Autoritarismo di destra e rinascita della sinistra
Lunedì, 22 settembre 2008
I fatti delle ultime settimane stanno rendendo dirompente il dibattito sulla crisi incalzante nella nostra società. Ciò non perché l’argomento non sia stato di ricorrente attualità in ogni tempo, quanto per l’escalation che sta subendo in modo strisciante e inarrestabile il quadro sociale, economico, culturale e politico, in altri termini i fondamentali nazionali, a partire dagli storici eventi consuntivati con i risultati delle ultime elezioni politiche.
Per quanto non si possa discutere sull’influenza che ogni aggregazione umana subisce dall’effetto di una globalizzazione inarrestabile, la trasformazione e, in più di qualche caso, la frantumazione di storici “blocchi ideologici” di riferimento, più o meno forti in alcune realtà piuttosto che in altre, ha sicuramente contribuito con un perverso meccanismo causa-effetto a determinare processi tentativi di ridisegno della mappa culturale e dei valori della comunità, il cui esito non è ancora compiuto, ma di cui si percepiscono i tendenziali approdi.
La disgraziata esperienza del governo Prodi, coacervo di una sedicente sinistra obbligata a sommare forze contraddittorie e con radici divergenti per presentarsi con la necessaria autorevolezza egemone, ha segnato il capolinea di un’esperienza incapace di trasformare in fatti compiuti decenni di ambiziose aspirazioni di giustizia, equità, riscatto di categorie storicamente deboli. La sua implosione s’è originata non tanto nell’improbabile tentativo di descrizione di una rotta comune tra Bertinotti e Mastella, giusto per citare due estremi inconciliabili, quanto nell’aver privilegiato vuote ed antistoriche battaglie di principio e di facciata e nell’incapacità di affrontare in concreto le vere emergenze alla base del riscatto di quelle categorie sociali radice del consenso. Lo scenario creatosi sulla base di queste premesse, contraddistinto da risse improduttive nell’ambito della coalizione e da un gioco di veti incrociati in una palude di tragico immobilismo, ha dovuto fare i conti con il revisionismo prematuro di una parte delle forza storiche della sinistra, alla ricerca di una nuova identità egemonica.
La nascita del PD, con la confluenza al suo interno dei residui del vecchio liberismo clericale-progressista e dell’ala realista dei DS, in una nuova aggregazione populista affidata ad una leadership ecumenica prostrata all’altare della rivalutazione dei modelli strombazzati dagli avversari, incapace per questo di esprimere comunque un qualsiasi tratto di continuità con il passato, ha determinato una crisi di identità senza precedenti, dato che il linguaggio espresso dai nuovi predicatori non differiva nella sostanza da quello di un opposizione maggiormente compattata e definitivamente più accreditata nel propagandare modelli di governo in grado di rispondere alle esigenze di un contesto sociale promiscuo e stratificato.
L’inevitabile sconfitta delle sinistre ed il confinamento al ruolo di opposizione della neocompagine progressista, ha avuto il duplice effetto di confermare come la momentanea alternativa a Berlusconi rappresentasse solo un vicolo cieco e senza prospettiva e che il destino del Paese non potesse che propendere verso il modello da tempo invocato dalle destre. Questo d’altra parte si confermava con la revisione precipitosa attuata dagli scampoli dell’ex-comunismo militante incarnato dai DS. L’indiretta conferma di legittimazione culturale e prospettica, avallata altresì dall’inaudita migrazione di intere fette d’elettorato da Diliberto, Bertinotti e Pecoraro Scanio al PDL o alla Lega di Bossi, hanno impresso all’attuale leadership politica la convinzione che i cittadini siano disposti a sacrificare buona parte di quelle libertà, che, in fondo, non hanno prodotto valore aggiunto alle condizioni di vita, per un sistema di governo in grado di garantire maggiore sicurezza, più ordine, attraverso il ripristino di regole di certezza divenute evanescenti. Sfortunatamente questo bisogno risponde ad un’emozione disillusa, ad una interpretazione della realtà basata sulla perdita di riferimenti certi, e non ultimo alla sordida rabbia verso una politica opportunista e inconcludente sempre più avulsa dalle esistenze ed intenta all’esercizio dei propri giochi di potere. Poco rileva che queste emozioni siano il frutto non dell’assenza di regole di vivere comune quanto della loro inosservanza e della loro sistematica elusione nel tempo.
