Commercianti e artigiani: il pianto del coccodrillo
Giovedì, 21 giugno 2007
Ancora una voce dal Paese del privilegi e dei privilegiati. Anzi, un lamento e tante, tante minacce da parte dell’ennesima categoria di evasori conclamati che protestano perché il Governo ha deciso di stringere la vite dei meccanismi antielusione nei loro confronti.
Come era successo a taxisti, avvocati, benzinai, eccetera, ritenutisi colpiti dai recenti provvedimenti sulle liberalizzazioni, questa volta a scendere sul piede di guerra sono i commercianti e gli artigiani, dopo che la revisione dei parametri reddituali previsti dai cosiddetti studi di settore ha elevato le soglie minime al di sotto delle quali si incorre nella verifica fiscale.
Poco importa che i dati ISTAT abbiano certificato come orefici, idraulici, elettricisti, meccanici ed altre categorie di liberi imprenditori dichiarino proventi derivanti dall’attività bassi al punto da stimolare persino la pietà dei percettori di pensione sociale. Questi signori, ai quali nella maggior parte dei casi pagar le tasse non va giù assolutamente, davanti alle decisioni del Governo hanno scatenato una gazzarra senza pari, con tanto di fischi e schiamazzi da pescheria alla volta del Presidente del Consiglio, intervenuto qualche giorno fa all’assise periodica degli artigiani, e minacce di disobbedienza fiscale organizzata dichiarata in tutte le sedi.
Ora, che chiunque venga colpito nel privilegio di cui gode o venga chiamato ad aumentare il proprio contributo al sistema fiscale protesti è cosa del tutto normale, dato che pagare le tasse è un dovere civico solo nella bocca dei benpensanti e dei populisti in cerca del consenso dei pochi cui è rimasto un afflato di senso civico. In un Paese già tartassato da un sistema fiscale la cui voracità ha pochi esempi al mondo parlar di tasse è come parlare di corda in casa dell’impiccato. Se però si pensa che coloro che son chiamati a pagar le tasse debbono fare i conti con aliquote da mero strozzinaggio anche a causa di un’evasione stimata in oltre 270 miliardi di euro, proveniente in larga misura anche dalle categorie oggi in rivolta, ci si rende conto di come la protesta non sia solo inopportuna ma anche offensiva del comune senso del pudore.
Infatti, questi recalcitranti omettono peraltro di far sapere che gli studi di settore, al di là della loro discutibile precisione, non costituiscono un indicatore in base al quale si è tenuti a pagare quanto calcolato, senza fiatare. Anzi, il commerciante o l’artigiano che non dovesse raggiungere i minimi stabiliti dal Ministero delle Finanze ha tutto il diritto di pagare quanto risultante dai dati della sua contabilità, salvo doversi sottoporre all’accertamento degli uffici preposti.
E’ dunque chiaro che chi non ha nulla da nascondere non avrà certo da temere dalla verifica della Guardia di Finanza, mentre un atteggiamento rivoltoso davanti alla presunta ingiustizia della revisione dei parametri impositivi non può che confermare come ci sia del “marcio in Danimarca”.
D’altra parte chi potrebbe credere che i ristoratori, - giusto per citare una delle categorie di commercianti sul piede di guerra, - introiti redditi al disotto di quelli di un comune cameriere? E quale giustificazione avrebbero questi redditi rispetto al costo di un normale pranzo consumato nella più scalcinata osteria di questo Paese da burla? E che dire dei tanti esercizi in cui ormai per comprare una camicia o ordinare un panino occorre parlare inglese o francese o spagnolo, dato che il personale è in larga parte straniero ed in larga parte è assunto in nero e sottopagato?
E allora, se non si è capaci di imporre l’obbligo a tutti i cittadini di concorrere al mantenimento dello Stato, ciascuno secondo capacità, si abbia il coraggio di portare i libri in tribunale, come deve fare qualunque azienda, e si dichiari fallimento, senza piuttosto cercare le scorciatoie di tartassare del peso dell’evasione i soliti lavoratori dipendenti, che c’è da credere siano più “onesti” solo perché non è consentito loro di utilizzare gli stessi meccanismi dei loro “sfortunati” datori di lavoro.In ogni epoca si è assistito alla lotta anche dura tra le categorie sociali per la costruzione di un sistema di convivenza più equo ed equilibrato, ma nel nostro tempo questa lotta è divenuta una guerra senza esclusione di colpi tesa alla difesa o all’incremento di un privilegio dell’uno a danno dell’altro, il cui risultato non vedrà certo né vincitori né vinti, ma una società senza speranza.
