Cinquantenni, il popolo dei dimenticati
Venerdì, 24 ottobre 2008
C’è un fenomeno in Italia di cui non parla mai nessuno e del quale, se casualmente viene alla luce qualcosa, un episodio legato a singole vicende personali, si riempiono le cronache per qualche giorno, per poi riportare silenziosamente in soffitta l’argomento, ricoprendolo di un rinnovato velo di silenzio, quasi che con il silenzio lo si voglia esorcizzare.
L’argomento è quello della triste e disagevole condizione di disoccupazione, o al meglio di sottoccupazione, in cui vive una consistente fetta di popolazione di età compresa tra i 45 ed i 60 anni. Popolazione, questa, espulsa dal sistema produttivo anticipatamente e che, per le ragioni che si vedranno, non è più in grado di reinserirsi o riciclarsi, - come preferiscono dire i sociologi, - nel mondo del lavoro, con le conseguenze che possono immaginarsi.
Il fenomeno, - di cui, ripetiamo, difficilmente si parla, - non ha mai costituito oggetto d’attenzione di governanti ed oppositori, se si eccettua qualche timido riferimento a sostegno del tutto virtuale di questa categoria di senza lavoro nell’ambito di provvedimenti generali per l’occupazione, - si veda l’incentivazione prevista per le imprese per l’assunzione degli ultracinquantenni nel corpo della legge Biagi, - che mai ha però trovato un osservatorio o le adeguate pressioni politiche e sindacali tese al suo contenimento.
Il fenomeno, poi, ha uno stretto legame tipologico di natura territoriale, essendo più presente al Centro-Nord, dove la sua evidenza è dovuta all’abbandono storico di mestieri ad elevata manualità ed all’impossibilità di riciclarsi in attività di questa natura; mentre al Sud la sua scarsa visibilità è dovuta al riciclo nel lavoro manuale, caratteristicamente sommerso, al punto da generare vera e propria disoccupazione nascosta, non rilevabile neanche statisticamente. In entrambe le aree territoriali è in ogni caso comune il consolidato rifiuto da parte di quanti sono colpiti da provvedimenti espulsivi dall’industria di ricorrere alla reiscrizione nelle lista di disoccupazione, quale segno di scarsa se non inesistente fiducia nella capacità delle istituzione di trovare una soluzione di nuova stabilità, rendendo di fatto invisibile il fenomeno in questione.
Infine, questo stato di disoccupazione forzosa è molto più punitivo per le categorie impiegatizie e dirigenziali, che difficilmente riescono a riciclarsi in attività autonome connesse con le loro conoscenze professionali: Le categorie operaie, a parte la maggiore tutela di cui godono da parte di sindacati ed istituzioni, possiedono mestieri che consentono loro più facilmente di organizzare un’attività in proprio nella quale mettere a frutto le conoscenze acquisiti nel tempo.
Il fenomeno invece ha una sua consistenza, che stando alle stime statistiche colpisce circa il 4% della popolazione attiva e che rende il quadro del mercato del lavoro nazionale assai composito e preoccupante, specialmente se tale percentuale viene sommata a quella ben più numerosa rappresentata dagli impieghi a tempo determinato, in tutte le più astruse tipologie, che costituiscono l’imponente esercito dei precari presenti nella nostra realtà.
Le ragioni di tale fenomeno sono facilmente intuibili e sono da ascriversi ai meccanismi di lievitazione delle retribuzioni per effetto dell’anzianità ed alle maglie larghe che consentono la sostituzione di un dipendente “costoso” con un giovane sottopagato, grazie al ricorso ai ben più economici contratti di precariato. Tale meccanismo, che genera l’espulsione sistematica di forza lavoro qualificata dall’esperienza dal sistema produttivo ed imbarca giovani inesperienti e scarsamente qualificati, ha generato una caduta verticale della qualità dei prodotti, siano essi beni materiali che servizi, ed ha permesso all’azienda Italia, - sebbene il fenomeno non sia solo nazionale, - di controbilanciare la concorrenza dei produttori stranieri, grazie ad un regime di costo del lavoro “sopportabile”, che incide in maniera significativa sulla determinazione del prezzo finale di vendita.
Naturalmente, non è sempre oro tutto ciò che luccica. E grazie a questa semplice formula, attuata indiscriminatamente dalle imprese con la gravemente colpevole complicità della politica, il riposizionamento sul lato dei costi ha spesso generato vere e proprie rendite da sfruttamento, con utili moltiplicati e problemi sociali sempre più in tensione.