Di fronte a questo rigurgito di reazione, concretizzato con l’esercito nella strade cittadine, con una reintroduzione di meccanismi impropri di valutazione del rendimento scolastico, con l’assalto senza esclusione di colpi al sindacato, con i proclami contro la prostituzione di strada, con i giri di vite sull’immigrazione, che rammentano un’ormai sopita epoca di autoritarismo invasivo e becero e che costituisce il potente oppiaceo ai reali problemi di una comunità allo stremo, – afflitta dall’insostenibilità del regime dei prezzi dei beni primari, da una disoccupazione ed un’occupazione precaria dilaganti, dalla squallida qualità dei servizi essenziali, dalla terziarizzazione violenta dell’economia, dall’incremento esponenziale della povertà e della ghettizzazione di interi nuclei familiari e così via, - il cittadino conduce la sua vita obnubilata e assuefatta, convinto che non sia possibile un sistema alternativo in grado di rispondere in modo più adeguato alle sue esigenze. Anzi vede in questa deriva antistorica l’unica via possibile e capace di garantire una convivenza sempre più problematica e messa sistematicamente a repentaglio dalle spinte corporative di “categorie straccione” verso le quali e necessario mantenere lo status quo per non esservi fagocitati.
L’errore più grossolano che può compiersi davanti a questo stato di cose è il concentrare l’attacco su di un falso bersaglio, quel berlusconismo considerato a torto l’origine dei mali della nostra società, sui quali ha trovato fertile humus una cultura già infettata da modelli qualunquistici e marchiata da un egoismo individualista di portata planetaria. Il berlusconismo è stato solo uno stile casereccio di tradurre in modelli di aggregazione, – o di disgregazione, se si preferisce, - le istanze multiple di una società post-industriale indotta dal benessere post bellico e dal bombardamento mediatico al consumismo sfrenato. Questa società dopo la caduta del nemico storico del “blocco occidentale”, l’impero autoreferenziale comunista, ha definitivamente smarrito il senso dei confini tra buono e cattivo, lecito ed illecito, che da sempre aveva costituito il termine di raffronto tra libertà e negazione della stessa. Il dissolvimento di questo muro non solo ideale tra civiltà ha consentito un rapidissimo import/export di modelli negativi e problematiche alle quali non si era forse sufficientemente preparati. L’assunzione di modelli consumistici emulativi da parte dei cosiddetti “paesi liberati”, ha corrispondentemente imposto per l’Occidente l’assunzione di fardelli di solidarietà che mal si contemperavano con il crescente individualismo delle società sedicenti più evolute, chiamate a sostenere l’onere di una modernizzazione tecnologica senza precedenti e di creare le condizioni per uno stile vita sconosciuto ai tempi della cortina di ferro. E, nel suo piccolo, il fenomeno ha un suo emulo in Italia, dove anni di sussidi sprecati per il riscatto e l’ammodernamento del Mezzogiorno, hanno alla fine generato una “questione settentrionale” ed una Lega insofferenti del depauperamento delle proprie risorse in nome di una riscatto di un Sud refrattario, risorse che nel tempo hanno solo ingrassato la rendita del malaffare e di una politica corrotta al suo seguito. Questo degrado, dunque, non è un fenomeno nazionale, ma è il prodotto di un’inesorabile trasformazione globale che ha interessato le economie più floride ed è debordato a livello universale grazie ad un sistema mediatico senza confini.
In questo quadro, dunque, è erroneo continuare a concentrare il proprio fuoco di sbarramento sul berlusconismo, che di fondo incarna il revanscismo delle classi più abbienti della nostra società alle quali si sono tacitamente alleate le frange di una borghesia sempre più in procinto di precipitare nell’orrore della povertà disperante. Il privilegio che ha riservato Prodi alla politica di rigore e di risanamento, politica necessaria ma gravata in massima parte sui redditi fissi e su le classi medie, non poteva che trasformarsi in un poderoso acceleratore per quell’opposizione politica che, di una stratificazione sociale forte e pilotata, ha da sempre fatto il proprio credo.