Come era successo a taxisti, avvocati, benzinai, eccetera, ritenutisi colpiti dai recenti provvedimenti sulle liberalizzazioni, questa volta a scendere sul piede di guerra sono i commercianti e gli artigiani, dopo che la revisione dei parametri reddituali previsti dai cosiddetti studi di settore ha elevato le soglie minime al di sotto delle quali si incorre nella verifica fiscale.
Poco importa che i dati ISTAT abbiano certificato come orefici, idraulici, elettricisti, meccanici ed altre categorie di liberi imprenditori dichiarino proventi derivanti dall’attività bassi al punto da stimolare persino la pietà dei percettori di pensione sociale. Questi signori, ai quali nella maggior parte dei casi pagar le tasse non va giù assolutamente, davanti alle decisioni del Governo hanno scatenato una gazzarra senza pari, con tanto di fischi e schiamazzi da pescheria alla volta del Presidente del Consiglio, intervenuto qualche giorno fa all’assise periodica degli artigiani, e minacce di disobbedienza fiscale organizzata dichiarata in tutte le sedi.
Ora, che chiunque venga colpito nel privilegio di cui gode o venga chiamato ad aumentare il proprio contributo al sistema fiscale protesti è cosa del tutto normale, dato che pagare le tasse è un dovere civico solo nella bocca dei benpensanti e dei populisti in cerca del consenso dei pochi cui è rimasto un afflato di senso civico. In un Paese già tartassato da un sistema fiscale la cui voracità ha pochi esempi al mondo parlar di tasse è come parlare di corda in casa dell’impiccato. Se però si pensa che coloro che son chiamati a pagar le tasse debbono fare i conti con aliquote da mero strozzinaggio anche a causa di un’evasione stimata in oltre 270 miliardi di euro, proveniente in larga misura anche dalle categorie oggi in rivolta, ci si rende conto di come la protesta non sia solo inopportuna ma anche offensiva del comune senso del pudore.
Infatti, questi recalcitranti omettono peraltro di far sapere che gli studi di settore, al di là della loro discutibile precisione, non costituiscono un indicatore in base al quale si è tenuti a pagare quanto calcolato, senza fiatare. Anzi, il commerciante o l’artigiano che non dovesse raggiungere i minimi stabiliti dal Ministero delle Finanze ha tutto il diritto di pagare quanto risultante dai dati della sua contabilità, salvo doversi sottoporre all’accertamento degli uffici preposti.
E’ dunque chiaro che chi non ha nulla da nascondere non avrà certo da temere dalla verifica della Guardia di Finanza, mentre un atteggiamento rivoltoso davanti alla presunta ingiustizia della revisione dei parametri impositivi non può che confermare come ci sia del “marcio in Danimarca”.
D’altra parte chi potrebbe credere che i ristoratori, - giusto per citare una delle categorie di commercianti sul piede di guerra, - introiti redditi al disotto di quelli di un comune cameriere? E quale giustificazione avrebbero questi redditi rispetto al costo di un normale pranzo consumato nella più scalcinata osteria di questo Paese da burla? E che dire dei tanti esercizi in cui ormai per comprare una camicia o ordinare un panino occorre parlare inglese o francese o spagnolo, dato che il personale è in larga parte straniero ed in larga parte è assunto in nero e sottopagato?
E allora, se non si è capaci di imporre l’obbligo a tutti i cittadini di concorrere al mantenimento dello Stato, ciascuno secondo capacità, si abbia il coraggio di portare i libri in tribunale, come deve fare qualunque azienda, e si dichiari fallimento, senza piuttosto cercare le scorciatoie di tartassare del peso dell’evasione i soliti lavoratori dipendenti, che c’è da credere siano più “onesti” solo perché non è consentito loro di utilizzare gli stessi meccanismi dei loro “sfortunati” datori di lavoro.In ogni epoca si è assistito alla lotta anche dura tra le categorie sociali per la costruzione di un sistema di convivenza più equo ed equilibrato, ma nel nostro tempo questa lotta è divenuta una guerra senza esclusione di colpi tesa alla difesa o all’incremento di un privilegio dell’uno a danno dell’altro, il cui risultato non vedrà certo né vincitori né vinti, ma una società senza speranza.
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