mercoledì, aprile 30, 2008

Non resta che piangere


Martedì, 28 aprile 2008
L’ennesima stagione elettorale si è conclusa, sebbene manchi ancora la convocazione del corpo elettorale per alcune provinciali e comunali, che si terranno nelle prossime settimane. Ma comunque vadano questi scampoli di suffragio popolare, i risultati non serviranno di certo a mutare il quadro che si è delineato con le politiche del 13 e 14 aprile ed i risultai definitivi del ballottaggio per il Comune di Roma, che ha visto l’indiscutibile trionfo del centro-destra e la rotta della sinistra e del centrosinistra.
Già, perché dopo la batosta delle nazionali, che ha sancito la scomparsa dalla geografia parlamentare della sinistra radicale, il ballottaggio per le comunali di Roma ha costretto il centro-sinistra di Veltroni e Franceschini ad incassare la sconfitta di Rutelli, - il Cicciobello Marziano candidato del PD, vice- presidente del Governo Prodi e per due mandati Sindaco della Capitale, - ed il ridimensionamento definitivo delle residue ambizioni di ciò che resta dell’area progressista della politica italiana, che dopo quasi tre lustri ha dovuto cedere il testimone a quel centro-destra che a suo tempo non aveva brillato per buon governo.
E’ noto che la memoria umana è elemento sottile e labile, ma la sconfitta alle comunali di Roma va ben oltre la semplice regola dell’alternanza sempre possibile e, per certi versi, augurabile in politica, poiché cancella con un colpo di spugna il senso delle tante cose positive avvenute per la Città Eterna negli ultimi quindici anni. In ogni caso analizzare le origini di questa ennesima puntata di una Caporetto annunciata è solo apparentemente cosa ardua, dato che oggi sono disponibili dati di lettura che chiariscono sufficientemente i meccanismi che hanno portato la gente ha confermare la propria sfiducia ad una classe dirigente decotta e non più in grado di esprimere progettualità innovativa e credibile. Con queste premesse, va subito sgombrato il campo dalle facili interpretazioni, che attribuirebbero alla cosiddetta onda lunga la schiacciante affermazione della destra, - ché in questo caso non di onda lunga si tratterebbe, ma di vera e propria onda di tsunami in grado di penetrare con violenta profondità nella coscienza degli elettori, - ma di caduta verticale delle credibilità di un’intera classe politica, che ha non solo tradito le aspettative, ma ha dimostrato il più profondo disprezzo per le attese e le speranze di un popolo ormai allo stremo.
Una classe dirigente che si presenta al Paese assumendo l’impegno di risolvere i problemi della disoccupazione giovanile e del lavoro precario, del reinserimento degli ultracinquantenni nel tessuto economico da cui sono sistematicamente espulsi senza prospettive di rientrarvi e senza fonti alternative di reddito, della rimozione dei blocchi che inibiscono o ritardano l’accesso al trattamento pensionistico e prolungano l’agonia di intere famiglie che non sanno come sopravvivere, dell’escalation dei prezzi e del carovita, della tenaglia dei costi dei servizi essenziali e della loro qualità, del peso della tassazione e dei suoi incrementi indotti dai meccanismi inflattivi, dello squallido quadro di privilegi in cui si crogiola la politica in barba alla legittima stizza di milioni di Italiani che non arrivano a fine mese, che ottiene il mandato popolare per fare, nei fatti, tutto il contrario di ciò che ha promesso o che si permette di affermare per bocca dei suoi notabili di maggior spicco che le risorse per onorare gli impegni elettorali non ci sono e, comunque, qualora fossero state disponibili, sarebbero state da destinare a ben altre iniziative, in altre realtà non sarebbe stata solo bocciata dal corpo elettorale, ma con ogni probabilità sarebbe stata assoggettata a ben altre forme di giustizia popolare.
La sconfitta elettorale, dunque, non è per questi personaggi che il mal minore rispetto a ciò che avrebbero effettivamente meritato. E il voto alla Lega dei tanti delusi della sinistra storica non è un voto di semplice protesta, ma una dichiarazione di fiducia e di speranza nei confronti di chi, nel bene e nel male, è stato in grado di garantire provvedimenti a favore dei propri elettori, mantenendo così le promesse e gli impegni assunti.
D’altra parte, - come se l’elenco dei tradimenti e dei misfatti elencati prima non fosse sufficiente, - il popolo italiano era oltremodo stanco di assistere ad assurde querelle di stampo nostalgicamente luddista e completamente prive di attualità storica sull’alta velocità o sulla spazzatura di Napoli, quasi che lo sviluppo, la modernità e l’irreversibile scelta europeista del nostro Paese potesse divenire argomento di dibattito salottiero tra demenziali sostenitori di antistoriche e fatue formule di sviluppo sostenibile: lo sviluppo e la modernità devono essere gestiti e non apoditticamente rigettati in nome di impossibili movimenti a ritroso dell’orologio. Evidentemente i dibattiti, altrettanto allucinanti in senso contrario sulla costruzione del Ponte di Messina, mentre i treni siciliani impiegano quattro ore per percorrere i 190 km da Catania a Palermo, che tanto hanno pesato nel giudizio degli elettori nel punire il precedente governo Berlusconi, non furono d’insegnamento alcuno.
E adesso a questi valenti politici, impenitenti sostenitori di un’Italia che non c’è più, incapaci di cogliere le trasformazioni del Paese e cinicamente sprezzanti del grido di dolore di quelle classi oggi povere, che hanno pagato di tasca propria la proterva ottusagine di un Prodi e congrega, afflitti dalla sindrome del pareggio dei conti in omaggio ai diktat di Bruxelles, non resta che leccarsi le ferite: ma era così peregrina l’idea di rientrare nei parametri di Maastricht nel corso del quinquennio di governo anziché a marce forzate in appena due anni, così rendendo meno onerosi i sacrifici necessari? Credeva Prodi che in questa maniera gli sarebbe stato tributato il duplice tripudio dell’Europa e degli Italiani? Come dimostrano i fatti, aveva fatto malissimo i conti lui e larga parte dei suoi mentori ed il risultato che hanno intascato è stata la vergognosa disfatta della coalizione, accompagnata dalla stentata tenuta del plotone dell’intellighenzia del PD e dei suoi venditori di buonismo.
Ma per il signor Prodi, che con serena strafottenza si gode la pensione in quel di Bologna, e per i tanti suoi consiglieri fraudolenti che altrettanto serenamente sono tornati a godersi appannaggi principeschi a Montecitorio o a Palazzo Madama il senso della vergogna e l’autocritica sono sentimenti del tutto sconosciuti.
Nel frattempo giunge notizia del lento esordio al potere dei nuovi vincitori, che hanno oggi iniziato la stagione del centro-destra eleggendo alla Presidenza del Senato il signor Schifani di Palermo, che ci auguriamo nella nuova ed importante carica voglia offrire di sé al Paese un immagine più obiettiva e distaccata di quanto non abbia fatto in servizio permanente nelle file della CdL. Per il resto, aspettiamo di vedere quali miracoli sarà in grado di realizzare questa nuova coalizione, che della sua passata presenza alla guida dell’Italia non aveva lasciato rimpianti.