Questa divaricazione così netta di missione, che sebbene non dichiarata al rango di neoideologismo, marca il confine tra quella destra e quella sinistra di cui è difficilissimo cogliere varianti progettuali di primo acchito, è la vera questione con la quale deve misurarsi l’opposizione, che non può continuare a trasmettere un’immagine di edulcorato dissenso nel tentativo di acquisire il suo sdoganamento nella pubblica opinione. Né sembrerebbe vincente un ritorno alla pratica dello scontro frontale duro e di principio, dato che da un muro contro muro vi potrebbe essere il concreto rischio che l’alternativa al governo Berlusconi fosse una definitiva svolta autoritaria da cui sarebbe ancor più problematico sperar venire fuori. E’ più probabile che un ricambio alla guida del PD, che faccia piazza pulita di tutti gli impresentabili padri degli errori sin qui commessi senza la quale il movimento non acquisirebbe la necessaria credibilità, corroborato dall’individuazione di un progetto di largo respiro, che in qualche misura recuperasse una certa ortodossia, ed un’azione di forte impegno e di presenza nel territorio, possano costituire le basi possibili di un’inversione di tendenza. L’altro aspetto da non sottovalutare è il principio sempre valido che è con l’unione che si vince e non con i distinguo, che allargano distanze e marcano differenze. AN che sicuramente ha una base ideologica radicata, ma che ha perso quote significative del suo peso in conseguenza delle ricorrenti tarature che ha fatto nelle sua progettualità, oggi confluisce in quel PDL con il quale ha sì affinità elettive, ma che non ha certo analoga visione nostalgica del mondo. Questo passo avanti che si richiede al PD di riaggregare le forze orfane di una sinistra boccheggiante appare in definitiva come l’unica possibile via da percorrere in vista di un rinnovato ricambio politico alla guida del Paese e che faccia recuperare a chi conserva ancora qualche speranza la convinzione che non tutto sia perso ma che si debba solo attendere che la nottata passi.
I fatti delle ultime settimane stanno rendendo dirompente il dibattito sulla crisi incalzante nella nostra società. Ciò non perché l’argomento non sia stato di ricorrente attualità in ogni tempo, quanto per l’escalation che sta subendo in modo strisciante e inarrestabile il quadro sociale, economico, culturale e politico, in altri termini i fondamentali nazionali, a partire dagli storici eventi consuntivati con i risultati delle ultime elezioni politiche.
Per quanto non si possa discutere sull’influenza che ogni aggregazione umana subisce dall’effetto di una globalizzazione inarrestabile, la trasformazione e, in più di qualche caso, la frantumazione di storici “blocchi ideologici” di riferimento, più o meno forti in alcune realtà piuttosto che in altre, ha sicuramente contribuito con un perverso meccanismo causa-effetto a determinare processi tentativi di ridisegno della mappa culturale e dei valori della comunità, il cui esito non è ancora compiuto, ma di cui si percepiscono i tendenziali approdi.
La disgraziata esperienza del governo Prodi, coacervo di una sedicente sinistra obbligata a sommare forze contraddittorie e con radici divergenti per presentarsi con la necessaria autorevolezza egemone, ha segnato il capolinea di un’esperienza incapace di trasformare in fatti compiuti decenni di ambiziose aspirazioni di giustizia, equità, riscatto di categorie storicamente deboli. La sua implosione s’è originata non tanto nell’improbabile tentativo di descrizione di una rotta comune tra Bertinotti e Mastella, giusto per citare due estremi inconciliabili, quanto nell’aver privilegiato vuote ed antistoriche battaglie di principio e di facciata e nell’incapacità di affrontare in concreto le vere emergenze alla base del riscatto di quelle categorie sociali radice del consenso. Lo scenario creatosi sulla base di queste premesse, contraddistinto da risse improduttive nell’ambito della coalizione e da un gioco di veti incrociati in una palude di tragico immobilismo, ha dovuto fare i conti con il revisionismo prematuro di una parte delle forza storiche della sinistra, alla ricerca di una nuova identità egemonica.
