Alitalia: una trattativa già segnata sul nascere
Sabato, 20 settembre 2008
Il fallimento delle trattative per la cessione dell’Alitalia alla CAI, che qualcuno da destra e da sinistra sta cercando di recuperare in base al principio del “tanto meglio tanto peggio” e mentre un deluso Berlusconi continua a stillare veleno contro Cgil ed Anpac, accusate di essere le uniche e vere responsabili dell’eventuale fallimento della Compagnia, costituisce gioco forza un momento di pausa, che consente di fare il punto sulla situazione, magari per precisare quanto sino ad oggi non è stato detto, né dalle parti in causa né da una certa stampa sedicente obiettiva e d’informazione, che dimostra con le sue omissioni come abbia piuttosto subito qualche condizionamento dagli attori di questa miserevole vicenda.
Il piano Fenice. Intesa S. Paolo viene incaricata dall’attuale governo, che la nomina advisor, di elaborare un piano di salvataggio per l’Alitalia, che ne definisca valore, piano industriale di rilancio, dotazione di capitale, organici, tratte operative, costi sostenibili e prospettive di redditività.
La banca elabora sì un piano, di cui peraltro lo stesso Berlusconi si innamora, ma mette in piedi una cordata di imprenditori nazionali, la CAI, che sposa quel piano e decide di avvalersi per l’avvio e la gestione della trattativa con le parti sociali della consulenza della stessa banca, che da quel momento si ritrova in evidentissimo conflitto d’interesse, su cui nessuno indaga o muove il minimo sospetto.
Il piano, presentato al tavolo del negoziato come “blindato”, prevede la fusione di Alitalia con la concorrente AirOne di Carlo Toto ed ai due vettori aerei viene rispettivamente accordata la seguente valutazione: poco più di 300 mila euro per la vecchia Alitalia, proprietaria di 140 aeromobili e affittuaria di altri 100 aerei e titolare di slot per decine di milioni, e 300 mila euro alla AirOne, proprietaria di qualche decina di slot e con una flotta di 65 aeromobili interamente noleggiati, che gravano sul bilancio in modo rilevante causa l’elevata rata di leasing garantita dalle banche. Il passivo di Alitalia, pari ad 1,4 miliardi all’aprile di quest’anno, confluirà nella cosiddetta bad company e l’onere sarà a carico dei contribuenti, dato che il marciume resterà in carico al Tesoro. L’AirOne, nonostante le più contenute dimensioni rispetto alla concorrente da impalmare, presenta una situazione debitoria vicina al miliardo all’inizio del corrente anno: nulla si dice circa la confluenza dei debiti in questione, ma logica lascerebbe presumere che il matrimonio sarà consumato nella buona sorte così come nella cattiva, cioè con accollo alla bad company anche di questo debito, che il mitico Pantalone sarà chiamato a soddisfare in comode rate.
Sulla questione esuberi si è assistito ad un valzer di numeri, peraltro mai smentiti, a dir poco vergognoso, dato che si è sempre parlato di 3.000/3.250 eccedenti, senza che in concreto i dati siano stati verificati. Il complesso dell’organico delle due società è infatti pari a 22.500 dipendenti circa, dunque se si assume che i dipendenti dichiarati assorbibili dalla CAI erano stati stimati in 12.500 (tra l’altro dopo il rilancio di Colaninno a poche ore dal fallimento della trattativa di assumere altri 1.000 dipendenti), gli esuberi totali avrebbero dovuto ammontare a 10.000 unità, cioè ad una cifra mai emersa nel corso della trattativa né evidenziata da alcun organo di stampa.
Il piano industriale presentato dalla CAI prevedeva l’esercizio di 65 rotte con 140 aerei, tra europee e nazionali, talune già abbondantemente coperte da compagnie low cost, con le quali entrare in concorrenza è da ritenersi più che avventuroso, che nelle previsioni degli estensori del piano – ma sarebbe più appropriato parlare di speranze – avrebbero dovuto condurre al pareggio di bilancio nell’arco di un biennio. Nulla si diceva dell’esercizio di rotte intercontinentali, in gestione diretta o in partnership o code sharing con altri vettori, tratte sulle quali si gioca l’effettiva redditività di una compagnia aerea. Come ha rilevato qualche attento osservatore, «anche ipotizzando un incremento non trascurabile di efficienza, con un aumento significativo del fatturato medio per velivolo, ci si dovrebbe attendere comunque una riduzione molto elevata del fatturato complessivo della CAI rispetto all’aggregato delle due compagnie preesistenti, che non trova tuttavia corrispondenza nel piano industriale. I media riportano un valore di 4,3 miliardi di euro, destinato a crescere negli anni successivi sino a 5,2 miliardi, mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9 miliardi. In sostanza mentre nel 2007 un aereo delle due compagnie produceva in media 20 milioni di ricavi, già nel primo anno di attività della nuova Alitalia ne porterebbe a casa ben 31 milioni (il 56% in più). Un risultato strabiliante, non c’è che dire, per degli imprenditori che non si sono mai occupati in precedenza di trasporto aereo, con l’eccezione del solo Toto, che non pare abbia brillato per efficienza manageriale al cockpit di AirOne».