giovedì, aprile 24, 2008

Sicilia una cultura da riformare


Giovedì, 24 aprile 2008
Una recente indagine condotta tra i giovani tra siciliani negli scorsi giorni ha evidenziato che il 60% degli intervistati è fortemente convinto che la classe politica dell’isola sia collusa con la mafia, o comunque con il sistema malavitoso che endemicamente ammorba la società.
Il dato, ovviamente, è privo di qualsiasi elemento probatorio e serve solo a misurare lo stato di affidabilità della politica nella percezione delle nuove generazioni. Tuttavia, le sue conclusioni suonano terribilmente allarmanti per diversi ordini di ragioni, oltre a sancire lo stato di profonda crisi istituzionale e sociale in cui versa la Regione in questione. Crisi che investe certamente la classe politica in sé, incapace di trasferire ai governati un immagine di correttezza e trasparenza in grado di promuovere comportamenti virtuosi e, che, per converso, mostra il tessuto sociale siciliano gravemente prostrato da una frustrazione ed una assuefazione che non lasciano intravvedere niente di positivo per il futuro.
La Sicilia, oltre che per le sue bellezze naturali e per il clima generoso, è tristemente nota per aver dato i natali ad uno dei fenomeni delinquenziali più significativi del pianeta, che affonda le sue radici in decenni di storia di latitanza delle istituzioni, di inefficienza dell’amministrazioni pubblica, di sperperi di danaro e risorse, in un clima di profondo degrado economico e povertà diffusa, che ha stimolato la sedimentazione di una diffusa cultura dell’arrangiarsi per sopravvivere. In questo scenario, che non ha alcunché di ignoto e che da decenni è oggetto di studi sociologici ed economici, la mafia e la fenomenologia delinquenziale connessa hanno avuto modo di radicarsi saldamente, sino al punto di divenire per intere classi di diseredati e senza speranza una vera e propria attività economica ed imprenditoriale, alternativa alla latitanza dello stato ed alla sua incapacità di promuovere il processo di integrazione dei Siciliani con l’Italia, prima, e con l’Europa, successivamente. D’altra parte, quando la delinquenza organizzata nell’immediato dopoguerra ha effettuato il salto di qualità, trasformandosi da criminalità rurale al soldo delle antiche baronie in criminalità imprenditoriale, è divenuta vera e propria impresa in grado di garantire un’occupazione ed un reddito nei mille rivoli delle attività di riciclaggio ad eserciti di disoccupati, di senza lavoro più o meno istruiti impossibilitati ad impiegarsi in un industria legale scarsamente presente, destinati diversamente ad emigrare per ingrossare le file del proletariato emarginato nelle grandi fabbriche del nord del Paese.
Com’è ipotizzabile ed allo stesso tempo confermato dalle migliaia di casi giudiziari di cui sono stati artefici pubblici amministratori, politici locali e nazionali siciliani, la potenza del sistema malavitoso ha invaso la politica, di cui certamente aveva bisogno per ottenere una parvenza di legalità alle operazioni che ha condotto o per condizionare l’emanazione di leggi e provvedimenti attraverso i quali sviluppare i propri affari. In questo la politica, diretta espressione dei clan o in accordi scellerati con i suoi esponenti di spicco, ha inferto il colpo di grazia ad un sistema sociale ormai incapace di sperare e – quel che è peggio – di affrancarsi dall’abbraccio mortale di un sistema che l’ha ridotto allo stremo e sulla cui reversibilità vi sono serie ipoteche.
Per certi aspetti il sistema mafioso è divenuto esso stesso sistema culturale, conferendo al Siciliano un imprinting del tutto peculiare e che traspare evidente anche nella vita quotidiana: arroganza, pressapochismo, diffidenza, reticenza ed omertà, indolenza, disprezzo per le regole di convivenza civile, supponenza, strafottenza, dileggio della legge e così via, sono atteggiamenti dominanti e diffusi, che rendono molto spesso problematica la convivenza. Persino l’esternazione di sentimenti positivi è talvolta sospetta, poiché generosità, disponibilità, senso dell’ospitalità più che genuine esternazioni di cultura mutualistica nascondono inconsciamente compiacenza seduttiva o divengono i sofisticati veicoli per affermare la propria supremazia nei confronti dell’altro, che a sua volta finisce per cadere nella trappola psicologica e per avvertire un debito immateriale forte verso chi tali sentimenti gli ha esternato. Da questo punto di vista la mafia non è solo criminalità, ma è anche cultura, pathos popolare connotativo le cui radici sono profonde e si tramandano da una generazione all’altra senza soluzione di continuità, con regole non scritte che, in qualche caso, hanno valore cogente largamente superiore alla legge dello stato o rendono queste più pregnante quando casualmente coincidono.
Ovviamente l’analisi non intende dare dei Siciliani tutti un’immagine né di criminali in esercizio né di criminali potenziali, dato che per fortuna la Sicilia può vantare schiere di persone oneste che aborrono qualsiasi manifestazione di malaffare. Tuttavia, non v’è dubbio che la predominanza di una certa cultura della giustificazione e la battaglia per la sopravvivenza quotidiana possono indurre ad attribuire a certe devianze un peso specifico più contenuto, come se le stesse, in fondo, avessero una valenza immanente legata al destino, che rende più lievi fenomeni per altri più importanti. Per meglio comprendere il senso di questa considerazione è esemplare il festeggiamento di Totò Cuffaro, ex Presidente della Regione costretto alle dimissioni da una condanna inflittagli nel corso di un processo per mafia, che, sebbene condannato a ben cinque anni di reclusione, ha ritenuto opportuno organizzare una festa con i propri amici e sostenitori per esser riuscito a scrollarsi un’aggravante di pena per il reato di associazione mafiosa. Per la cronaca, il signor Cuffaro nella prossima legislatura siederà a Palazzo Madama, tra i benemeriti senatori della Repubblica, grazie al voto plebiscitario che gli hanno conferito i Siciliani.In questa prospettiva, l’indagine condotta sulle percezioni dei giovani, ancorché priva di elementi probatori apre l’ennesimo capitolo di riflessione per il Paese, che ci si augura avverta il dovere di avviare una campagna di attenzione e riqualificazione della Sicilia e dell’intero Meridione d’Italia, che passi primariamente attraverso una riqualificazione della politica, inibendo ai collusi comprovati ed ai sospetti l’accesso a cariche di responsabilità e di governo anche locale, e promuova l’esordio di quello sviluppo del Mezzogiorno che lo renda finalmente moderno e produttivo, lontano dal canto di malefiche sirene; che lo affranchi dall’eterno bilico di terra a metà strada tra il Nord Africa e l’Europa e che ridia speranza alla gente di buona volontà.