La nascita del PD, con la confluenza al suo interno dei residui del vecchio liberismo clericale-progressista e dell’ala realista dei DS, in una nuova aggregazione populista affidata ad una leadership ecumenica prostrata all’altare della rivalutazione dei modelli strombazzati dagli avversari, incapace per questo di esprimere comunque un qualsiasi tratto di continuità con il passato, ha determinato una crisi di identità senza precedenti, dato che il linguaggio espresso dai nuovi predicatori non differiva nella sostanza da quello di un opposizione maggiormente compattata e definitivamente più accreditata nel propagandare modelli di governo in grado di rispondere alle esigenze di un contesto sociale promiscuo e stratificato.
L’inevitabile sconfitta delle sinistre ed il confinamento al ruolo di opposizione della neocompagine progressista, ha avuto il duplice effetto di confermare come la momentanea alternativa a Berlusconi rappresentasse solo un vicolo cieco e senza prospettiva e che il destino del Paese non potesse che propendere verso il modello da tempo invocato dalle destre. Questo d’altra parte si confermava con la revisione precipitosa attuata dagli scampoli dell’ex-comunismo militante incarnato dai DS. L’indiretta conferma di legittimazione culturale e prospettica, avallata altresì dall’inaudita migrazione di intere fette d’elettorato da Diliberto, Bertinotti e Pecoraro Scanio al PDL o alla Lega di Bossi, hanno impresso all’attuale leadership politica la convinzione che i cittadini siano disposti a sacrificare buona parte di quelle libertà, che, in fondo, non hanno prodotto valore aggiunto alle condizioni di vita, per un sistema di governo in grado di garantire maggiore sicurezza, più ordine, attraverso il ripristino di regole di certezza divenute evanescenti. Sfortunatamente questo bisogno risponde ad un’emozione disillusa, ad una interpretazione della realtà basata sulla perdita di riferimenti certi, e non ultimo alla sordida rabbia verso una politica opportunista e inconcludente sempre più avulsa dalle esistenze ed intenta all’esercizio dei propri giochi di potere. Poco rileva che queste emozioni siano il frutto non dell’assenza di regole di vivere comune quanto della loro inosservanza e della loro sistematica elusione nel tempo.
Di fronte a questo rigurgito di reazione, concretizzato con l’esercito nella strade cittadine, con una reintroduzione di meccanismi impropri di valutazione del rendimento scolastico, con l’assalto senza esclusione di colpi al sindacato, con i proclami contro la prostituzione di strada, con i giri di vite sull’immigrazione, che rammentano un’ormai sopita epoca di autoritarismo invasivo e becero e che costituisce il potente oppiaceo ai reali problemi di una comunità allo stremo, – afflitta dall’insostenibilità del regime dei prezzi dei beni primari, da una disoccupazione ed un’occupazione precaria dilaganti, dalla squallida qualità dei servizi essenziali, dalla terziarizzazione violenta dell’economia, dall’incremento esponenziale della povertà e della ghettizzazione di interi nuclei familiari e così via, - il cittadino conduce la sua vita obnubilata e assuefatta, convinto che non sia possibile un sistema alternativo in grado di rispondere in modo più adeguato alle sue esigenze. Anzi vede in questa deriva antistorica l’unica via possibile e capace di garantire una convivenza sempre più problematica e messa sistematicamente a repentaglio dalle spinte corporative di “categorie straccione” verso le quali e necessario mantenere lo status quo per non esservi fagocitati.