La trattativa. Costituisce l’aspetto più anomalo dell’intera vicenda. I dipendenti Alitalia aderiscono a ben 9 sigle sindacali, rispettivamente ANPAC, ANPAV, AVIA, UP, SDL, FIT-CGIL, FILT-CISL, UIL Trasporti e UGL, oltre ad avere una RSA, che sin dall’inizio delle trattative è stata tenuta fuori dai negoziati: in ogni caso uno spezzatino, spesso corporativo, in cui è difficile districarsi. Le sigle confederali e l’UGL costituiscono insieme poco più del 21,0% degli iscritti al sindacato, quindi sono largamente minoritarie rispetto al peso dei raggruppamenti autonomi e di categoria; in particolare l’UGL rappresenta una percentuale priva di significato nel panorama descritto.
Nonostante i numeri sopra detti, il vertice della CAI ed il Governo si ostinato a convocare al tavolo quali interlocutori privilegiati della trattativa i Confederali e l’UGL e con questi ha preteso sino all’ultimo istante di concludere un accordo, che consentisse di considerare chiusa la questione Alitalia. E tale risultato era stato in parte raggiunto con l’intesa sottoscritta nel corso di una nottata di trattative con CISL, UIL e UGL e l’elaborazione di un documento programmatico che dava il via libera all’operazione CAI, tra le più che motivate proteste delle sigle sindacali escluse. La stessa CGIL, desiderosa di non incorrere nello stesso gravissimo errore commesso alcuni mesi or sono con la firma dell’intesa sul welfare e riforma delle pensioni, riteneva opportuno comunicare la propria adesione con riserva al documento, riserva da sciogliere solo a condizione di realizzare una larga convergenza con le sigle sindacali escluse dal tavolo della trattativa e rappresentative di quasi l’80% dei dipendenti della Compagnia. Com’è noto, tale convergenza non si è realizzata e la CAI ha comunicato il ritiro dal tavolo del negoziato.
Sorprendentemente al tavolo della trattativa non è mai stato chiamato alcun rappresentante della AirOne, il cui personale avrebbe comunque dovuto seguire le sorti di quello Alitalia o, come si può presumere dal silenzio nel quale è stata confinata la cosa, pagare persino un prezzo più elevato di quello riservato ai dipendenti Alitalia, come si trattasse di un organico figlio di un dio minore.
Le osservazioni. Dalla cruda sintesi emergente dai dati sopra riportati, - reperibili da chiunque avesse voglia di dedicare qualche giornata del proprio tempo alla consultazione dei vari articoli di giornale, siti web, blog e stampa on line, dato che le omissioni sulla completezza dell’informazione in quest’occasione sono state esemplari di come il regime abbia ormai soffocatola anche libertà di cronaca, - appare chiaro come la questione Alitalia presenti più di qualche buco nero, di cui imprenditoria, finanza e politica, hanno collusive ed omissive responsabilità. Si tratta di un pasticcio rancido nel quale non è secondario persino il ruolo di alcuni sindacati, ai quali i fumi dell’autoritarismo galoppante devono aver dato alla testa ed hanno fatto dimenticare loro che la democrazia è maggioranza, non certamente violenta imposizione del proprio ruolo anche nelle realtà in cui non si conta niente. Queste pratiche invasive e protagonistiche, che si sublimano nell’acquiescenza al potere dominante e che lasciano sottintendere la difesa di un inconfessabile tornaconto, in nome del quale si è disposti a sacrificare gli interessi di tanti e, se necessario, persino la faccia, sembrano riportare all’epoca dei sindacati gialli, ormai persi nella memoria, ma, a quanto si constata, mai sopiti nel perverso immaginario di qualche leader attuale.