giovedì, aprile 17, 2008

La Waterloo elettorale della sinistra

Mercoledì, 16 aprile 2008
La tornata elettorale si è conclusa e, com’era nelle previsioni, PdL e la Lega hanno vinto il confronto e si avvicenderanno al governo Prodi. Ciò che non era prevedibile era il margine con il quale ciò che fino ad ieri costituiva l’opposizione ha vinto la sfida, margine di quasi dieci punti percentuali, che non lascia spazio alcuno a recriminazioni e che suona di condanna inappellabile per gli sconfitti.
Ma l’elemento dirompente non è solo l’abbondante percentuale con la quale il centro-destra si è aggiudicato il confronto, poiché il responso elettorale ha sancito la scomparsa dallo scenario parlamentare di tutta la sinistra, che non ha raggiunto il 4% minimo previsto dalle regole sullo sbarramento. Questo fatto, senza precedenti nella storia repubblicana, costituisce un elemento di sconfitta per la vecchia coalizione che va ben al di là della semplice affermazione del centro-destra, in quanto è il segno palpabile del rancore popolare che Prodi e la sua armata Brancaleone sono stati in grado di collezionare nel fugace biennio di governo e che, alla fine, ha colpito senza appello l’ala della coalizione dalla quale l’elettorato forse di più si sarebbe atteso o che di quel governo ha reso debole l’azione.
Nel fare queste considerazioni non va infatti sottovalutato che PRC e PdCI sono partiti alla cui base è radicato un forte orientamento ideologico e, pertanto, la sconfitta elettorale suona come la condanna di quei principi, come la pena più dura da comminare a chi, nei fatti, ha tradito ogni aspettativa. Per Verdi e PSI le motivazioni della bocciatura non sono sicuramente così forti e sono più verosimilmente da attribuire alla sostanziale marginalità del ruolo giocato dalle due compagini nel vecchio esecutivo. Nel caso dei Verdi inoltre ha certamente influito negativamente sulla pubblica opinione la scriteriata guerra all’alta velocità e l’incapacità di individuare soluzioni positive a dramma spazzatura che ancora attanaglia Napoli.
Che queste ipotesi abbiano un loro fondamento è confermato dal successo del PD, che non solo ha tenuto al terremoto elettorale, ma è riuscito a guadagnare qualche punto percentuale, quantunque frutto della migrazione del voto dalla sinistra estrema al centro dello schieramento parlamentare.
Queste ragioni rendono inconsistenti parecchi degli alibi esibiti a giustificazione della disfatta elettorale dai leader di PRC e PdCI, che avrebbero ricercato il crollo di consenso del cosiddetto voto utile e nella novità del simbolo elettorale. Nel primo caso, non pare che le perdite di consenso di PRC e PdCI siano andate a favore del PD, visto che questo partito ha sì visto un incremento ma comunque lontano da quel 5% abbondante venuto meno ai due schieramenti della sinistra radicale. In quanto al simbolo dell’Arcobaleno, l’ipotesi per quanto suggestiva non ha riscontro, dato che anche a destra v’era la novità del PdL, che invece è riuscita a fare incetta dei voti del dissenso.
V’è davanti a queste affermazioni il sospetto che ancora una volta i leader della sinistra si stiano dimostrando assolutamente incapaci di comprendere le ragioni del proprio elettorato e della debacle e tendano piuttosto a chiudersi in un bozzolo autassolutorio, che non porta da nessuna parte: la sinistra è stata sconfitta a causa della sua inettitudine nell’incidere sulle scelte scellerate del governo Prodi, che a conti fatti avrà anche raddrizzato i conti pubblici, ma ha tradito le attese di milioni di pensionandi, ha lasciato irrisolti i gravissimi problemi del lavoro giovanile e del precariato, ha ridotto allo stremo milioni di famiglie allargando pericolosamente la soglia di povertà, si è dimostrata recalcitrante ad abbandonare una coalizione che non le ha mai permesso il minimo protagonismo in nome di un senso di responsabilità per la continuità dell’esecutivo, che è suonato più un inganno che non una ragione plausibile. Tutto ciò non è ammissibile per un governo di sinistra nel quale siano presenti forze politiche che da sempre hanno millantato un’attenzione prioritaria ai problemi dei lavoratori e delle categorie più deboli della società. Esser venuti meno a questa missione ideologica pone in capo a Giordano, Bertinotti, Diliberto, Rizzo, Russo Spena e tutta l’allegra compagnia una responsabilità storica difficilmente eludibile ed, allo stesso tempo, costituisce una seria ipoteca per i movimenti guidati da quei leader di riuscire in futuro a ricompattarsi e recuperare la rappresentatività perduta. Nello stesso tempo, essersi riempiti la bocca di slogan come egualitarismo, giustizia sociale, migliori condizioni del lavoro, e quant’altro tipico del retaggio della loro ideologia politica, mentre i morti sul lavoro ci hanno ridotto a paese del terzo mondo, mentre milioni di giovani hanno continuato ad ingrossare le fila dell’esercito dei precari sfruttati, mentre la massa delle famiglie italiane faceva e fa fatica a sbarcare il lunario, senza muovere un dito o spacciando l’attaccamento alla poltrona per quel senso di responsabilità sopra ricordato, tra ridicoli tesoretti saltati fuori come conigli dal cappello del prestigiatore e risse vergognose per il loro utilizzo, ha certamente e definitivamente scosso le coscienze degli elettori, che hanno individuato in questi personaggi quella frangia di razza padrona in ombra, pronta a qualunque misfatto ed eresia pur di mantenere il proprio privilegio.
La politica dovrebbe essere cosa seria, se fatta con passione, dedizione e senso del bene comune. In tanti già dalla fine della cosiddetta prima repubblica l’hanno resa mero esercizio del proprio interesse privato e, addirittura, abuso e sopruso ai danni del cittadino. Se in questo squallore dominante ha finito per farsi coinvolgere anche chi da sempre aveva fatto voto di difendere le più elementari regole della convivenza solidale, allora vuol dire che s’è chiusa un’epoca, una fase storica le cui rovine sono sotto gli occhi di tutti e che non possono attribuirsi a ridicole considerazioni sui simboli di partito o al canto delle sirene altrui che invitano a votare per sé.
Il 13 e 14 aprile del 2008 passeranno alla storia non per glorificare il rinnovato successo di Berlusconi e la sua compagine, ma per la disfatta di quella sinistra che, per milioni di persone, aveva rappresentato l’ultima spiaggia contro il dilagare del malgoverno, dell’indifferenza del potere verso le loro condizioni e quel divario sociale ogni giorno più ampio; quel popolo, che stanco degli inganni e dell’inettitudine dei suoi governanti, ha detto democraticamente basta.
Non sappiamo adesso quanto la sinistra, nel suo complesso, sarà in grado di avviare il dibattito interno con sufficiente autocritica e senza trincerarsi negli alibi delle colpe altrui piuttosto che le proprie per motivare la propria disfatta. E’ certo che senza l’ammodernamento delle idee ed una rinnovata vicinanza ai problemi del paese reale, fuori dagli slogan e dalle dichiarazioni ad effetto, sarà difficile risorgere dalla cenere e sperare di riconquistare la credibilità in un elettorato nel quale le ferite del tradimento resteranno a lungo aperte.

