La Waterloo elettorale della sinistra
Mercoledì, 16 aprile 2008
La tornata elettorale si è conclusa e, com’era nelle previsioni, PdL e la Lega hanno vinto il confronto e si avvicenderanno al governo Prodi. Ciò che non era prevedibile era il margine con il quale ciò che fino ad ieri costituiva l’opposizione ha vinto la sfida, margine di quasi dieci punti percentuali, che non lascia spazio alcuno a recriminazioni e che suona di condanna inappellabile per gli sconfitti.
Ma l’elemento dirompente non è solo l’abbondante percentuale con la quale il centro-destra si è aggiudicato il confronto, poiché il responso elettorale ha sancito la scomparsa dallo scenario parlamentare di tutta la sinistra, che non ha raggiunto il 4% minimo previsto dalle regole sullo sbarramento. Questo fatto, senza precedenti nella storia repubblicana, costituisce un elemento di sconfitta per la vecchia coalizione che va ben al di là della semplice affermazione del centro-destra, in quanto è il segno palpabile del rancore popolare che Prodi e la sua armata Brancaleone sono stati in grado di collezionare nel fugace biennio di governo e che, alla fine, ha colpito senza appello l’ala della coalizione dalla quale l’elettorato forse di più si sarebbe atteso o che di quel governo ha reso debole l’azione.
Nel fare queste considerazioni non va infatti sottovalutato che PRC e PdCI sono partiti alla cui base è radicato un forte orientamento ideologico e, pertanto, la sconfitta elettorale suona come la condanna di quei principi, come la pena più dura da comminare a chi, nei fatti, ha tradito ogni aspettativa. Per Verdi e PSI le motivazioni della bocciatura non sono sicuramente così forti e sono più verosimilmente da attribuire alla sostanziale marginalità del ruolo giocato dalle due compagini nel vecchio esecutivo. Nel caso dei Verdi inoltre ha certamente influito negativamente sulla pubblica opinione la scriteriata guerra all’alta velocità e l’incapacità di individuare soluzioni positive a dramma spazzatura che ancora attanaglia Napoli.
Che queste ipotesi abbiano un loro fondamento è confermato dal successo del PD, che non solo ha tenuto al terremoto elettorale, ma è riuscito a guadagnare qualche punto percentuale, quantunque frutto della migrazione del voto dalla sinistra estrema al centro dello schieramento parlamentare.
Queste ragioni rendono inconsistenti parecchi degli alibi esibiti a giustificazione della disfatta elettorale dai leader di PRC e PdCI, che avrebbero ricercato il crollo di consenso del cosiddetto voto utile e nella novità del simbolo elettorale. Nel primo caso, non pare che le perdite di consenso di PRC e PdCI siano andate a favore del PD, visto che questo partito ha sì visto un incremento ma comunque lontano da quel 5% abbondante venuto meno ai due schieramenti della sinistra radicale. In quanto al simbolo dell’Arcobaleno, l’ipotesi per quanto suggestiva non ha riscontro, dato che anche a destra v’era la novità del PdL, che invece è riuscita a fare incetta dei voti del dissenso.
V’è davanti a queste affermazioni il sospetto che ancora una volta i leader della sinistra si stiano dimostrando assolutamente incapaci di comprendere le ragioni del proprio elettorato e della debacle e tendano piuttosto a chiudersi in un bozzolo autassolutorio, che non porta da nessuna parte: la sinistra è stata sconfitta a causa della sua inettitudine nell’incidere sulle scelte scellerate del governo Prodi, che a conti fatti avrà anche raddrizzato i conti pubblici, ma ha tradito le attese di milioni di pensionandi, ha lasciato irrisolti i gravissimi problemi del lavoro giovanile e del precariato, ha ridotto allo stremo milioni di famiglie allargando pericolosamente la soglia di povertà, si è dimostrata recalcitrante ad abbandonare una coalizione che non le ha mai permesso il minimo protagonismo in nome di un senso di responsabilità per la continuità dell’esecutivo, che è suonato più un inganno che non una ragione plausibile. Tutto ciò non è ammissibile per un governo di sinistra nel quale siano presenti forze politiche che da sempre hanno millantato un’attenzione prioritaria ai problemi dei lavoratori e delle categorie più deboli della società. Esser venuti meno a questa missione ideologica pone in capo a Giordano, Bertinotti, Diliberto, Rizzo, Russo Spena e tutta l’allegra compagnia una responsabilità storica difficilmente eludibile ed, allo stesso tempo, costituisce una seria ipoteca per i movimenti guidati da quei leader di riuscire in futuro a ricompattarsi e recuperare la rappresentatività perduta. Nello stesso tempo, essersi riempiti la bocca di slogan come egualitarismo, giustizia sociale, migliori condizioni del lavoro, e quant’altro tipico del retaggio della loro ideologia politica, mentre i morti sul lavoro ci hanno ridotto a paese del terzo mondo, mentre milioni di giovani hanno continuato ad ingrossare le fila dell’esercito dei precari sfruttati, mentre la massa delle famiglie italiane faceva e fa fatica a sbarcare il lunario, senza muovere un dito o spacciando l’attaccamento alla poltrona per quel senso di responsabilità sopra ricordato, tra ridicoli tesoretti saltati fuori come conigli dal cappello del prestigiatore e risse vergognose per il loro utilizzo, ha certamente e definitivamente scosso le coscienze degli elettori, che hanno individuato in questi personaggi quella frangia di razza padrona in ombra, pronta a qualunque misfatto ed eresia pur di mantenere il proprio privilegio.