Altrettanto sprezzante non può che essere il giudizio su certe rappresentanze del capitalismo e della finanza nostrana, formatosi ad una scuola di bassi compromessi e devotamente riconoscente in ogni circostanza possibile a quella classe politica che ne sponsorizza le azioni e ne ispira l’iniziativa. La superficialità con la quale si è vergato un documento lacunoso ed approssimativo e lo spaccio dello stesso per pomposo piano industriale non è solo un offesa ai lavoratori che guadagnano da vivere per sé e le loro famiglie nei carrozzoni che i loro padroni chiamano aziende, ma è uno schiaffo ai milioni di Italiani che hanno sborsato di tasca loro il contributo per mantenere in vita questi carrozzoni, costretti ad elargire stipendi e liquidazioni principeschi ai loro manager pusillanimi, spesso incapaci persino di gestire il proprio bilancio familiare, ma collocati in posti di prestigio solo per lecchinaggio alla politica. Non meno dure critiche possono rivolgersi alla politica, e non solo quella rappresentata da Berlusconi con la quale certamente s’è toccato il fondo, ma che sarebbe del tutto arbitrario ritenere in via privilegiata responsabile del disastro Alitalia. Nella catastrofica storia di Alitalia hanno responsabilità le decine di governi che dalla sua costituzione si sono succeduti alla guida del Paese, che hanno imposto assunzioni clientelari, l’accettazione di accordi sindacali demenziali, la gestione di tratte prive di ritorno economico, l’acquisizione di compagnie di amici in situazione fallimentare, l’impiego di manager amici ed amici degli amici, incapaci di distinguere un aereo da un pallone meteorologico, politiche di gestione della flotta suicide sul piano finanziario
Lascia altresì perplessi l’atteggiamento della magistratura, particolarmente quella contabile, che non rilevi alcunché di meritevole d’indagine nel comportamento di un advisor pubblico, sul quale grava il dovere di fedeltà nei confronti del mandante e che non si pone invece alcun problema di accettare incarico della stessa natura da parte di una delle parti in causa nel processo di collocazione dell’azienda di cui ha condotto stima. Ma quali sono gli assets che hanno consentito di valutare AirOne al pari di una compagnia con un avviamento costruito in quasi 60 anni d’attività? Ci dica Intesa S. Paolo se è estranea alle operazioni finanziarie di Carlo Toto, così rimuovendoci il dubbio che tanta clemenza nei confronti di AirOne non sia piuttosto il frutto del tentativo di salvataggio di quella compagnia che dell’Alitalia.
La smetta questo premier zimbello del mondo con la solfa monomaniacale che tutto ciò che gli va storto per imperizia, per incapacità o per semplice sbruffoneria sia colpa dei comunisti: se mai così fosse, cosa che purtroppo non è, causa l’estinzione del somatotipo, l’opposizione avrebbe fatto solo il proprio dovere alla luce dei dati, a dispetto della sua radicata visione del mondo fatta da un principe e dei vassalli. Spenda ogni tanto un po’ del suo tempo a meditare sulla critica ed impari a rispettare l’altrui opinione, specialmente se poi pretende che gli avversari gli portino rispetto. La trattativa della CAI è fallita perché basata su presupposti irricevibili e poco trasparenti, oltre che per la palese insufficienza del piano di rilancio. L’esser delusi per aver fallito nel mantenere una promessa fatta agli elettori è comprensibile, ma è molto più dignitoso ammettere la sconfitta per non esser riusciti a costruire una cordata credibile che accusare istericamente i compagni di banco del proprio insuccesso. I grandi uomini sanno assumersi la responsabilità dei progetti andati male e, parimenti, sanno mantenere un comportamento umile davanti al successo. Coloro, invece, che martellano con accuse infondate gli altri addossando loro il frutto delle proprie incapacità sono destinati alla lunga al dileggio e a scomparire nell’oblio.
Sbaglia infine Enrico Letta e chi con lui si schiera nel chiedere alla CGIL un ripensamento e di firmare l’improponibile accordo con la CAI, non solo per la valutazione che anche lui dovrebbe fare dei dati riassunti sopra, ma perché non faccia l’errore di ritenere che un gesto populista suggerito ad Epifani può fargli guadagnare l’accredito presso un elettorato in cui le ferite, provocate dalla sciagurata esperienza Prodi, sono ancora sanguinanti. Rammenti il signor Letta che la difesa della democrazia talvolta può rendere impopolari ed al cospetto della reazione può passare persino per eversione. Ma meglio correr questo rischio che allinearsi mestamente.