Gli stessi meccanismi di revisione dell’età pensionabile, - rivelatisi solo un’affaristica operazione di risparmio nell’erogazione degli assegni di quiescenza, - non hanno prodotto alcun risultato positivo sul mercato del lavoro. Gli ultracinquantenni, che impossibilitati a ricollocarsi speravano di poter accedere al trattamento pensionistico, oggi sono stretti nella morsa del paradosso di essere troppo giovani per smettere di lavorare e troppo anziani per potersi rioccupare, a dispetto delle crudeli stupidità asserite in ogni circostanza dai governanti di turno. Né al problema s’è inteso dare un contributo incisivo, essendo rimaste pressoché lettera morta le blande esortazioni pervenute da più parti per asportare un cancro sotterraneo che contribuisce a minare la convivenza nel Paese. Il fallimento delle innumerevoli iniziative di comuni e regioni per il reinserimento di questi lavoratori potenziali, attraverso corsi di reindirizzamento o riqualificazione professionale, è il segno evidente che dietro al fenomeno c’è stato pure chi ha trovato l’occasione per l’ennesima speculazione e la distrazione del pubblico denaro.
E chiaro, comunque, che ci troviamo di fronte ad un sistema politico inaffidabile e parolaio a cui non sta certamente a cuore la soluzione dei problemi reali del Paese, preso com’è a difendere il proprio privilegio o gli interessi delle categorie che ne hanno sponsorizzato l’ascesa. E questa valutazione va equanimemente attribuita ai governi di sinistra, dichiaratamente attenti al sociale ma contraddittori nella prassi, ed ai governi di destra, che sebbene sia noto quali interessi privilegino con il loro canto da sirena riescono comunque ad incamerare il voto di qualche gonzo, convinto che le promesse di questi siano più credibili di quelle tradite da chi li ha preceduti.Una certa logica d’oltre oceano vorrebbe che se un problema ha una soluzione non è un problema, mentre un problema a cui non c’è soluzione è per paradosso un non problema. Ed il fenomeno di cui parliamo calato in questa filosofia di bassa lega, per una ragione o per l’altra, probabilmente non ha ancora dignità di vero problema e così non ne se ne cura nessuno, lasciando migliaia di persone nella disperazione e nel più totale abbandono.
L’argomento è quello della triste e disagevole condizione di disoccupazione, o al meglio di sottoccupazione, in cui vive una consistente fetta di popolazione di età compresa tra i 45 ed i 60 anni. Popolazione, questa, espulsa dal sistema produttivo anticipatamente e che, per le ragioni che si vedranno, non è più in grado di reinserirsi o riciclarsi, - come preferiscono dire i sociologi, - nel mondo del lavoro, con le conseguenze che possono immaginarsi.
Il fenomeno, - di cui, ripetiamo, difficilmente si parla, - non ha mai costituito oggetto d’attenzione di governanti ed oppositori, se si eccettua qualche timido riferimento a sostegno del tutto virtuale di questa categoria di senza lavoro nell’ambito di provvedimenti generali per l’occupazione, - si veda l’incentivazione prevista per le imprese per l’assunzione degli ultracinquantenni nel corpo della legge Biagi, - che mai ha però trovato un osservatorio o le adeguate pressioni politiche e sindacali tese al suo contenimento.
Il fenomeno, poi, ha uno stretto legame tipologico di natura territoriale, essendo più presente al Centro-Nord, dove la sua evidenza è dovuta all’abbandono storico di mestieri ad elevata manualità ed all’impossibilità di riciclarsi in attività di questa natura; mentre al Sud la sua scarsa visibilità è dovuta al riciclo nel lavoro manuale, caratteristicamente sommerso, al punto da generare vera e propria disoccupazione nascosta, non rilevabile neanche statisticamente. In entrambe le aree territoriali è in ogni caso comune il consolidato rifiuto da parte di quanti sono colpiti da provvedimenti espulsivi dall’industria di ricorrere alla reiscrizione nelle lista di disoccupazione, quale segno di scarsa se non inesistente fiducia nella capacità delle istituzione di trovare una soluzione di nuova stabilità, rendendo di fatto invisibile il fenomeno in questione.