giovedì, aprile 10, 2008

Storie di ordinaria follia elettorale


Giovedì, 10 aprile 2008
In ogni epoca le campagne elettorali sono state contraddistinte da un confronto tra le opposte fazioni aspro e serrato, con l’evidente obiettivo di convincere gli incerti o strappare consensi all’avversario. Durante i fatidici quaranta giorni di propaganda, i leader non solo non risparmiano accuse di inefficienza alla parte avversa, ma ricorrono ad ogni trucco linguistico per attrarre l’elettorato e così far propendere l’ago della bilancia a proprio favore. Da qui il ricorso all’iperbole, alla promessa più improbabile al limite della panzana, all’ammiccamento persino equivoco, che divengono mezzi di tentata persuasione a guisa di strumenti di un qualsiasi artigiano che apra la cassetta degli attrezzi e ne cavi un cacciavite o un semplice martello. Ovviamente il ricorso a questi strumenti è sempre più incalzante mano a mano che ci si avvicini all’epilogo della campagna elettorale ed il messaggio si rivolga agli ultimi refrattari e recalcitranti.
Nella campagna elettorale in corso i trucchi del mestiere sono stati utilizzati tutti. Ma mai come in questa tornata si era assistito al ricorso di una quantità così massiccia di imbecillità e stupidaggini, al punto che commentarle tutte richiederebbe la stesura di un volumetto e non di un breve articolo. Ad ogni buon conto e per onorar la cronaca, crediamo sia utile riassumere alcune delle corbellerie proferite dai pretendenti leader in lizza e lasciare al lettore il compito di trarne le dovute conclusioni.
Salario minimo per i precari e pensioni. Entrambi i leader dei partiti più significativi, PD e PdL, si sono rincorsi nello sparare balle spaziali in ordine al livello di retribuzione minima da riconoscere a tutti i giovani con impiego precario: 1000 euro. Naturalmente e al di là dell’effetto scenografico che tale boutade suscita, nessuno dei due ha però precisato dove saranno reperiti i soldi per finanziare tale meritoria iniziativa, né, tantomeno, quali giustificazioni saranno opposte ai milioni di lavoratori non precari che sgobbano per cifre largamente inferiori con il dramma d’arrivare a fine mese, che dall’interessante iniziativa non saranno toccati.
Ricorso alle armi. Il leader della Lega, Umberto Bossi, appreso che le schede elettorali sono congegnate in modo tale da favorire il rischio di annullamento del voto espresso dai singoli elettori, - i simboli da barrare sono talmente vicini che una sbavatura della matita renderà nullo il voto, - ha chiesto l’immediata sostituzione delle schede elettorali, pena il ricorso alle armi da parte del suo partito. Premesso che il signor Bossi in quanto a pagliacciate è secondo solo al suo sodale Berlusconi, la minaccia è sembrata a metà strada tra il malinconico ed il faceto. Per quanti sforzi siano stati compiuti, non siamo riusciti ad immaginare un esercito di fazzoletti verdi, magari in compagnia di un cadente carrarmato dissequestrato dalla Procura di Venezia, con alla testa il Bossi in carrozzella in compagnia di Borghezio, Maroni e Calderoli. Sarà comunque il caso di preavvertire l’impavido guerrigliero padano che il fucile si imbraccia dal calcio e non dalla canna.
Veltroni scrive a Berlusconi. Sull’onda delle scemenze che blatera il leader della Lega, alleato del grande statista di Arcore, Silvio Berlusconi, il prode Veltroni, simulando sconcerto, scrive una lettera al Cavalier Banana con la quale gli chiede di dichiarare lealtà alla Repubblica e fedeltà alle sue istituzioni. Il Cavaliere, che non perde occasione per trasudare livore, ha dichiarato irricevibile la missiva perché vergata “da un erede del PCI”, così perdendo l’occasione di smentire quanti lo vogliono strumentalmente ossessionato da questa squallida storiellina dei comunisti sempre pronti a tendergli tranelli.
