Porcellum, una riforma chiamata utopia
Sono anni che si dibatte sulla
riforma della legge elettorale, ma non si vedono spiragli - A chi conviene
mantenere questo stato di cose - Grazie a questa legge tanti impresentabili in
Parlamento
Michaela Biancofiore
Mercoledì, 13 novembre 2013
Più passa il tempo, più la
questione legge elettorale si sta rivelando impagabile cartina di tornasole
dell'effettivo modo d'intendere e gestire la politica da parte di partiti e
movimenti.
Il riscontro indiretto che emerge
dalle proposte, dai dibattiti e dalle modalità con le quali ciascuna delle
forze politiche impallina gli avversari è talmente esauriente dei segreti
intendimenti da ridurre la discussione in atto all'ennesima ignobile farsa
ordita ai danni di cittadini sempre più disgustati e incapaci di insorgere
contro quello che ormai, ictu oculi, è una violenza senza precedenti
all'essenza della democrazia.
Sembra poco importare, infatti,
che con il sistema in atto sia pressoché impossibile determinare un vero
vincitore ad ogni tornata elettorale, poiché i criteri differenziati stabiliti
per l'elezione alla Camera ed al Senato difficilmente possono finire per
assegnare il primato a questa o quella coalizione. Così, grazie ad un premio di
maggioranza scriteriato previsto alla Camera per chi supera anche per pochi
voti le coalizioni avversarie, alla fine non è possibile varare alcun governo,
perché in Senato quel premio praticamente si azzera e non permette al governo
di turno di ottenere la necessaria fiducia. Gli esempi rappresentati
dall'esecutivo Prodi e dall'ultimo governo Berlusconi sono la riprova di questa
fragilità intrinseca del sistema, che tutti, a parole, vorrebbero correggere,
ma che, nei fatti, naufraga nel magma dei veti incrociati al momento di votare proposte
alternative.
C'è da chiedersi, allora, quale
sia la ragione per la quale un sistema così apparentemente inviso scateni un amalgama
frontista, che preclude ogni speranza di riforma. La risposta è sicuramente
articolata, poiché chi s'è inventato il meccanismo ha dovuto tener conto delle
indicazioni e degli interessi delle varie componenti presenti nel quadro
politico, del loro peso a livello territoriale, delle esigenze di bicameralismo
con presenze rappresentative diverse, della pretesa d'imporre con questo
sistema un bipolarismo rivelatosi improbabile, dell'ostinata resistenza di
tanti piccoli partiti a mantenere una loro autonoma identità per afferrare
possibilmente una piccola fetta di potere nonostante il loro piccolo peso, e
così via.
Ma la vera e inconfessabile ragione
per la quale quella riforma faceva leccare i baffi a tutti gli esponenti del
cosiddetto arco costituzionale risiedeva nel cuneo inserito nel meccanismo, con
il quale, per la prima volta dalla nascita della Repubblica, si riusciva ad
addomesticare la democrazia diretta: non erano più i cittadini a scegliere i
propri rappresentanti, ma tale potere veniva attribuito dalla legge ai partiti,
ai capobastone che li dirigevano, che da quel momento potevano inserire in
lista a loro piacimento chi ritenevano più opportuno.
Questo passaggio si è rivelato
nel tempo il vero ed unico punto cardine di una legge elettorale non a caso poi
definita dal suo ideatore, Roberto Calderoli, una vera e propria porcata.
Sebbene la legge varata, in
apparenza, sembrasse mutare ben poco con quanto accadeva precedentemente nella
composizione delle liste elettorali - continuavano ad essere le segreterie di
partito a formare le liste e a determinarvi la posizione di ogni candidato - il
nuovo sistema avrebbe precluso a chiunque di esprimere un voto a favore o
contro singoli candidati, poiché il consenso adesso sarebbe stato rilasciato al
partito e la somma di quei consensi avrebbe determinato il numero degli eletti,
attingendo alla lista in base alla graduatoria nella quale i singoli candidati erano
stati inseriti. Una variazione non di poco conto rispetto al passato, quando si
poteva votare per il partito ed esprimere una preferenza per un preciso candidato,
prescindendo dalla posizione nella quale era stato inserito, al punto da poter
sovvertire l'ordine degli eletti rispetto alla indicazioni delle segreterie.
Con il nuovo sistema l'unica
libertà di scelta lasciata all'elettore è stata quella di non votare il
partito, proprio in funzione della presenza in lista di candidati imposti, ma
ritenuti impresentabili. Ma questa si è rivelata
una libertà poco esercitata per la presenza di forti condizionamenti ideologici
nell'elettorato e in conseguenza di un éscamotage ingannevole cui si sono
affidati tanti partiti e movimenti: la personalizzazione dei simboli elettorali,
che ha fortemente condizionato l'espressione di voto.
In questa situazione i cittadini sovente
hanno espresso il loro voto per Silvio Berlusconi, ignari o poco attenti al
fatto che dentro il partito monopolizzato da quel nome ci fossero personaggi
come Nicole Minetti o Antonio Razzi o Michaela Biancofiore; così come i voti
espressi per l'IdV di Antonio Di Pietro non hanno tenuto in debita
considerazione che nelle liste di quel partito ci fossero personaggi come
Scilipoti o De Gregorio. E questi non sono che solo piccoli esempi. Il successo alle ultime elezioni del M5S è
stato di Beppe Grillo, peraltro non candidato, non certamente di personaggi
come Roberta Lombardi o Vito Crimi, oscuri travet scelti, - a detta del patron
del movimento, - via web tramite di "primarie virtuali" e che, se si
fosse votato potendo scegliere singoli candidati, probabilmente non si sarebbe
"coperti" nessuno.
La legge Calderoli, o meglio il Porcellum,
è stata dunque la modalità con la quale i partiti hanno definitivamente
scippato l'elettorato del diritto di scegliersi il candidato più consono alla propria
visione di politica e a consegnare nella mani dei capipartito un potere
sensazionale, con il quale imporre al Paese parlamentari servili, amici, yesman
inqualificabili, saltimbanchi e persino conclamati criminali. Dunque, oggi che
in discussione c'è la riforma di questo ignobile sistema, ben si comprende la
ragione per la quale ogni proposta venga immediatamente mandata al rogo, perché
in ballo non c'è ancora una volta l'interesse del Paese ed il ripristino delle
più elementari regole della democrazia, ma la salvaguardia di un potere di vita
e di morte sui tanti aspiranti ad un posto nella casta, posto nelle mani di chi
ha in pugno le redini di un partito: sei allineato, palesi accondiscendenza
alle decisioni del capo, esprimi in aula il tuo voto secondo le direttive
ricevute? Allora, dimostrando d'esserti piegato ad ogni ricatto, sarai rimesso
in lista. Nel caso contrario la tua carriera politica e le tue ambizioni saranno
naufragate su un banco di Montecitorio o di palazzo Madama e di te non si
parlerà mai più.
Quale sarà su queste basi la via
d'uscita? Difficile prevederlo, perché da sempre la politica ci ha assuefatti
ad un comportamento dei suoi rappresentanti che primariamente bada a
salvaguardare i propri interessi, magari farcendo le proprie circostanziali dichiarazioni
di squallido quanto irretante populismo,
e secondariamente perché la disaffezione e il disincanto è stato sapientemente esasperato
a livelli tali che aspettarsi, da quelle che appaiono solo bande d'opportunisti
o burattini manovrati dall'interesse di pochi, qualcosa di positivo per la
collettività è sintomo di quell'infezione grave chiamata utopia.
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