mercoledì, novembre 13, 2013

Porcellum, una riforma chiamata utopia

Sono anni che si dibatte sulla riforma della legge elettorale, ma non si vedono spiragli - A chi conviene mantenere questo stato di cose - Grazie a questa legge tanti impresentabili in Parlamento
                                Michaela Biancofiore

Mercoledì, 13 novembre 2013
Più passa il tempo, più la questione legge elettorale si sta rivelando impagabile cartina di tornasole dell'effettivo modo d'intendere e gestire la politica da parte di partiti e movimenti.
Il riscontro indiretto che emerge dalle proposte, dai dibattiti e dalle modalità con le quali ciascuna delle forze politiche impallina gli avversari è talmente esauriente dei segreti intendimenti da ridurre la discussione in atto all'ennesima ignobile farsa ordita ai danni di cittadini sempre più disgustati e incapaci di insorgere contro quello che ormai, ictu oculi, è una violenza senza precedenti all'essenza della democrazia.
Sembra poco importare, infatti, che con il sistema in atto sia pressoché impossibile determinare un vero vincitore ad ogni tornata elettorale, poiché i criteri differenziati stabiliti per l'elezione alla Camera ed al Senato difficilmente possono finire per assegnare il primato a questa o quella coalizione. Così, grazie ad un premio di maggioranza scriteriato previsto alla Camera per chi supera anche per pochi voti le coalizioni avversarie, alla fine non è possibile varare alcun governo, perché in Senato quel premio praticamente si azzera e non permette al governo di turno di ottenere la necessaria fiducia. Gli esempi rappresentati dall'esecutivo Prodi e dall'ultimo governo Berlusconi sono la riprova di questa fragilità intrinseca del sistema, che tutti, a parole, vorrebbero correggere, ma che, nei fatti, naufraga nel magma dei veti incrociati al momento di votare proposte alternative.
C'è da chiedersi, allora, quale sia la ragione per la quale un sistema così apparentemente inviso scateni un amalgama frontista, che preclude ogni speranza di riforma. La risposta è sicuramente articolata, poiché chi s'è inventato il meccanismo ha dovuto tener conto delle indicazioni e degli interessi delle varie componenti presenti nel quadro politico, del loro peso a livello territoriale, delle esigenze di bicameralismo con presenze rappresentative diverse, della pretesa d'imporre con questo sistema un bipolarismo rivelatosi improbabile, dell'ostinata resistenza di tanti piccoli partiti a mantenere una loro autonoma identità per afferrare possibilmente una piccola fetta di potere nonostante il loro piccolo peso, e così via.
Ma la vera e inconfessabile ragione per la quale quella riforma faceva leccare i baffi a tutti gli esponenti del cosiddetto arco costituzionale risiedeva nel cuneo inserito nel meccanismo, con il quale, per la prima volta dalla nascita della Repubblica, si riusciva ad addomesticare la democrazia diretta: non erano più i cittadini a scegliere i propri rappresentanti, ma tale potere veniva attribuito dalla legge ai partiti, ai capobastone che li dirigevano, che da quel momento potevano inserire in lista a loro piacimento chi ritenevano più opportuno.
Questo passaggio si è rivelato nel tempo il vero ed unico punto cardine di una legge elettorale non a caso poi definita dal suo ideatore, Roberto Calderoli, una vera e propria porcata.
Sebbene la legge varata, in apparenza, sembrasse mutare ben poco con quanto accadeva precedentemente nella composizione delle liste elettorali - continuavano ad essere le segreterie di partito a formare le liste e a determinarvi la posizione di ogni candidato - il nuovo sistema avrebbe precluso a chiunque di esprimere un voto a favore o contro singoli candidati, poiché il consenso adesso sarebbe stato rilasciato al partito e la somma di quei consensi avrebbe determinato il numero degli eletti, attingendo alla lista in base alla graduatoria nella quale i singoli candidati erano stati inseriti. Una variazione non di poco conto rispetto al passato, quando si poteva votare per il partito ed esprimere una preferenza per un preciso candidato, prescindendo dalla posizione nella quale era stato inserito, al punto da poter sovvertire l'ordine degli eletti rispetto alla indicazioni delle segreterie.
Con il nuovo sistema l'unica libertà di scelta lasciata all'elettore è stata quella di non votare il partito, proprio in funzione della presenza in lista di candidati imposti, ma ritenuti  impresentabili. Ma questa si è rivelata una libertà poco esercitata per la presenza di forti condizionamenti ideologici nell'elettorato e in conseguenza di un éscamotage ingannevole cui si sono affidati tanti partiti e movimenti: la personalizzazione dei simboli elettorali, che ha fortemente condizionato l'espressione di voto.
In questa situazione i cittadini sovente hanno espresso il loro voto per Silvio Berlusconi, ignari o poco attenti al fatto che dentro il partito monopolizzato da quel nome ci fossero personaggi come Nicole Minetti o Antonio Razzi o Michaela Biancofiore; così come i voti espressi per l'IdV di Antonio Di Pietro non hanno tenuto in debita considerazione che nelle liste di quel partito ci fossero personaggi come Scilipoti o De Gregorio. E questi non sono che solo piccoli esempi.  Il successo alle ultime elezioni del M5S è stato di Beppe Grillo, peraltro non candidato, non certamente di personaggi come Roberta Lombardi o Vito Crimi, oscuri travet scelti, - a detta del patron del movimento, - via web tramite di "primarie virtuali" e che, se si fosse votato potendo scegliere singoli candidati, probabilmente non si sarebbe "coperti" nessuno.
La legge Calderoli, o meglio il Porcellum, è stata dunque la modalità con la quale i partiti hanno definitivamente scippato l'elettorato del diritto di scegliersi il candidato più consono alla propria visione di politica e a consegnare nella mani dei capipartito un potere sensazionale, con il quale imporre al Paese parlamentari servili, amici, yesman inqualificabili, saltimbanchi e persino conclamati criminali. Dunque, oggi che in discussione c'è la riforma di questo ignobile sistema, ben si comprende la ragione per la quale ogni proposta venga immediatamente mandata al rogo, perché in ballo non c'è ancora una volta l'interesse del Paese ed il ripristino delle più elementari regole della democrazia, ma la salvaguardia di un potere di vita e di morte sui tanti aspiranti ad un posto nella casta, posto nelle mani di chi ha in pugno le redini di un partito: sei allineato, palesi accondiscendenza alle decisioni del capo, esprimi in aula il tuo voto secondo le direttive ricevute? Allora, dimostrando d'esserti piegato ad ogni ricatto, sarai rimesso in lista. Nel caso contrario la tua carriera politica e le tue ambizioni saranno naufragate su un banco di Montecitorio o di palazzo Madama e di te non si parlerà mai più.
Quale sarà su queste basi la via d'uscita? Difficile prevederlo, perché da sempre la politica ci ha assuefatti ad un comportamento dei suoi rappresentanti che primariamente bada a salvaguardare i propri interessi, magari farcendo le proprie circostanziali dichiarazioni di squallido quanto irretante  populismo, e secondariamente perché la disaffezione e il disincanto è stato sapientemente esasperato a livelli tali che aspettarsi, da quelle che appaiono solo bande d'opportunisti o burattini manovrati dall'interesse di pochi, qualcosa di positivo per la collettività è sintomo di quell'infezione grave chiamata utopia.


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