giovedì, settembre 05, 2013

Perché Berlusconi non può vincere



Continua la battaglia per  lanciare un salvagente al leader del PdL - Le minacce di far cadere il governo in assenza di una soluzione si fanno sempre più concrete - E' in gioco la credibilità definitiva dello stato e delle sue istituzioni - Perché questa volta Berlusconi non può averla vinta

Giovedì, 5 settembre 2013
L'Italia è universalmente considerata la culla del diritto, vale a dire la realtà nella quale fin dai tempi remoti si sono formati i germogli dei principi di legalità del vivere comune, grazie ad una tradizione culturale risalente all'antico Impero Romano.
Non v'è dubbio che tale qualificazione nel corso dei secoli sia sopravvissuta più nelle dichiarazioni d'intento che nella sostanza, e non certo per coerenza con la saggezza ciceroniana, che ammoniva “summum jus summa jniuria“, o il monito dello spagnolo Baltasar Graciàn “ Il diritto spinto all’eccesso diviene torto”, ma per una tendenziale inclinazione tutta nostrana a rimodellare le leggi in funzione degli interessi delle categorie dominanti o delle lobby limitrofe al potere.
Tuttavia, mai come nell'ultimo ventennio la strazio delle leggi e della legalità che è stato effettuato nel nostro Paese ha riferimenti nella storia, neppure fermandosi ad esaminare i bui anni della dittatura fascista, durante la quale, almeno nella facciata, si cercò anzi di dare alla nazione un corpo di leggi organico e garantista, nell'ambito del quale i maggiori abusi vennero commessi da una magistratura addomesticata e subalterna.
Con l'avvento del berlusconismo le leggi ad personam, la cancellazione di veri e propri reati dal codice penale, l'addolcimento delle pene ed i tanti lodi inventati ad arte per consentire ad una sola persona o a qualche membro del suo clan di sfuggire alle regole processuali e della giustizia in genere, sono stati sintomi di una deriva che ha mortificato i principi di legalità e di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sancendo per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana precedenti pericolosissimi per l'intera tenuta del sistema democratico, mortificando il sacro principio di neutralità della legge a favore delle camarille di memoria medievale, quando il principe, in quanto tale, poteva consentirsi ogni sorta di ribalderia in ragione del suo status.
Oggi si dibatte, peraltro in maniera livorosa e ricattatoria, del destino di colui che, autore di questo scempio epocale, è giunto al capolinea degli abusi ed esige, in ragione del suo ruolo di fondatore di un movimento sostanzialmente eversivo, un salvacondotto che lo esima dal pagare il fio di una condanna definitiva.
La questione travalica il senso del ridicolo che ispira a primo acchito, poiché nella situazione in cui versa il Paese, ancora fanalino di coda in un'Europa che pare affrancarsi dalla crisi economica più lunga del secolo appena iniziato,  si è costretti a parlare ancora di Silvio Berlusconi, della sua recalcitranza ad accettare il verdetto di una Cassazione, della sua ridicola pretesa di sostenersi innocente e di disconoscere il potere di chi è stato delegato a giudicarlo - "impiegati che hanno superato un concorso, non eletti dal popolo", ha definito quei giudici - sol perché la sua figura è riuscita a conquistare otto milioni di voti in una competizione elettorale. Il personaggio purtroppo dimostra una profonda incapacità nel comprendere la profonda stanchezza che oramai affligge il Paese, sfinito dall'assistere agli annosi duelli da lui allestiti contro ogni dissenso alle sue assurde pretese, contro quei magistrati che hanno osato metterlo sotto accusa o, peggio, l'hanno giudicato con esito a lui sfavorevole. Il Paese vorrebbe sentir parlare di lavoro, di soluzioni per i giovani precari e per i disoccupati, di allentamento della pressione fiscale, di aggancio della timida ripresa che si comincia a registrare nel Continente mentre invece deve sciropparsi interminabili dibattiti su come e quando sia quasi doveroso evitare lo sconto delle ovvie punizioni a chi s'è macchiato di delitti inqualificabili profittando del suo ruolo di leader politico.