La politica dovrebbe essere cosa seria, se fatta con passione, dedizione e senso del bene comune. In tanti già dalla fine della cosiddetta prima repubblica l’hanno resa mero esercizio del proprio interesse privato e, addirittura, abuso e sopruso ai danni del cittadino. Se in questo squallore dominante ha finito per farsi coinvolgere anche chi da sempre aveva fatto voto di difendere le più elementari regole della convivenza solidale, allora vuol dire che s’è chiusa un’epoca, una fase storica le cui rovine sono sotto gli occhi di tutti e che non possono attribuirsi a ridicole considerazioni sui simboli di partito o al canto delle sirene altrui che invitano a votare per sé.
Il 13 e 14 aprile del 2008 passeranno alla storia non per glorificare il rinnovato successo di Berlusconi e la sua compagine, ma per la disfatta di quella sinistra che, per milioni di persone, aveva rappresentato l’ultima spiaggia contro il dilagare del malgoverno, dell’indifferenza del potere verso le loro condizioni e quel divario sociale ogni giorno più ampio; quel popolo, che stanco degli inganni e dell’inettitudine dei suoi governanti, ha detto democraticamente basta.
Non sappiamo adesso quanto la sinistra, nel suo complesso, sarà in grado di avviare il dibattito interno con sufficiente autocritica e senza trincerarsi negli alibi delle colpe altrui piuttosto che le proprie per motivare la propria disfatta. E’ certo che senza l’ammodernamento delle idee ed una rinnovata vicinanza ai problemi del paese reale, fuori dagli slogan e dalle dichiarazioni ad effetto, sarà difficile risorgere dalla cenere e sperare di riconquistare la credibilità in un elettorato nel quale le ferite del tradimento resteranno a lungo aperte.
Ma l’elemento dirompente non è solo l’abbondante percentuale con la quale il centro-destra si è aggiudicato il confronto, poiché il responso elettorale ha sancito la scomparsa dallo scenario parlamentare di tutta la sinistra, che non ha raggiunto il 4% minimo previsto dalle regole sullo sbarramento. Questo fatto, senza precedenti nella storia repubblicana, costituisce un elemento di sconfitta per la vecchia coalizione che va ben al di là della semplice affermazione del centro-destra, in quanto è il segno palpabile del rancore popolare che Prodi e la sua armata Brancaleone sono stati in grado di collezionare nel fugace biennio di governo e che, alla fine, ha colpito senza appello l’ala della coalizione dalla quale l’elettorato forse di più si sarebbe atteso o che di quel governo ha reso debole l’azione.
Nel fare queste considerazioni non va infatti sottovalutato che PRC e PdCI sono partiti alla cui base è radicato un forte orientamento ideologico e, pertanto, la sconfitta elettorale suona come la condanna di quei principi, come la pena più dura da comminare a chi, nei fatti, ha tradito ogni aspettativa. Per Verdi e PSI le motivazioni della bocciatura non sono sicuramente così forti e sono più verosimilmente da attribuire alla sostanziale marginalità del ruolo giocato dalle due compagini nel vecchio esecutivo. Nel caso dei Verdi inoltre ha certamente influito negativamente sulla pubblica opinione la scriteriata guerra all’alta velocità e l’incapacità di individuare soluzioni positive a dramma spazzatura che ancora attanaglia Napoli.
Che queste ipotesi abbiano un loro fondamento è confermato dal successo del PD, che non solo ha tenuto al terremoto elettorale, ma è riuscito a guadagnare qualche punto percentuale, quantunque frutto della migrazione del voto dalla sinistra estrema al centro dello schieramento parlamentare.