Il fallimento delle trattative per la cessione dell’Alitalia alla CAI, che qualcuno da destra e da sinistra sta cercando di recuperare in base al principio del “tanto meglio tanto peggio” e mentre un deluso Berlusconi continua a stillare veleno contro Cgil ed Anpac, accusate di essere le uniche e vere responsabili dell’eventuale fallimento della Compagnia, costituisce gioco forza un momento di pausa, che consente di fare il punto sulla situazione, magari per precisare quanto sino ad oggi non è stato detto, né dalle parti in causa né da una certa stampa sedicente obiettiva e d’informazione, che dimostra con le sue omissioni come abbia piuttosto subito qualche condizionamento dagli attori di questa miserevole vicenda.
Il piano Fenice. Intesa S. Paolo viene incaricata dall’attuale governo, che la nomina advisor, di elaborare un piano di salvataggio per l’Alitalia, che ne definisca valore, piano industriale di rilancio, dotazione di capitale, organici, tratte operative, costi sostenibili e prospettive di redditività.
La banca elabora sì un piano, di cui peraltro lo stesso Berlusconi si innamora, ma mette in piedi una cordata di imprenditori nazionali, la CAI, che sposa quel piano e decide di avvalersi per l’avvio e la gestione della trattativa con le parti sociali della consulenza della stessa banca, che da quel momento si ritrova in evidentissimo conflitto d’interesse, su cui nessuno indaga o muove il minimo sospetto.
Il piano, presentato al tavolo del negoziato come “blindato”, prevede la fusione di Alitalia con la concorrente AirOne di Carlo Toto ed ai due vettori aerei viene rispettivamente accordata la seguente valutazione: poco più di 300 mila euro per la vecchia Alitalia, proprietaria di 140 aeromobili e affittuaria di altri 100 aerei e titolare di slot per decine di milioni, e 300 mila euro alla AirOne, proprietaria di qualche decina di slot e con una flotta di 65 aeromobili interamente noleggiati, che gravano sul bilancio in modo rilevante causa l’elevata rata di leasing garantita dalle banche. Il passivo di Alitalia, pari ad 1,4 miliardi all’aprile di quest’anno, confluirà nella cosiddetta bad company e l’onere sarà a carico dei contribuenti, dato che il marciume resterà in carico al Tesoro. L’AirOne, nonostante le più contenute dimensioni rispetto alla concorrente da impalmare, presenta una situazione debitoria vicina al miliardo all’inizio del corrente anno: nulla si dice circa la confluenza dei debiti in questione, ma logica lascerebbe presumere che il matrimonio sarà consumato nella buona sorte così come nella cattiva, cioè con accollo alla bad company anche di questo debito, che il mitico Pantalone sarà chiamato a soddisfare in comode rate.
Sulla questione esuberi si è assistito ad un valzer di numeri, peraltro mai smentiti, a dir poco vergognoso, dato che si è sempre parlato di 3.000/3.250 eccedenti, senza che in concreto i dati siano stati verificati. Il complesso dell’organico delle due società è infatti pari a 22.500 dipendenti circa, dunque se si assume che i dipendenti dichiarati assorbibili dalla CAI erano stati stimati in 12.500 (tra l’altro dopo il rilancio di Colaninno a poche ore dal fallimento della trattativa di assumere altri 1.000 dipendenti), gli esuberi totali avrebbero dovuto ammontare a 10.000 unità, cioè ad una cifra mai emersa nel corso della trattativa né evidenziata da alcun organo di stampa.
Il piano industriale presentato dalla CAI prevedeva l’esercizio di 65 rotte con 140 aerei, tra europee e nazionali, talune già abbondantemente coperte da compagnie low cost, con le quali entrare in concorrenza è da ritenersi più che avventuroso, che nelle previsioni degli estensori del piano – ma sarebbe più appropriato parlare di speranze – avrebbero dovuto condurre al pareggio di bilancio nell’arco di un biennio. Nulla si diceva dell’esercizio di rotte intercontinentali, in gestione diretta o in partnership o code sharing con altri vettori, tratte sulle quali si gioca l’effettiva redditività di una compagnia aerea. Come ha rilevato qualche attento osservatore, «anche ipotizzando un incremento non trascurabile di efficienza, con un aumento significativo del fatturato medio per velivolo, ci si dovrebbe attendere comunque una riduzione molto elevata del fatturato complessivo della CAI rispetto all’aggregato delle due compagnie preesistenti, che non trova tuttavia corrispondenza nel piano industriale. I media riportano un valore di 4,3 miliardi di euro, destinato a crescere negli anni successivi sino a 5,2 miliardi, mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9 miliardi. In sostanza mentre nel 2007 un aereo delle due compagnie produceva in media 20 milioni di ricavi, già nel primo anno di attività della nuova Alitalia ne porterebbe a casa ben 31 milioni (il 56% in più). Un risultato strabiliante, non c’è che dire, per degli imprenditori che non si sono mai occupati in precedenza di trasporto aereo, con l’eccezione del solo Toto, che non pare abbia brillato per efficienza manageriale al cockpit di AirOne».