Test di sanità mentale per le toghe. Ancora una volta Berlusconi scarica il vetriolo, di cui ha piene le tasche, sui magistrati, per i quali sollecita un test periodico di sanità mentale a conforto delle attitudini a svolgere una professione così delicata. Prescindendo dalla rozzezza della battuta, riteniamo che il Cavaliere farebbe cosa meritoria ed apprezzata dal Paese qualora il test in questione lo proponesse per coloro che esercitano attività politica, magari cominciando da se stesso, giusto per dare l’esempio e smentire qualche malignità. D’altra parte, l’ufficio parlamentare è cosa delicata e gravosa e, pertanto, non si comprende perché il test in questione non dovrebbe essere somministrato a chi attraversa l’atrio di Montecitorio o di Palazzo Madama, mentre sia previsto a carico di chi, per esempio, richiede un semplice porto d’arma.
Dell’Utri: Mangano è un eroe. Il test di cui sopra dovrebbe essere somministrato primariamente al signor Marcello Dell’Utri, storico amico del Cavaliere e coinvolto in vicende di mafia, quando dichiara, come fatto ieri, che Mangano, lo stalliere mafioso che lui stesso accasò ad Arcore nella magione del suo principale, sarebbe un eroe perché è morto in carcere senza aprire bocca, da mafioso esemplare. Naturalmente sappiamo che Dell’Utri finge di scherzare quando fa simili affermazioni, dato che al di là dell’Ambrogino d’Oro con cui vorrebbe insignire la memoria del mafioso conclamato, riteniamo più probabile che con la beatificazione di Mangano abbia voluto lanciare qualche messaggio elettorale a certi apparati innominabili.
Napolitano dovrebbe dimettersi dopo le elezioni. E’ questa la bizzarra richiesta del leader del PdL al Presidente della Repubblica, reo di essere stato eletto in concomitanza all’insediamento del governo Prodi. Anzi, questa è la condizioni perché la presidenza di una delle due camere nel nuovo parlamento possa andare all’opposizione. Ovviamente per il signor Berlusconi, che ha una visione della cosa pubblica assai approssimativa, quasi fosse l’organizzazione della servitù della sua villa di Arcore, è del tutto lecito sputare sull’indipendenza di certi apparati istituzionali e ritenere di poter sottoporre a lottizzazione Cencelli anche la più alta carica dello Stato. Non possiamo che provare disgusto per la meschinità di certe insinuazioni, sconosciute alla storia della Repubblica sino alla comparsa di questo allucinante e tronfio personaggio, che intende la democrazia a proprio ed esclusivo uso e consumo. La Presidenza della Repubblica, compostamente, tace.
Basta con queste facce di c……. Così la neo-candidata nelle liste del PSI, Milly D’Abbraccio, ha pensato bene di farsi pubblicità elettorale, apponendo lo slogan sotto il proprio fondo schiena nudo di cui ha tappezzato Cinecittà e quartiere Tuscolano a Roma. Troviamo la pubblicità del neo-parlamentare Milly D’Abbraccio estremamente appropriata, dato che dopo averci mostrato tutti i suoi orifizi e l’uso che di questi si può fare nei tanti film hard di cui si è resa protagonista, con il manifesto in questione riteniamo ci abbia offerto il meglio di sé.
Mi lusinghi pure ma non gliela dò. Questo è stato il commento di Daniela Santanché, leader di La Destra di Storace, a certe affermazioni sul suo conto di Berlusconi. E’ palese come il solito Berlusconi non perda occasione per far scadere il dibattito su argomenti pruriginosi ad effetto.
Da questi assaggi di ciò che potremmo definire ordinaria follia, non certo campagna elettorale, appare evidente che in tanti non hanno fatto buona memoria del famoso detto secondo il quale è meglio tener chiusa la bocca e dare l’impressione di essere stupidi, piuttosto che aprirla e rimuovere ogni dubbio……….. E comunque, viva l’Italia.