Queste ragioni rendono inconsistenti parecchi degli alibi esibiti a giustificazione della disfatta elettorale dai leader di PRC e PdCI, che avrebbero ricercato il crollo di consenso del cosiddetto voto utile e nella novità del simbolo elettorale. Nel primo caso, non pare che le perdite di consenso di PRC e PdCI siano andate a favore del PD, visto che questo partito ha sì visto un incremento ma comunque lontano da quel 5% abbondante venuto meno ai due schieramenti della sinistra radicale. In quanto al simbolo dell’Arcobaleno, l’ipotesi per quanto suggestiva non ha riscontro, dato che anche a destra v’era la novità del PdL, che invece è riuscita a fare incetta dei voti del dissenso.
V’è davanti a queste affermazioni il sospetto che ancora una volta i leader della sinistra si stiano dimostrando assolutamente incapaci di comprendere le ragioni del proprio elettorato e della debacle e tendano piuttosto a chiudersi in un bozzolo autassolutorio, che non porta da nessuna parte: la sinistra è stata sconfitta a causa della sua inettitudine nell’incidere sulle scelte scellerate del governo Prodi, che a conti fatti avrà anche raddrizzato i conti pubblici, ma ha tradito le attese di milioni di pensionandi, ha lasciato irrisolti i gravissimi problemi del lavoro giovanile e del precariato, ha ridotto allo stremo milioni di famiglie allargando pericolosamente la soglia di povertà, si è dimostrata recalcitrante ad abbandonare una coalizione che non le ha mai permesso il minimo protagonismo in nome di un senso di responsabilità per la continuità dell’esecutivo, che è suonato più un inganno che non una ragione plausibile. Tutto ciò non è ammissibile per un governo di sinistra nel quale siano presenti forze politiche che da sempre hanno millantato un’attenzione prioritaria ai problemi dei lavoratori e delle categorie più deboli della società. Esser venuti meno a questa missione ideologica pone in capo a Giordano, Bertinotti, Diliberto, Rizzo, Russo Spena e tutta l’allegra compagnia una responsabilità storica difficilmente eludibile ed, allo stesso tempo, costituisce una seria ipoteca per i movimenti guidati da quei leader di riuscire in futuro a ricompattarsi e recuperare la rappresentatività perduta. Nello stesso tempo, essersi riempiti la bocca di slogan come egualitarismo, giustizia sociale, migliori condizioni del lavoro, e quant’altro tipico del retaggio della loro ideologia politica, mentre i morti sul lavoro ci hanno ridotto a paese del terzo mondo, mentre milioni di giovani hanno continuato ad ingrossare le fila dell’esercito dei precari sfruttati, mentre la massa delle famiglie italiane faceva e fa fatica a sbarcare il lunario, senza muovere un dito o spacciando l’attaccamento alla poltrona per quel senso di responsabilità sopra ricordato, tra ridicoli tesoretti saltati fuori come conigli dal cappello del prestigiatore e risse vergognose per il loro utilizzo, ha certamente e definitivamente scosso le coscienze degli elettori, che hanno individuato in questi personaggi quella frangia di razza padrona in ombra, pronta a qualunque misfatto ed eresia pur di mantenere il proprio privilegio.
La politica dovrebbe essere cosa seria, se fatta con passione, dedizione e senso del bene comune. In tanti già dalla fine della cosiddetta prima repubblica l’hanno resa mero esercizio del proprio interesse privato e, addirittura, abuso e sopruso ai danni del cittadino. Se in questo squallore dominante ha finito per farsi coinvolgere anche chi da sempre aveva fatto voto di difendere le più elementari regole della convivenza solidale, allora vuol dire che s’è chiusa un’epoca, una fase storica le cui rovine sono sotto gli occhi di tutti e che non possono attribuirsi a ridicole considerazioni sui simboli di partito o al canto delle sirene altrui che invitano a votare per sé.
Il 13 e 14 aprile del 2008 passeranno alla storia non per glorificare il rinnovato successo di Berlusconi e la sua compagine, ma per la disfatta di quella sinistra che, per milioni di persone, aveva rappresentato l’ultima spiaggia contro il dilagare del malgoverno, dell’indifferenza del potere verso le loro condizioni e quel divario sociale ogni giorno più ampio; quel popolo, che stanco degli inganni e dell’inettitudine dei suoi governanti, ha detto democraticamente basta.
Non sappiamo adesso quanto la sinistra, nel suo complesso, sarà in grado di avviare il dibattito interno con sufficiente autocritica e senza trincerarsi negli alibi delle colpe altrui piuttosto che le proprie per motivare la propria disfatta. E’ certo che senza l’ammodernamento delle idee ed una rinnovata vicinanza ai problemi del paese reale, fuori dagli slogan e dalle dichiarazioni ad effetto, sarà difficile risorgere dalla cenere e sperare di riconquistare la credibilità in un elettorato nel quale le ferite del tradimento resteranno a lungo aperte.
1 Commenti:
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