CGIL-FIOM – La falsa guerra della bandiera.
Venerdì, 19 ottobre 2007
Epifani è stato chiaro: nessuna bandiera con il logo CGIL potrà sventolare alla manifestazione del 20 ottobre organizzata dalla sinistra – ormai non c’è più alcun bisogno di aggettivare il PRC e il PdCI come radicale, dato che il trasformismo dei DS e dell’Ulivo, confluiti nel nuovo PD, ha creato nei fatti una cosa politica di centro, che nulla ha che fare con le radici della sinistra tradizionale.
Alla manifestazione, organizzata per contestare le recenti intese tra Governo e parti sociali sul welfare, ha aderito tra gli altri la FIOM, comprensibilmente delusa non solo dal voto dei lavoratori al referendum, ma da sempre in dichiarato dissenso con le scelte imposte da Epifani a tutta la CGIL nella notte del 23 luglio scorso.
Nella logica della democrazia le decisioni della maggioranza non possono che avere il sopravvento; tuttavia vale il principio di rispetto della minoranza, con la quale si ha il dovere di confrontarsi e di appianare i dissensi: l’assenza di questi meccanismi, - che certamente non devono svilire il principio della supremazia della volontà dei più, - costituisce per qualunque maggioranza un vulnus al diritto di dissenso ed un pericolosissimo indicatore di derive autoritarie, che nulla hanno in comune con la democraticità medesima.
D’altra parte, nel parlare di dissenso della FIOM al protocollo sul welfare non si fa riferimento ad una piccola organizzazione di lavoratori ribelli, ma ad una componente sindacale estremamente significativa e pesante all’interno della CGIL, che ha espresso un dissenso pari al 20% degli iscritti recatisi al voto. Questo dato, pertanto, non può lasciare indifferenti; né autorizza i vincitori del referendum a tacciare di massimalismo velleitario una minoranza che, nei numeri, non appare poi così tale.
Per inciso, sarebbe curioso sentire il parere del leader appena eletto del nuovo PD sulla questione, che abbiamo già avuto modo di ricordare come abbia impostato la sua campagna elettorale su slogan come ricerca del consenso e confronto dialettico. Ciò non significa che sia preferibile un sistema in cui si perpetui lo stallo e l’assenza delle decisioni. Ma l’eccesso di decisionismo, - che ha radici lontane e pare abbia ormai infettato il nostro sistema politico e sociale, - produce in chi lo subisce rancori che durano nel tempo, difficilmente cancellabili, ai quali seguirà prima o poi la presentazione di un conto, il cui costo sarà sostenuto dalle categorie già deboli della collettività.
La situazione sindacale in essere sembra ben riflettere lo scontro in atto tra la sinistra e gli ex DS, convertiti al neocentrismo opportunistico. In verità questo antagonismo tra le due anime del maggior sindacato operaista del nostro Paese è sempre esistito e, nel tempo, si è assistito alla periodica fuoruscita di frange di contestazione dall’organizzazione, con nascita di nuove sigle sindacali. Questo antagonismo, rappresentato dall’ala possibilista, maggioritaria, da una parte, e dall’ala intransigente dall’altra, - nota con il l’etichetta di terza componente e di cui Giorgio Cremaschi è il leader più rappresentativo, - ha costituito il vero motore riformista della CGIL, che nella FIOM ha visto la punta più avanzata della rivendicazione. I movimenti politici di riferimento di queste anime sindacali sono state il PCI e l’ultra sinistra, di cui hanno subito le evoluzioni e la storia politica. Il lento e progressivo revisionismo del PCI, attraverso la Quercia, il PDS, i DS e l’attuale approdo al PD ha certamente aumentato le distanze tra le due anime, non solo sul piano dell’ideologia, ma anche su quello più tangibile della prassi, determinando un conflitto alla ricerca di un’egemonia, che perdura e al presente si è fatto ancora più aspro.
In questo scenario, senza vincitori e vinti, i veri perdenti sono stati i lavoratori attivi e quelli che si sono affacciati per la prima volta al mercato del lavoro. I primi hanno subito un significativo peggioramento delle loro condizioni economiche, nel senso che gli incrementi salariali che hanno ottenuto sono stati spesso largamente sotto il livello dell’inflazione reale o comunque erosi dalla micidiale voracità di una macchina fiscale che, attraverso la progressività impositiva, ha azzerato i benefici di quegli incrementi, peggiorando le loro condizioni effettive di vita. I secondi sono stati invece vittime immolate sull’altare di un modernismo tanto vuoto quanto crudele, che ha imposto l’introduzione di meccanismi di cinico ed ignobile sfruttamento, spacciato per flessibilità e risposta efficace al processo di globalizzazione dell’economia e della concorrenza.