Alitalia: fine del sindacato?



Giovedì, 10 aprile 2008
Continua la lenta agonia Alitalia. Senza una soluzione in vista e, - che più preoccupa, - con lo spettro del fallimento alle porte. A nulla sono valse le lunghe trattative tra Air France e Sindacati per pervenire ad una soluzione che ammorbidisse il peso degli esuberi evidenziati nel piano industriale del potenziale acquirente. Il Sindacato, anche se sarebbe più opportuno utilizzare il plurale dato che di ben nove sigle si parla, ha fatto una controproposta, che Spinetta, AD di Air France KLM e capo delegazione della parte offerente, ha considerato irricevibile, abbandonando il tavolo del confronto.
Fin qui, nulla di strano rispetto alla normale dinamica di qualunque trattativa sindacale. E’ grave che nel caso in questione non di una normale trattativa si tratti, ma di un tentativo di salvataggio della nostra Compagnia di bandiera al cui naufragio non potrà che seguire il fallimento ed il commissariamento. Questa situazione è ben chiara ai dipendenti della Compagnia, che stizziti da un atteggiamento dei vertici sindacali, nei fatti, autoreferenziale stanno meditando di tornare al tavolo della trattativa senza più avvalersi della rappresentanza delle rispettive sigle sindacali, che così maldestramente, - a loro dire, - hanno condotto sin qui il confronto.
L’ipotesi, qualora attuata, sarebbe dirompente, poiché sancirebbe il de profundis per un sindacato che ormai da lungo tempo è agonizzante ed incapace di rappresentare le istanze della base e che, nella realtà dei fatti, ha completamente e scientemente dismesso la veste di tutore degli interessi dei lavoratori per trasformarsi a tutti gli effetti nell’ennesimo interlocutore politico nello scenario del Paese. Si badi, con questo non si intende disconoscere il diritto per il sindacato di promuovere un proprio ruolo capace di condizionare le scelte della politica. Ma da qui ad assumere prevalentemente ruoli di supporto alla causa di questo o quel partito politico v’è una differenza immediatamente percepibile, che finisce per confinare le istanze dei lavoratori in una posizione subalterna agli umori dei partiti ed al loro quotidiano scontro. Istruttiva è a questo proposito la recente e sofferta trattativa sul welfare e pensioni con il governo in carica, conclusasi con un’intesa fortemente penalizzante per moltissimi lavoratori in procinto di andare in pensione e con montagne di penosi bla-bla sui provvedimenti necessari a ripristinare regole non precarie d’accesso al mercato del lavoro per i giovani. Il tutto in omaggio allo scontro politico in atto tra PD e PRC-PDCI da una parte ed i soliti falchi di AN-CdL dall’altra, che all’interno delle singole sigle sindacali hanno i loro referenti.
Ovviamente nei santuari del potere sindacale, dove la dialettica per la supremazia delle idee si è trasformata in sordida guerra di poltrona, il malessere serpeggiante nella base non è stato ben compreso, anzi in qualche caso , - come nella CISL e nella UIL, - è stato volutamente ignorato, sull’onda di un decisionismo verticistico che da tempo ha cancellato ogni meccanismo democratico di controllo sull’operato delle Segreterie. Con il risultato che sempre più i lavoratori si sentono allo sbando e migrano da una sigla all’altra nella speranza di vedersi meglio tutelati; e sempre più i leader sindacali si prestano al pubblico mediatico spacciando il proprio pensiero e le proprie ambizioni per volontà degli iscritti.
Negli anni ottanta si assistette alla ormai mitica marcia dei quarantamila della FIAT, che intendeva non solo protestare verso l’incapacità del sindacato di capire le esigenze di categorie di lavoratori non rappresentati dal sindacato ancorato ai vecchi schemi di un pan-operaismo vecchio stampo, che comunque nei momenti di necessità chiamava alla lotta anche chi non tutelava. Quella protesta rappresentò una pietra miliare nel processo di disgregazione della rappresentatività, alla quale non fu data alcuna risposta e che iniziò un’epoca di proliferazione di corporativismi ed autonomie d’alternativa allo storico monopolio di CGIL, CISL e UIL.
Sebbene da quegli eventi siano passati quasi trent’anni, il sindacato non ha subito alcun processo d’ammodernamento, ma per certi versi ha serrato i ranghi concentrandosi sempre più in una politica autoreferenziale di tutela, nella quale il confronto con gli iscritti o è episodico o comunque è pilotato dalle ambizioni di delegati e quadri sindacali con a cuore la compiacenza ai propri vertici che ai bisogni degli iscritti.
L’epilogo della questione Alitalia, che coinvolge migliaia di famiglie di lavoratori, rischia dunque con l’eventuale estromissione del sindacato ufficiale dal tavolo del confronto di costituire lo strappo finale, il colpo di piccone risolutivo all’ultimo simbolico muro di Berlino della nostra epoca.
Fu Aristotele a concludere che tutto è politico nell’espletamento delle attività umane, ma è dubbio che con questa enunciazione il grande filosofo intendesse appiccicare un’etichetta partitica anche all’esercizio di salvaguardia dei diritti delle parti per definizione deboli nel rapporto di lavoro. D’altra parte fino a quando il futuro di milioni di giovani in cerca d’occupazione stabile dovrà vedersi condizionato dalle strategie elettorali di Berlusconi e Fini o subordinato agli umori di Veltroni e Franceschini, a cui si conformano a turno le segreterie sindacali e non diverrà invece oggetto primario delle lotta di CGIL, CISL, UIL e quant’altri faccia parte di questo mesto scenario di reggi bordone, non v’è ragione per la quale i lavoratori sprechino i loro già pochi soldi in inutili tessere di affiliazione.