L’errore più grossolano che può compiersi davanti a questo stato di cose è il concentrare l’attacco su di un falso bersaglio, quel berlusconismo considerato a torto l’origine dei mali della nostra società, sui quali ha trovato fertile humus una cultura già infettata da modelli qualunquistici e marchiata da un egoismo individualista di portata planetaria. Il berlusconismo è stato solo uno stile casereccio di tradurre in modelli di aggregazione, – o di disgregazione, se si preferisce, - le istanze multiple di una società post-industriale indotta dal benessere post bellico e dal bombardamento mediatico al consumismo sfrenato. Questa società dopo la caduta del nemico storico del “blocco occidentale”, l’impero autoreferenziale comunista, ha definitivamente smarrito il senso dei confini tra buono e cattivo, lecito ed illecito, che da sempre aveva costituito il termine di raffronto tra libertà e negazione della stessa. Il dissolvimento di questo muro non solo ideale tra civiltà ha consentito un rapidissimo import/export di modelli negativi e problematiche alle quali non si era forse sufficientemente preparati. L’assunzione di modelli consumistici emulativi da parte dei cosiddetti “paesi liberati”, ha corrispondentemente imposto per l’Occidente l’assunzione di fardelli di solidarietà che mal si contemperavano con il crescente individualismo delle società sedicenti più evolute, chiamate a sostenere l’onere di una modernizzazione tecnologica senza precedenti e di creare le condizioni per uno stile vita sconosciuto ai tempi della cortina di ferro. E, nel suo piccolo, il fenomeno ha un suo emulo in Italia, dove anni di sussidi sprecati per il riscatto e l’ammodernamento del Mezzogiorno, hanno alla fine generato una “questione settentrionale” ed una Lega insofferenti del depauperamento delle proprie risorse in nome di una riscatto di un Sud refrattario, risorse che nel tempo hanno solo ingrassato la rendita del malaffare e di una politica corrotta al suo seguito. Questo degrado, dunque, non è un fenomeno nazionale, ma è il prodotto di un’inesorabile trasformazione globale che ha interessato le economie più floride ed è debordato a livello universale grazie ad un sistema mediatico senza confini.
In questo quadro, dunque, è erroneo continuare a concentrare il proprio fuoco di sbarramento sul berlusconismo, che di fondo incarna il revanscismo delle classi più abbienti della nostra società alle quali si sono tacitamente alleate le frange di una borghesia sempre più in procinto di precipitare nell’orrore della povertà disperante. Il privilegio che ha riservato Prodi alla politica di rigore e di risanamento, politica necessaria ma gravata in massima parte sui redditi fissi e su le classi medie, non poteva che trasformarsi in un poderoso acceleratore per quell’opposizione politica che, di una stratificazione sociale forte e pilotata, ha da sempre fatto il proprio credo.
Questa divaricazione così netta di missione, che sebbene non dichiarata al rango di neoideologismo, marca il confine tra quella destra e quella sinistra di cui è difficilissimo cogliere varianti progettuali di primo acchito, è la vera questione con la quale deve misurarsi l’opposizione, che non può continuare a trasmettere un’immagine di edulcorato dissenso nel tentativo di acquisire il suo sdoganamento nella pubblica opinione. Né sembrerebbe vincente un ritorno alla pratica dello scontro frontale duro e di principio, dato che da un muro contro muro vi potrebbe essere il concreto rischio che l’alternativa al governo Berlusconi fosse una definitiva svolta autoritaria da cui sarebbe ancor più problematico sperar venire fuori. E’ più probabile che un ricambio alla guida del PD, che faccia piazza pulita di tutti gli impresentabili padri degli errori sin qui commessi senza la quale il movimento non acquisirebbe la necessaria credibilità, corroborato dall’individuazione di un progetto di largo respiro, che in qualche misura recuperasse una certa ortodossia, ed un’azione di forte impegno e di presenza nel territorio, possano costituire le basi possibili di un’inversione di tendenza. L’altro aspetto da non sottovalutare è il principio sempre valido che è con l’unione che si vince e non con i distinguo, che allargano distanze e marcano differenze. AN che sicuramente ha una base ideologica radicata, ma che ha perso quote significative del suo peso in conseguenza delle ricorrenti tarature che ha fatto nelle sua progettualità, oggi confluisce in quel PDL con il quale ha sì affinità elettive, ma che non ha certo analoga visione nostalgica del mondo. Questo passo avanti che si richiede al PD di riaggregare le forze orfane di una sinistra boccheggiante appare in definitiva come l’unica possibile via da percorrere in vista di un rinnovato ricambio politico alla guida del Paese e che faccia recuperare a chi conserva ancora qualche speranza la convinzione che non tutto sia perso ma che si debba solo attendere che la nottata passi.
(nella foto, Enrico Letta membro della direzione del PD)
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