Di fronte a queste complesse problematiche sociali, divenute la vera emergenza del nostro tempo e denunciate persino dai vertici della Chiesa cattolica come sintomo epocale della caduta del senso etico e della dignità umane, lo scontro all’interno del sindacato esce dall’alveo naturale e si trasferisce nella società civile, dove assume un significato rinnovato di vera e propria lotta di classe tra privilegiati ed emarginati, lotta nella quale la diatriba sull’uso di una bandiera non è che ridicola e mistificante; così come è mistificante l’aggressione incalzante degli opportunisti convertiti al neocentrismo e delle loro stampelle ai residui di quella sinistra vera, che tenta in ogni modo di opporsi a quel che giorno dopo giorno si concretizza come un imbarbarimento delle condizioni di vita di milioni di persone senza futuro e relegate ai margini della società.
Se è vero che il comunismo è morto, con tutte le sue forme di ideologismo autoreferenziale e con le distorsioni rappresentate da classi dirigenti autocratiche, tanto egemoniche quanto distanti dall’essenza vera della democrazia, rimane di grande attualità il tema di come e quali meccanismi individuare affinché non si generino eserciti industriali di riserva costituiti da nuovi diseredati, attraverso i quali il post-capitalismo globale si garantisce l’incessante lievitazione dei profitti.
Una società giusta è quella nella quale ai cittadini vengono garantiti i diritti costituzionali, primo fra tutti quello al lavoro e ad un’esistenza dignitosa così lontana dall’effettiva percezione che se ne ricava ad una sommaria osservazione dei fatti di casa nostra. La mancanza di una coscienza civile e l’ostentata cecità nel prendere atto di queste emergenze, rende la guerra per le bandiere ridicola e volgare, oltre a mettere a nudo i veri valori delle sedicenti maggioranze progressiste e riformiste: la guerra di posizione per la conservazione di poltrone e privilegi in barba alla conclamata miopia della gente.
C’è da augurarsi che la prevista manifestazione del 20 prossimo registri una massiccia partecipazione, magari senza bandiere, dato che non sono quelle a contare quando si intende esprimere un malessere sociale vero e sussistente: la democrazia e la battaglia per la supremazia dei valori sono fatte di partecipazione ostinata e di battaglie dalle quali, mal che vada, non è possibile perdere più di quanto non si sia già perso, - per quanto si comprenda come la delusione radicata in anni di costante tradimento delle attese abbia generato una tendenza a chiudersi in un privato in cui non v’è più spazio per la speranza. Per quanto risulti amaro doverlo ammettere, è l’antipolitica così di moda, generataci dallo squallore delle azioni di chi ci governa, che rinforza la convinzione in chi decide che, in fondo e al di là del rimbrotto momentaneo, si è disposti a tollerare qualunque cosa.
(nella foto: Rinaldini, segretario dei metalmeccanici FIOM)
Alla manifestazione, organizzata per contestare le recenti intese tra Governo e parti sociali sul welfare, ha aderito tra gli altri la FIOM, comprensibilmente delusa non solo dal voto dei lavoratori al referendum, ma da sempre in dichiarato dissenso con le scelte imposte da Epifani a tutta la CGIL nella notte del 23 luglio scorso.
Nella logica della democrazia le decisioni della maggioranza non possono che avere il sopravvento; tuttavia vale il principio di rispetto della minoranza, con la quale si ha il dovere di confrontarsi e di appianare i dissensi: l’assenza di questi meccanismi, - che certamente non devono svilire il principio della supremazia della volontà dei più, - costituisce per qualunque maggioranza un vulnus al diritto di dissenso ed un pericolosissimo indicatore di derive autoritarie, che nulla hanno in comune con la democraticità medesima.
D’altra parte, nel parlare di dissenso della FIOM al protocollo sul welfare non si fa riferimento ad una piccola organizzazione di lavoratori ribelli, ma ad una componente sindacale estremamente significativa e pesante all’interno della CGIL, che ha espresso un dissenso pari al 20% degli iscritti recatisi al voto. Questo dato, pertanto, non può lasciare indifferenti; né autorizza i vincitori del referendum a tacciare di massimalismo velleitario una minoranza che, nei numeri, non appare poi così tale.
Per inciso, sarebbe curioso sentire il parere del leader appena eletto del nuovo PD sulla questione, che abbiamo già avuto modo di ricordare come abbia impostato la sua campagna elettorale su slogan come ricerca del consenso e confronto dialettico. Ciò non significa che sia preferibile un sistema in cui si perpetui lo stallo e l’assenza delle decisioni. Ma l’eccesso di decisionismo, - che ha radici lontane e pare abbia ormai infettato il nostro sistema politico e sociale, - produce in chi lo subisce rancori che durano nel tempo, difficilmente cancellabili, ai quali seguirà prima o poi la presentazione di un conto, il cui costo sarà sostenuto dalle categorie già deboli della collettività.
