No alle morti impunite per ragion di stato
Martedì, 31 luglio
2012
Nel suo lungo settennato Giorgio Napolitano ha dato più
volte prova di sapere come accattivarsi la simpatia dei cittadini, intervenendo
in svariate occasioni per esprimere il proprio punto di vista su questioni
riguardanti i rapporti tra le istituzioni e dando nello stesso tempo “una
regolata” alle esuberanze di quanti hanno tentato di dare ai principi
costituzionali un’interpretazione addomesticata, se non addirittura
mortificante.
Certo, non sempre nel gioco delicato degli equilibri il capo
dello stato ha soddisfatto le attese di quanti in molte circostanze gli
avrebbero richiesto un ruolo maggiormente incisivo e determinato, ma in linea
di massima l’equidistanza impostagli dalla cautela con la quale va gestito il
suo ruolo super partes ne ha costruito nel tempo una figura tutto sommato
abbastanza equilibrata.
Le scorse settimane, tuttavia, hanno mostrato un capo dello
stato in rapido regresso d’immagine, colpevoli alcune telefonate tra il suo
consulente giuridico Loris D’Ambrosio e lui personalmente con Nicola Mancino,
già vice presidente del CSM ed ex ministro dell’Interno nel periodo ‘92/’94.
La vicenda è quella delle intercettazioni telefoniche
disposte dai pm che indagano sulla presunta trattativa Stato-mafia, sull’utenza
di uno degli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, accusato adesso di falsa
testimonianza, che ha aperto un conflitto senza precedenti tra la presidenza
della Repubblica e la procura di Palermo, rea d’aver registrato conversazioni
tra l’ex ministro e D’Ambrosio, oltre che lo stesso Napolitano.
Secondo la procura palermitana, Mancino avrebbe fatto
pressioni e manifestato preoccupazioni per la sua posizione nell’inchiesta. Le
telefonate sono state intercettate in via indiretta, perché l’utenza di Mancino
era stata messa sotto controllo. E se il contenuto delle conversazioni Mancino-Napolitano
non è noto, la notizia dei colloqui tra i due è finita sui giornali, aprendo
mille polemiche e un conflitto di fronte alla Consulta promosso dal Capo dello
Stato, che ha ritenuto lese le sue prerogative. Nel ricorso predisposto
dall’Avvocatura dello Stato si ritiene innanzitutto violato l’art. 90 della
Costituzione, in base al quale il Capo dello Stato non è responsabile degli
atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento
o per attentato alla Costituzione. C’è poi da considerare la legge 219 del 1989,
che all’articolo 7 stabilisce che nei confronti del Presidente della Repubblica
non possono essere eseguite intercettazioni se non dopo che la Consulta lo
abbia sospeso dalla carica. Questa legge non distingue tra intercettazioni
dirette e indirette, in quanto, secondo
vari giuristi la ratio del legislatore era di vietare tout court che il Capo
dello Stato fosse intercettato.
La tesi della procura di Palermo poggia, invece,
sull’articolo 268 del codice di procedura penale, secondo cui il gip dispone
l’acquisizione delle intercettazioni che “non appaiano manifestamente
irrilevanti” e, “procedendo anche d’ufficio”, decide lo stralcio del materiale
di cui è vietato l’utilizzo tramite la cosiddetta “udienza filtro”, a cui pm e
difensori hanno il diritto di partecipare. Questo però, se applicato alle
conversazioni di Napolitano, mette in campo una serie di implicazioni: una
valutazione di rilevanza applicata alle parole del capo dello Stato, la
possibilità che il contenuto delle intercettazioni possa essere reso pubblico,
e ancora l’ipotesi che il giudice possa ritenere rilevanti le conversazioni
intercettate e non ne disponga la distruzione.
L’interrogativo di fondo, in sostanza, è uno: si può
utilizzare l’intercettazione, anche indiretta, del Capo dello Stato, come una
qualsiasi altra intercettazione? C’è chi ritiene che, se così non fosse,
verrebbe violato anche il principio di uguaglianza, che come ha stabilito la
stessa Corte Costituzionale, prevede l’applicazione di un criterio di
ragionevolezza, per cui le stesse disposizioni di legge devono essere adeguate
o congruenti alle finalità della legge.
Fin qui la disputa dottrinaria, sulla quale deciderà la
Corte Costituzionale e che, di fondo, non è né rilevante né offre valore
aggiunto alla vera questione che soggiace lo scontro tra istituzioni. Poiché la
questione vera è la ricerca della verità su una delle vicende più scabrose
della vita democratica della Repubblica e cioè la sussistenza di una trattativa
tra lo stato e la mafia che costò la vita a Giovanni Falcone prima e Paolo
Borsellino alcune settimane dopo. Verità in parte già accertata con una sentenza
che ha confermato che quella trattativa vi fu, ma che ancora oggi non ha
consentito di perseguire i colpevoli che nelle istituzioni la portarono avanti
e che con il loro comportamento decretarono di fatto la condanna a morte di
Falcone e Borsellino.
In questa prospettiva l’iniziativa di Napolitano di
sollevare il conflitto tra poteri dello stato appare manifestamente fuori
luogo. Anzi suona come un pericolosissimo tentativo omertoso d’insabbiare il
tentativo di far luce su uno dei drammi nazionali dei nostri tempi chiudendo la
bocca a chi della vicenda conosce molto più di quanto sia lecito sospettare.
Uno dei protagonisti di questa incresciosa vicenda, Loris D’Ambrosio,
è passato a miglio vita proprio alcuni giorni fa, stroncato da un infarto
fulminante provocato – secondo non meglio dichiarate supposizioni – dallo stress
cui sarebbe stato sottoposto dalla disputa sulle intercettazioni della magistratura
palermitana.
Ciò, francamente, appare fazioso e fuorviante e conferma il
sospetto che l’oggetto delle intercettazioni sia effettivamente grandemente
compromettente per gli intercettati, non fosse perché l’effettiva assenza di
notitia criminis in quei colloqui telefonici non avrebbe potuto generare alcuna
reazione emotiva superiore al normale fastidio del sapersi “spiati”. Qualora il
decesso di D’Ambrosio fosse effettivamente da attribuire all’ansia derivategli
dal fatto di sapere che gli inquirenti erano venuti a conoscenza di fatti
riservati connessi a quelli che platealmente appaiono come delitti di stato,
francamente la sua morte travalica il concetto d’umana pietà e colloca la figura
del consulente giuridico del Quirinale in una prospettiva fosca. Azzarderemmo
nel sostenere che anche l’inquilino del Colle tinge la sua immagine di una
nebbia imbarazzante, poiché e al di là della ragion di stato – qualora ammessa
in questa circostanza in cui la strada e costellata di morti ammazzati
eccellenti – la verità è un dovere democratico da cui non può esimersi neanche
Iddio prima ancora che il Capo dello stato.
Bata questo solo dubbio per far sì che l’azione di
Napolitano di ricorrere alla Consulta non possa che meritare censura, poiché
non v’è alcun principio tecnico e giuridico che possa prevalere sul dovere
morale di perseguire con punizioni adeguate chi si sia macchiato di delitti
infamanti come l’omicidio e la strage.
Non sappiamo quale esito avrà la disputa, ma è certo che a
prescindere dal risultato nella vicenda non vi sarà che uno sconfitto: il senso
profondo della democrazia che dovrebbe accompagnare come un credo
irrinunciabile chiunque assolva compiti istituzionali.
(nella foto, Loris D'Ambrosio, morto alcuni giorni or sono a causa di un infarto)
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