La trattativa. Costituisce l’aspetto più anomalo dell’intera vicenda. I dipendenti Alitalia aderiscono a ben 9 sigle sindacali, rispettivamente ANPAC, ANPAV, AVIA, UP, SDL, FIT-CGIL, FILT-CISL, UIL Trasporti e UGL, oltre ad avere una RSA, che sin dall’inizio delle trattative è stata tenuta fuori dai negoziati: in ogni caso uno spezzatino, spesso corporativo, in cui è difficile districarsi. Le sigle confederali e l’UGL costituiscono insieme poco più del 21,0% degli iscritti al sindacato, quindi sono largamente minoritarie rispetto al peso dei raggruppamenti autonomi e di categoria; in particolare l’UGL rappresenta una percentuale priva di significato nel panorama descritto.
Nonostante i numeri sopra detti, il vertice della CAI ed il Governo si ostinato a convocare al tavolo quali interlocutori privilegiati della trattativa i Confederali e l’UGL e con questi ha preteso sino all’ultimo istante di concludere un accordo, che consentisse di considerare chiusa la questione Alitalia. E tale risultato era stato in parte raggiunto con l’intesa sottoscritta nel corso di una nottata di trattative con CISL, UIL e UGL e l’elaborazione di un documento programmatico che dava il via libera all’operazione CAI, tra le più che motivate proteste delle sigle sindacali escluse. La stessa CGIL, desiderosa di non incorrere nello stesso gravissimo errore commesso alcuni mesi or sono con la firma dell’intesa sul welfare e riforma delle pensioni, riteneva opportuno comunicare la propria adesione con riserva al documento, riserva da sciogliere solo a condizione di realizzare una larga convergenza con le sigle sindacali escluse dal tavolo della trattativa e rappresentative di quasi l’80% dei dipendenti della Compagnia. Com’è noto, tale convergenza non si è realizzata e la CAI ha comunicato il ritiro dal tavolo del negoziato.
Sorprendentemente al tavolo della trattativa non è mai stato chiamato alcun rappresentante della AirOne, il cui personale avrebbe comunque dovuto seguire le sorti di quello Alitalia o, come si può presumere dal silenzio nel quale è stata confinata la cosa, pagare persino un prezzo più elevato di quello riservato ai dipendenti Alitalia, come si trattasse di un organico figlio di un dio minore.
Le osservazioni. Dalla cruda sintesi emergente dai dati sopra riportati, - reperibili da chiunque avesse voglia di dedicare qualche giornata del proprio tempo alla consultazione dei vari articoli di giornale, siti web, blog e stampa on line, dato che le omissioni sulla completezza dell’informazione in quest’occasione sono state esemplari di come il regime abbia ormai soffocatola anche libertà di cronaca, - appare chiaro come la questione Alitalia presenti più di qualche buco nero, di cui imprenditoria, finanza e politica, hanno collusive ed omissive responsabilità. Si tratta di un pasticcio rancido nel quale non è secondario persino il ruolo di alcuni sindacati, ai quali i fumi dell’autoritarismo galoppante devono aver dato alla testa ed hanno fatto dimenticare loro che la democrazia è maggioranza, non certamente violenta imposizione del proprio ruolo anche nelle realtà in cui non si conta niente. Queste pratiche invasive e protagonistiche, che si sublimano nell’acquiescenza al potere dominante e che lasciano sottintendere la difesa di un inconfessabile tornaconto, in nome del quale si è disposti a sacrificare gli interessi di tanti e, se necessario, persino la faccia, sembrano riportare all’epoca dei sindacati gialli, ormai persi nella memoria, ma, a quanto si constata, mai sopiti nel perverso immaginario di qualche leader attuale.
