrate e le spoglie di tantissimi travet pubblici, ai quali s’è rinunciato a tagliare il ticket per la colazione forse per evitare che, l’eccessivo dimagrimento, togliesse sapore al brodo.
A chi ha fatto notare che il minestrone avrebbe potuto avere più corposità con l’aggiunta di qualche aereo militare dal costo non proprio marginale, non è stata data una risposta, lasciando dedurre che, preoccupati della pesantezza che avrebbe conferito il metallo di un caccia alla sbobba dietetica, s’è preferito non includere nel rancio la costosissima carcassa di qualche F35.
Questa in sintesi la mossa di Monti e i suoi boys come ulteriore ricetta per risanare i disastrati conti italiani e cercare di rimettere in carreggiata un Paese che, definire allo sbando, è puro eufemismo.
Non che a ben guardare i colpi di machete decisi dall’esecutivo non fossero necessari. La questione è che, quando gli ingredienti sono scarsi e la fame preme, il rischio di approntare sbobbe è molto alto e il gusto della pietanza vada a farsi benedire, sebbene il valore energetico possa risultare adeguato.
In altri termini, i provvedimenti di spending review preparati dal governo Monti, in qualche caso non sembrano così sopportabili come si pretenderebbe. In primo luogo perché alcuni di questi provvedimenti, come il taglio del 10% degli organici pubblici, ricorda le tristi manovre di Giulio Tremonti, ossessionato dalla linearità delle riduzioni di spesa, mentre è noto che le inefficienze e sovrannumeri non hanno rilevanza lineare: ci sono settori del pubblico impiego in cui le carenza di personale è endemica – vedi la giustizia – e ci sono settori in cui il clientelismo e la malversazione ha creato mostruosi aggregati umani parassitari, che finiscono per intralciare le vita normale dei cittadini per giustificare la loro esistenza – vedi regioni, comuni e provincie, dove gli organici sono spaventosamente ipertrofici, pesano per miliardi sulla spesa pubblica e molto spesso sono costituiscono tappi burocratici veri e propri nel rapporto tra cittadino e amministrazioni nel fruimento dei servizi. Su queste realtà non ci saranno tagli, poiché la competenza è costituzionalmente prevista a carico delle singole regioni e, dunque, bisognerà attendere che i vari governatori vengano folgorati sula via di Damasco perché decidano che i loro apparati siano ridimensionati.
Analogamente il discorso che riguarda le provincie, espanse numericamente senza alcun ritegno sino a poco tempo fa e, adesso, ritenuti enti del tutto inutili meritevoli di soppressione.
Cosa commentare poi sui tagli alle consulenze, alla centralizzazione degli acquisti, alla riduzione di affitti e delle forniture sanitarie? E’ scandaloso che decenni di sperperi siano trascorsi tra l’indifferenza dei governanti di turno ed oggi, con un colpo di bacchetta magica, qualcuno venga a raccontarci le spese per l’affitto dei palazzi del pubblico potere siano eccessivi o che siringhe e guanti sterili costino in Sicilia o Calabria il doppio di quel che si paghino in Piemonte o Liguria. Se ciò è vero allora è quantomeno è strano che non vengano assunti provvedimenti di legge nei confronti di quei politici che hanno sguazzato in quest’incredibile sperpero di pubblico denaro, attingendo con malafede o al massimo con censurabile insipienza alle tasche dei cittadini per gonfiare i proventi di società fornitrici o assicurarsi una vacanza gratuita da sogno ai Caraibi.
Ciò che sgomenta e indigna non è, dunque, la ricetta dietetica, quanto il fatto che a pagarne il prezzo siano ancora una volta i cittadini-sudditi, nella loro veste di lavoratori, pensionati e contribuenti, che devono rinunciare in nome di un rigore ritrovato a quote di reddito ulteriori per coprire i buchi dello scialacquamento precedente, o al posto di lavoro per consentire al bilancio dello stato di trovare una quadratura sostenibile.
Sorge ancora una volta spontanea la domanda sul perché, mentre c’è gente che dovrà andare a casa per soppressione del proprio posto di lavoro, nulla sia stato fatto per ridimensionare i principeschi assegni della manica di delinquenti che siede in parlamento. Perché – giusto per fare un piccolissimo esempio – ad un governatore inquisito per mafia e dimissionario, tal Raffaele Lombardo, si consenta in una regione che scoppia di parassiti la nomina di ulteriori dirigenti proprio in questi giorni. Non grida vendetta un tal comportamento proprio quando la gente comune è costretta quasi a saltare un pasto giornaliero per pagare coattivamente IMU, Irpef, addizionali regionali, addizionali comunali, accise varie ed altre orrende amenità per soddisfare la fame di denaro della pubblica struttura che l’opprime?
E’ una ben magra soddisfazione sapere che il signor Monti ha previsto un durissimo ridimensionamento delle nomine dei consigli d’amministrazione delle società pubbliche, che lasceranno a spasso tanti immondi trombati della politica: il prezzo più elevato sarà sempre a carico di chi lavora, che in questa frenesia risparmiosa vedrà magari sparire il proprio posto di lavoro sacrificato sull’altare del contenimento della spesa.
E’ quando questi processi si mettono in moto che acquisiscono maggior valore di verità le parole di un certo Karl Marx, ormai relegato alle cantine polverose dei ricordi e delle illusioni, che ammoniva che il proletariato dalla disfatta del capitalismo cinico e vorace, alla base di questa falsa democrazia in cui viviamo, non ha che da perdere le proprie catene in cui è costretto dalla tirannia di un potere infame, in cui non conta il merito e la capacità ma tutto è massa amorfa e premia la contiguità al malaffare, l’accondiscendenza clientelare e l’attitudine al servilismo ossequioso.