mercoledì, aprile 02, 2008

Alitalia e Malpensa. Una vicenda con sciacalli, imbroglioni e opportunisti.

Martedì, 1 aprile 2008
Da qualche mese non si fa che parlare di Alitalia e di Malpensa come di due entità il cui destino sembra strettamente interconnesso, nel senso che il tracollo della prima non può che produrre venefici effetti sulla seconda. In verità il destino della compagnia di bandiera e dell’hub milanese sono strettamente legati, visto che l’aeroporto in questione è stato costruito al suon di miliardi delle vecchie lire proprio per soddisfare le ambizioni di rilancio di Alitalia, che di Malpensa già negli anni 90 pensava di fare lo scalo di riferimento dei suoi traffici nazionali ed internazionali.
Il progetto aeroportuale, portato a compimento nell’anno 2000, pur con qualche limitazione sia di piste di decollo che di terminal, ma comunque tra interminabili polemiche con le amministrazioni dei paesi gravitanti nell’area, che lamentavano livelli insopportabili di inquinamento, sembrava dover rispondere moderne alle esigenze del traffico aereo, previste in rapida riorganizzazione in tutta Europa per effetto delle liberalizzazioni dei cieli e l’abbattimento delle politiche protezionistiche del traffico aereo nazionale nell’Europa comunitaria.
Contrariamente alle previsioni, il completamento di Malpensa, sebbene parziale, è coinciso con l’inesorabile declino della competitività di Alitalia, incapace di reggere la concorrenza non solo degli altri vettori internazionali e delle compagnie low cost, ma anche l’impatto di una politica sempre più invasiva dell’economia, che ha rafforzato la capacità interdittiva e condizionante di scelte imprenditoriali che nulla avrebbero dovuto spartire con la politica medesima. Chi non ricorda le durissime polemiche sul ridimensionamento di Linate, nei fatti mai avvenuto, che ha compromesso in modo decisivo il decollo di Malpensa? Come non tenere conto degli esiziali tentennamenti del management di Alitalia nello sciogliere il dilemma se trasferire il personale sullo scalo di Malpensa da quello di Fiumicino per abbattere il costo del riposizionamento giornaliero degli equipaggi? Come non considerare l’assurda ed omissiva politica dei trasporti della Regione Lombardia nella progettazione di infrastrutture di collegamento rapide tra Milano ed il nuovo aeroporto sperduto nelle irraggiungibili nebbie del Varesotto? Chi ha dimenticato le battaglie sindacali, di quei sindacati che oggi piangono sul latte versato, in difesa degli assurdi privilegi dei dipendenti Alitalia e degli aeroporti o per costringere la stabilizzazione di schiere e schiere di lavoratori stagionali?
I quesiti da porsi per spiegare la fase prefallimentare in cui Alitalia si trova sono tanti e coinvolgono tutte le forze politiche senza eccezione alcuna, in un balletto di responsabilità che definire da voltastomaco non rende a sufficienza l’idea dei misfatti che sono stati compiuti per giungere alla conclusione cui si è davanti. Adesso, sempre nella certezza della fragilità della memoria della gente comune, gli stessi politici e gli stessi partiti, sindacati compresi, scendono in campo per addossare agli oppositori quanto è frutto delle proprie dissennate pressioni e si ergono a paladini di improbabili soluzioni per la salvezza del moribondo.
Qualche richiamo non sarà inutile per rinfrescare la memoria, dato che Lega con il signor Bossi e gregari può vantare più di un corteo e qualche blocco stradale in difesa degli interessi dei "poveri" abitanti del circondario aeroportuale, frastornati dall’insopportabile rumore degli aerei in atterraggio e decollo e per questo spesso risarciti a fior di milioni per vedere alleviate le proprie sofferenze. Certo, fa un po’ specie che adesso gli stessi personaggi siano scesi in campo per difendere ciò che sino ad ieri hanno attaccato con spudorata veemenza.
C’è poi chi Air France l’aveva caldeggiata da Presidente del Consiglio, indicandola come la compagnia dal cui accordo con Alitalia non avrebbero potuto che derivare opportunità. Adesso lo stesso personaggio punta il dito sulla crudeltà del piano Spinetta e, prima spara la balla spaziale dell’inesistente cordata di imprenditori nazionali pronti a fare un’offerta alternativa ad Air France, poi promette che da prossimo Premier di questa Repubblica delle banane metterà in campo ogni misura per sbarrare il passo ai cattivi imprenditori francolandesi.