Infine, questo stato di disoccupazione forzosa è molto più punitivo per le categorie impiegatizie e dirigenziali, che difficilmente riescono a riciclarsi in attività autonome connesse con le loro conoscenze professionali: Le categorie operaie, a parte la maggiore tutela di cui godono da parte di sindacati ed istituzioni, possiedono mestieri che consentono loro più facilmente di organizzare un’attività in proprio nella quale mettere a frutto le conoscenze acquisiti nel tempo.
Il fenomeno invece ha una sua consistenza, che stando alle stime statistiche colpisce circa il 4% della popolazione attiva e che rende il quadro del mercato del lavoro nazionale assai composito e preoccupante, specialmente se tale percentuale viene sommata a quella ben più numerosa rappresentata dagli impieghi a tempo determinato, in tutte le più astruse tipologie, che costituiscono l’imponente esercito dei precari presenti nella nostra realtà.
Le ragioni di tale fenomeno sono facilmente intuibili e sono da ascriversi ai meccanismi di lievitazione delle retribuzioni per effetto dell’anzianità ed alle maglie larghe che consentono la sostituzione di un dipendente “costoso” con un giovane sottopagato, grazie al ricorso ai ben più economici contratti di precariato. Tale meccanismo, che genera l’espulsione sistematica di forza lavoro qualificata dall’esperienza dal sistema produttivo ed imbarca giovani inesperienti e scarsamente qualificati, ha generato una caduta verticale della qualità dei prodotti, siano essi beni materiali che servizi, ed ha permesso all’azienda Italia, - sebbene il fenomeno non sia solo nazionale, - di controbilanciare la concorrenza dei produttori stranieri, grazie ad un regime di costo del lavoro “sopportabile”, che incide in maniera significativa sulla determinazione del prezzo finale di vendita.
Naturalmente, non è sempre oro tutto ciò che luccica. E grazie a questa semplice formula, attuata indiscriminatamente dalle imprese con la gravemente colpevole complicità della politica, il riposizionamento sul lato dei costi ha spesso generato vere e proprie rendite da sfruttamento, con utili moltiplicati e problemi sociali sempre più in tensione.
Gli stessi meccanismi di revisione dell’età pensionabile, - rivelatisi solo un’affaristica operazione di risparmio nell’erogazione degli assegni di quiescenza, - non hanno prodotto alcun risultato positivo sul mercato del lavoro. Gli ultracinquantenni, che impossibilitati a ricollocarsi speravano di poter accedere al trattamento pensionistico, oggi sono stretti nella morsa del paradosso di essere troppo giovani per smettere di lavorare e troppo anziani per potersi rioccupare, a dispetto delle crudeli stupidità asserite in ogni circostanza dai governanti di turno. Né al problema s’è inteso dare un contributo incisivo, essendo rimaste pressoché lettera morta le blande esortazioni pervenute da più parti per asportare un cancro sotterraneo che contribuisce a minare la convivenza nel Paese. Il fallimento delle innumerevoli iniziative di comuni e regioni per il reinserimento di questi lavoratori potenziali, attraverso corsi di reindirizzamento o riqualificazione professionale, è il segno evidente che dietro al fenomeno c’è stato pure chi ha trovato l’occasione per l’ennesima speculazione e la distrazione del pubblico denaro.
E chiaro, comunque, che ci troviamo di fronte ad un sistema politico inaffidabile e parolaio a cui non sta certamente a cuore la soluzione dei problemi reali del Paese, preso com’è a difendere il proprio privilegio o gli interessi delle categorie che ne hanno sponsorizzato l’ascesa. E questa valutazione va equanimemente attribuita ai governi di sinistra, dichiaratamente attenti al sociale ma contraddittori nella prassi, ed ai governi di destra, che sebbene sia noto quali interessi privilegino con il loro canto da sirena riescono comunque ad incamerare il voto di qualche gonzo, convinto che le promesse di questi siano più credibili di quelle tradite da chi li ha preceduti.Una certa logica d’oltre oceano vorrebbe che se un problema ha una soluzione non è un problema, mentre un problema a cui non c’è soluzione è per paradosso un non problema. Ed il fenomeno di cui parliamo calato in questa filosofia di bassa lega, per una ragione o per l’altra, probabilmente non ha ancora dignità di vero problema e così non ne se ne cura nessuno, lasciando migliaia di persone nella disperazione e nel più totale abbandono.
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