Berlusconi non si rende conto nel profondo delirio che gli ha inebetito la mente che analoghe pretese potrebbero "legittimamente" accampare i Riina, i Provenzano, i Bontade ed i tanti che affollano le patrie galere, che hanno speso la loro esistenza nel malaffare mafioso. Eppure anche costoro hanno dato lavoro, nella prostituzione, nello spaccio, nelle estorsioni, negli omicidi, arrivando a fatturare oltre 150 miliardi di euro all'anno e si sono dichiarati innocenti, esenti da macchie, sebbene in forza di una legge che qualifica quelle attività come reati siano ora costretti a marcire in galera e senza che per le "ingiustizie" di leggi persecutorie governate da una magistratura rossa e giustizialista si siano sentiti in diritto di scatenare la canea rivoltante dei propri adepti, con minacce alla democrazia, con ricatti ai governi di turno, con il vilipendio delle istituzioni.
Il signor Berlusconi Silvio da Arcore, piaccia o meno, è a tutti gli effetti un lestofante, un pregiudicato, colpevole del reato abietto d'evasione fiscale, per di più aggravato dalla commissione del reato durante il periodo in cui ricopriva cariche pubbliche istituzionali. Tanto dovrebbe ritenersi sufficiente in uno stato con un minimo di dignità per consigliargli di farsi da parte senza clamore alcuno. Invece, nella culla del diritto, in una delle democrazie occidentali tra le più evolute, si dibatte ancora non solo sulla sua effettiva colpevolezza e sull'equità e l'indipendenza ideologica di chi l'ha giudicato, ma persino sull'opportunità di dichiararlo decaduto per indegnità dal Senato della Repubblica; si disquisisce sui doveri che sarebbero in capo al Presidente della Repubblica di concedere la grazia al delinquente conclamato motu proprio, cioè senza nessuna ammissione di colpevolezza da parte di colui da graziare e senza che il potenziale beneficiario del provvedimento si abbassi a chiedere l'atto di clemenza. Tutto questo sublima ciò che potrebbe definirsi il paradosso del ventennio berlusconiano, in cui la cultura del superuomo, le smargiassate di un califfo di quart'ordine ed il voto di una componente inebetita e illusa del popolo, per quanto numerosa, dovrebbero considerarsi dirimenti per sovvertire l'essenza delle leggi ed i principi di equità della giustizia e d'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Francamente in questo quadro intriso di mestizia  non è possibile non provare un senso di pietà nei confronti di coloro che lo hanno circondato con il servilismo più cieco durante il ventennio, nonostante su questa pietà abbia talvolta il sopravvento lo sconcerto per il modo nauseante con il quale costoro tentano giorno dopo giorno di confondere le acque con pretestuose obiezioni, minacciosi messaggi di rappresaglia nei confronti del governo di cui sono parte, improbabili alchimie giuridiche, oscenità irripetibili come la nomina di ciò che s'è confermato più boss che capo partito a senatore a vita. E' evidente la drammatica fragilità che ciascuno di loro avverte nel proprio futuro: tutto con lui, niente senza di lui! Ma queste reazioni sono anche la spia di una disperazione incolmabile per la fine tombale di un'epoca che si sente nell'aria, la fine dell'apparire sull'essere, la fine di una politica più urlata che praticata, la fine del primato dell'illusione e dell'affabulazione, nella quale  ha avuto più presa l'utopistica speranza del benessere facile per tutti che il confronto quotidiano con una realtà che franava sotto i piedi quasi inavvertitamente e in modo inarrestabile.
In questa prospettiva la ricerca di vie d'uscita appare assai nebulosa, poiché troppi sono gli elementi di contrasto che cozzano l'uno contro l'altro. Anche la questione della retroattività della legge Severino al condannato Berlusconi s'evidenzia come querelle priva di significato oggettivo, poiché il caso in questione non potrebbe esaurirsi con un'eventuale sentenza della Corte Costituzionale sull'applicazione del principio d'incandidabilità a condanne conseguenti reati commessi prima del varo di quella legge. L'essenza del problema Berlusconi va vista dall'unica angolazione possibile: impossibilità e inopportunità di consentire ad un condannato di continuare a sedere in un consesso la cui moralità deve imprescindibilmente ritenersi specchiata. Allo stesso tempo, che un pregiudicato possa avere accesso a ruoli di rappresentatività popolare, fingendo d'ignorare i gravi reati di cui s'è macchiato, è evento improponibile ovunque sopravviva un barlume di etica e di correttezza istituzionale. E questo a dispetto di ogni reclamata innocenza non provata nelle sedi deputate, che miri a svuotare il potere di giudicare attribuito dalla Carta alle istituzioni preposte.
 

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