C’è chi nel consiglio d’amministrazione d’Alitalia vi è pure stato, sia da presidente che da consigliere. Lo stesso, cambiato il cappello, grazie alle lottizzazioni politiche cui partecipa a quattro ganasce anche quella Lega che si dichiara al di sopra di questi metodi da prima repubblica, oggi presidente di quella SEA proprietaria di Malpensa, non dice mica cosa non ha fatto quando stava in Alitalia per risolvere i problemi della compagnia di bandiera e dell’hub varesino, ma assurge a paladino degli interessi di Malpensa e dei suoi amici leghisti di Varese ed accusa Alitalia di tradimento – ha promosso contro la compagnia una causa da 1200 milioni di euro perché sarebbe venuta meno agli impegni assunti a suo tempo sul trasferimento dell’hub da Fiumicino a Malpensa.
Se non bastasse, scende in campo anche il signor Formigoni, brillante ex governatore della Regione Lombardia, che dichiara di non poter accettare il piano Air France per le gravi ricadute che lo stesso avrebbe sull’occupazione di Malpensa e sul traffico aereo in Lombardia. Naturalmente la sua faccia tosta vuole che non confessi che i guai dell’hub sono da imputare anche alla gravissima insufficienza di mezzi di collegamento tra la città e quell’aeroporto, che raggiungere per via stradale rende consigliabile la stesura di un testamento a futura memoria, dato il traffico apocalittico che intasa perennemente il raccordo Torino-Venezia su cui obbligatoriamente si deve transitare; mentre il collegamento ferroviario è monopolio delle Ferrovie Nord Milano, protettorato di AN, che ha imposto tariffe da TGV per la percorrenza di appena 40 kilometri. Né è pensabile ricorrere al taxi e non solo per le già menzionate problematiche di traffico, quanto per la rapina legalizzata cui il disgraziato passeggero è sottoposto, costretto a pagare cifre a cavallo dei 100 euro, con il benestare dell’amministrazione comunale e regionale cui compete fissare le tariffe.
Se tutto ciò non bastasse o dovesse venir tacciato di sinistrismo, etichetta che tanto sta a cuore a tutti i personaggi che abbiamo citato, vorremmo richiamare l’attenzione sul fatto che l’azienda Alitalia è stata gestita da sempre, - se mai di gestione è possibile parlare e non sia più il caso di usare definizioni più pertinenti, - da personaggi nominati dalla DC, quando questa esisteva, e dai suoi derivati quando questo partito è scomparso. Pretendere di accollare la responsabilità della disfatta Alitalia al governo Prodi, - che di responsabilità ne avrà tante ma non certo questa, anche se il signor Prodi in tema di privatizzazioni ha dimostrato in altre occasioni passate che pur di disfarsi di pesi considerati inutili non esita a concludere operazioni al limite dell’autolesionismo per gli interessi del Paese, - peraltro in un rigurgito di becero e disgustoso nazionalismo di maniera, è oltremodo dequalificante per chi lo fa sapendo di mentire, se non una squallida manovretta di mera propaganda elettorale.
In questo scenario vi sono infine i sindacati, i sedicenti rappresentanti degli interessi dei lavoratori, che in mille occasioni hanno forzato la mano a governi e consigli d’amministrazione di aeroporti e compagnie aeree, Alitalia in testa, pur di conseguire i loro discutibili traguardi in tessere sindacali e benefici personali per qualche loro esponente.
In questo quadro di disastro nazionale, il cui epilogo è coinciso con la campagna elettorale, tutti hanno approfittato nell’alzare la voce in difesa dell’indifendibile e comunque tardivamente per sperare di raddrizzare le sorti di Alitalia. Ma anche se ciò fosse stato ancora possibile, l’eventualità non autorizzava alcuna delle pie congregazioni a speculare in modo così meschino su una vicenda nella quale gli stessi hanno giocato negativamente in modo in equivoco.
E’ noto che le campagne elettorali sono infarcite di mille espedienti propagandistici per accaparrarsi i consensi, ma non è eticamente lecito consentire a sciacalli, opportunisti e qualche imbroglione farsi campagna di proselitismo sulle disgrazie altrui, specialmente quando a queste disgrazie hanno in qualche misura dato un significativo contributo.