Altrettanto sprezzante non può che essere il giudizio su certe rappresentanze del capitalismo e della finanza nostrana, formatosi ad una scuola di bassi compromessi e devotamente riconoscente in ogni circostanza possibile a quella classe politica che ne sponsorizza le azioni e ne ispira l’iniziativa. La superficialità con la quale si è vergato un documento lacunoso ed approssimativo e lo spaccio dello stesso per pomposo piano industriale non è solo un offesa ai lavoratori che guadagnano da vivere per sé e le loro famiglie nei carrozzoni che i loro padroni chiamano aziende, ma è uno schiaffo ai milioni di Italiani che hanno sborsato di tasca loro il contributo per mantenere in vita questi carrozzoni, costretti ad elargire stipendi e liquidazioni principeschi ai loro manager pusillanimi, spesso incapaci persino di gestire il proprio bilancio familiare, ma collocati in posti di prestigio solo per lecchinaggio alla politica. Non meno dure critiche possono rivolgersi alla politica, e non solo quella rappresentata da Berlusconi con la quale certamente s’è toccato il fondo, ma che sarebbe del tutto arbitrario ritenere in via privilegiata responsabile del disastro Alitalia. Nella catastrofica storia di Alitalia hanno responsabilità le decine di governi che dalla sua costituzione si sono succeduti alla guida del Paese, che hanno imposto assunzioni clientelari, l’accettazione di accordi sindacali demenziali, la gestione di tratte prive di ritorno economico, l’acquisizione di compagnie di amici in situazione fallimentare, l’impiego di manager amici ed amici degli amici, incapaci di distinguere un aereo da un pallone meteorologico, politiche di gestione della flotta suicide sul piano finanziario
Lascia altresì perplessi l’atteggiamento della magistratura, particolarmente quella contabile, che non rilevi alcunché di meritevole d’indagine nel comportamento di un advisor pubblico, sul quale grava il dovere di fedeltà nei confronti del mandante e che non si pone invece alcun problema di accettare incarico della stessa natura da parte di una delle parti in causa nel processo di collocazione dell’azienda di cui ha condotto stima. Ma quali sono gli assets che hanno consentito di valutare AirOne al pari di una compagnia con un avviamento costruito in quasi 60 anni d’attività? Ci dica Intesa S. Paolo se è estranea alle operazioni finanziarie di Carlo Toto, così rimuovendoci il dubbio che tanta clemenza nei confronti di AirOne non sia piuttosto il frutto del tentativo di salvataggio di quella compagnia che dell’Alitalia.
La smetta questo premier zimbello del mondo con la solfa monomaniacale che tutto ciò che gli va storto per imperizia, per incapacità o per semplice sbruffoneria sia colpa dei comunisti: se mai così fosse, cosa che purtroppo non è, causa l’estinzione del somatotipo, l’opposizione avrebbe fatto solo il proprio dovere alla luce dei dati, a dispetto della sua radicata visione del mondo fatta da un principe e dei vassalli. Spenda ogni tanto un po’ del suo tempo a meditare sulla critica ed impari a rispettare l’altrui opinione, specialmente se poi pretende che gli avversari gli portino rispetto. La trattativa della CAI è fallita perché basata su presupposti irricevibili e poco trasparenti, oltre che per la palese insufficienza del piano di rilancio. L’esser delusi per aver fallito nel mantenere una promessa fatta agli elettori è comprensibile, ma è molto più dignitoso ammettere la sconfitta per non esser riusciti a costruire una cordata credibile che accusare istericamente i compagni di banco del proprio insuccesso. I grandi uomini sanno assumersi la responsabilità dei progetti andati male e, parimenti, sanno mantenere un comportamento umile davanti al successo. Coloro, invece, che martellano con accuse infondate gli altri addossando loro il frutto delle proprie incapacità sono destinati alla lunga al dileggio e a scomparire nell’oblio.
Sbaglia infine Enrico Letta e chi con lui si schiera nel chiedere alla CGIL un ripensamento e di firmare l’improponibile accordo con la CAI, non solo per la valutazione che anche lui dovrebbe fare dei dati riassunti sopra, ma perché non faccia l’errore di ritenere che un gesto populista suggerito ad Epifani può fargli guadagnare l’accredito presso un elettorato in cui le ferite, provocate dalla sciagurata esperienza Prodi, sono ancora sanguinanti. Rammenti il signor Letta che la difesa della democrazia talvolta può rendere impopolari ed al cospetto della reazione può passare persino per eversione. Ma meglio correr questo rischio che allinearsi mestamente.
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