giovedì, aprile 24, 2008

Sicilia una cultura da riformare


Giovedì, 24 aprile 2008
Una recente indagine condotta tra i giovani tra siciliani negli scorsi giorni ha evidenziato che il 60% degli intervistati è fortemente convinto che la classe politica dell’isola sia collusa con la mafia, o comunque con il sistema malavitoso che endemicamente ammorba la società.
Il dato, ovviamente, è privo di qualsiasi elemento probatorio e serve solo a misurare lo stato di affidabilità della politica nella percezione delle nuove generazioni. Tuttavia, le sue conclusioni suonano terribilmente allarmanti per diversi ordini di ragioni, oltre a sancire lo stato di profonda crisi istituzionale e sociale in cui versa la Regione in questione. Crisi che investe certamente la classe politica in sé, incapace di trasferire ai governati un immagine di correttezza e trasparenza in grado di promuovere comportamenti virtuosi e, che, per converso, mostra il tessuto sociale siciliano gravemente prostrato da una frustrazione ed una assuefazione che non lasciano intravvedere niente di positivo per il futuro.
La Sicilia, oltre che per le sue bellezze naturali e per il clima generoso, è tristemente nota per aver dato i natali ad uno dei fenomeni delinquenziali più significativi del pianeta, che affonda le sue radici in decenni di storia di latitanza delle istituzioni, di inefficienza dell’amministrazioni pubblica, di sperperi di danaro e risorse, in un clima di profondo degrado economico e povertà diffusa, che ha stimolato la sedimentazione di una diffusa cultura dell’arrangiarsi per sopravvivere. In questo scenario, che non ha alcunché di ignoto e che da decenni è oggetto di studi sociologici ed economici, la mafia e la fenomenologia delinquenziale connessa hanno avuto modo di radicarsi saldamente, sino al punto di divenire per intere classi di diseredati e senza speranza una vera e propria attività economica ed imprenditoriale, alternativa alla latitanza dello stato ed alla sua incapacità di promuovere il processo di integrazione dei Siciliani con l’Italia, prima, e con l’Europa, successivamente. D’altra parte, quando la delinquenza organizzata nell’immediato dopoguerra ha effettuato il salto di qualità, trasformandosi da criminalità rurale al soldo delle antiche baronie in criminalità imprenditoriale, è divenuta vera e propria impresa in grado di garantire un’occupazione ed un reddito nei mille rivoli delle attività di riciclaggio ad eserciti di disoccupati, di senza lavoro più o meno istruiti impossibilitati ad impiegarsi in un industria legale scarsamente presente, destinati diversamente ad emigrare per ingrossare le file del proletariato emarginato nelle grandi fabbriche del nord del Paese.
Com’è ipotizzabile ed allo stesso tempo confermato dalle migliaia di casi giudiziari di cui sono stati artefici pubblici amministratori, politici locali e nazionali siciliani, la potenza del sistema malavitoso ha invaso la politica, di cui certamente aveva bisogno per ottenere una parvenza di legalità alle operazioni che ha condotto o per condizionare l’emanazione di leggi e provvedimenti attraverso i quali sviluppare i propri affari. In questo la politica, diretta espressione dei clan o in accordi scellerati con i suoi esponenti di spicco, ha inferto il colpo di grazia ad un sistema sociale ormai incapace di sperare e – quel che è peggio – di affrancarsi dall’abbraccio mortale di un sistema che l’ha ridotto allo stremo e sulla cui reversibilità vi sono serie ipoteche.
Per certi aspetti il sistema mafioso è divenuto esso stesso sistema culturale, conferendo al Siciliano un imprinting del tutto peculiare e che traspare evidente anche nella vita quotidiana: arroganza, pressapochismo, diffidenza, reticenza ed omertà, indolenza, disprezzo per le regole di convivenza civile, supponenza, strafottenza, dileggio della legge e così via, sono atteggiamenti dominanti e diffusi, che rendono molto spesso problematica la convivenza. Persino l’esternazione di sentimenti positivi è talvolta sospetta, poiché generosità, disponibilità, senso dell’ospitalità più che genuine esternazioni di cultura mutualistica nascondono inconsciamente compiacenza seduttiva o divengono i sofisticati veicoli per affermare la propria supremazia nei confronti dell’altro, che a sua volta finisce per cadere nella trappola psicologica e per avvertire un debito immateriale forte verso chi tali sentimenti gli ha esternato. Da questo punto di vista la mafia non è solo criminalità, ma è anche cultura, pathos popolare connotativo le cui radici sono profonde e si tramandano da una generazione all’altra senza soluzione di continuità, con regole non scritte che, in qualche caso, hanno valore cogente largamente superiore alla legge dello stato o rendono queste più pregnante quando casualmente coincidono.
Ovviamente l’analisi non intende dare dei Siciliani tutti un’immagine né di criminali in esercizio né di criminali potenziali, dato che per fortuna la Sicilia può vantare schiere di persone oneste che aborrono qualsiasi manifestazione di malaffare. Tuttavia, non v’è dubbio che la predominanza di una certa cultura della giustificazione e la battaglia per la sopravvivenza quotidiana possono indurre ad attribuire a certe devianze un peso specifico più contenuto, come se le stesse, in fondo, avessero una valenza immanente legata al destino, che rende più lievi fenomeni per altri più importanti. Per meglio comprendere il senso di questa considerazione è esemplare il festeggiamento di Totò Cuffaro, ex Presidente della Regione costretto alle dimissioni da una condanna inflittagli nel corso di un processo per mafia, che, sebbene condannato a ben cinque anni di reclusione, ha ritenuto opportuno organizzare una festa con i propri amici e sostenitori per esser riuscito a scrollarsi un’aggravante di pena per il reato di associazione mafiosa. Per la cronaca, il signor Cuffaro nella prossima legislatura siederà a Palazzo Madama, tra i benemeriti senatori della Repubblica, grazie al voto plebiscitario che gli hanno conferito i Siciliani.In questa prospettiva, l’indagine condotta sulle percezioni dei giovani, ancorché priva di elementi probatori apre l’ennesimo capitolo di riflessione per il Paese, che ci si augura avverta il dovere di avviare una campagna di attenzione e riqualificazione della Sicilia e dell’intero Meridione d’Italia, che passi primariamente attraverso una riqualificazione della politica, inibendo ai collusi comprovati ed ai sospetti l’accesso a cariche di responsabilità e di governo anche locale, e promuova l’esordio di quello sviluppo del Mezzogiorno che lo renda finalmente moderno e produttivo, lontano dal canto di malefiche sirene; che lo affranchi dall’eterno bilico di terra a metà strada tra il Nord Africa e l’Europa e che ridia speranza alla gente di buona volontà.

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