La situazione sindacale in essere sembra ben riflettere lo scontro in atto tra la sinistra e gli ex DS, convertiti al neocentrismo opportunistico. In verità questo antagonismo tra le due anime del maggior sindacato operaista del nostro Paese è sempre esistito e, nel tempo, si è assistito alla periodica fuoruscita di frange di contestazione dall’organizzazione, con nascita di nuove sigle sindacali. Questo antagonismo, rappresentato dall’ala possibilista, maggioritaria, da una parte, e dall’ala intransigente dall’altra, - nota con il l’etichetta di terza componente e di cui Giorgio Cremaschi è il leader più rappresentativo, - ha costituito il vero motore riformista della CGIL, che nella FIOM ha visto la punta più avanzata della rivendicazione. I movimenti politici di riferimento di queste anime sindacali sono state il PCI e l’ultra sinistra, di cui hanno subito le evoluzioni e la storia politica. Il lento e progressivo revisionismo del PCI, attraverso la Quercia, il PDS, i DS e l’attuale approdo al PD ha certamente aumentato le distanze tra le due anime, non solo sul piano dell’ideologia, ma anche su quello più tangibile della prassi, determinando un conflitto alla ricerca di un’egemonia, che perdura e al presente si è fatto ancora più aspro.
In questo scenario, senza vincitori e vinti, i veri perdenti sono stati i lavoratori attivi e quelli che si sono affacciati per la prima volta al mercato del lavoro. I primi hanno subito un significativo peggioramento delle loro condizioni economiche, nel senso che gli incrementi salariali che hanno ottenuto sono stati spesso largamente sotto il livello dell’inflazione reale o comunque erosi dalla micidiale voracità di una macchina fiscale che, attraverso la progressività impositiva, ha azzerato i benefici di quegli incrementi, peggiorando le loro condizioni effettive di vita. I secondi sono stati invece vittime immolate sull’altare di un modernismo tanto vuoto quanto crudele, che ha imposto l’introduzione di meccanismi di cinico ed ignobile sfruttamento, spacciato per flessibilità e risposta efficace al processo di globalizzazione dell’economia e della concorrenza.
Di fronte a queste complesse problematiche sociali, divenute la vera emergenza del nostro tempo e denunciate persino dai vertici della Chiesa cattolica come sintomo epocale della caduta del senso etico e della dignità umane, lo scontro all’interno del sindacato esce dall’alveo naturale e si trasferisce nella società civile, dove assume un significato rinnovato di vera e propria lotta di classe tra privilegiati ed emarginati, lotta nella quale la diatriba sull’uso di una bandiera non è che ridicola e mistificante; così come è mistificante l’aggressione incalzante degli opportunisti convertiti al neocentrismo e delle loro stampelle ai residui di quella sinistra vera, che tenta in ogni modo di opporsi a quel che giorno dopo giorno si concretizza come un imbarbarimento delle condizioni di vita di milioni di persone senza futuro e relegate ai margini della società.
Se è vero che il comunismo è morto, con tutte le sue forme di ideologismo autoreferenziale e con le distorsioni rappresentate da classi dirigenti autocratiche, tanto egemoniche quanto distanti dall’essenza vera della democrazia, rimane di grande attualità il tema di come e quali meccanismi individuare affinché non si generino eserciti industriali di riserva costituiti da nuovi diseredati, attraverso i quali il post-capitalismo globale si garantisce l’incessante lievitazione dei profitti.
Una società giusta è quella nella quale ai cittadini vengono garantiti i diritti costituzionali, primo fra tutti quello al lavoro e ad un’esistenza dignitosa così lontana dall’effettiva percezione che se ne ricava ad una sommaria osservazione dei fatti di casa nostra. La mancanza di una coscienza civile e l’ostentata cecità nel prendere atto di queste emergenze, rende la guerra per le bandiere ridicola e volgare, oltre a mettere a nudo i veri valori delle sedicenti maggioranze progressiste e riformiste: la guerra di posizione per la conservazione di poltrone e privilegi in barba alla conclamata miopia della gente.
C’è da augurarsi che la prevista manifestazione del 20 prossimo registri una massiccia partecipazione, magari senza bandiere, dato che non sono quelle a contare quando si intende esprimere un malessere sociale vero e sussistente: la democrazia e la battaglia per la supremazia dei valori sono fatte di partecipazione ostinata e di battaglie dalle quali, mal che vada, non è possibile perdere più di quanto non si sia già perso, - per quanto si comprenda come la delusione radicata in anni di costante tradimento delle attese abbia generato una tendenza a chiudersi in un privato in cui non v’è più spazio per la speranza. Per quanto risulti amaro doverlo ammettere, è l’antipolitica così di moda, generataci dallo squallore delle azioni di chi ci governa, che rinforza la convinzione in chi decide che, in fondo e al di là del rimbrotto momentaneo, si è disposti a tollerare qualunque cosa.
(nella foto: Rinaldini, segretario dei metalmeccanici FIOM)
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