Scuola e disegni inconfessati del potere
Mercoledì, 22 ottobre 2008
Se c’è un comparto che non ha mai avuto pace è quello della scuola. Un comparto nel quale i governi ed i rispettivi ministri alternatisi nel tempo pare si dilettino a scompaginare ciò che hanno fatto coloro che li hanno preceduti ed inventano sistematicamente qualcosa di nuovo, – che in definitiva di nuovo ha poco, - che ha comunque il potere di sollevare polveroni polemici e di scontentare tutte le parti in causa.
La scuola, o meglio l’educazione culturale delle nuove generazioni, è dunque il laboratorio nel quale la politica predilige profondere impegno, ma, attenzione, non per migliorarne i contenuti, che nel corso degli anni si sono notevolmente impoveriti ed in nome di un antinozionismo massimalista sono divenuti sempre più annacquati e superficiali, ma con l’intento di ipotecare nei giovani la costruzione di valori e conoscenze funzionali alle proprie filosofie politiche, - che parlare di ideologie sarebbe oltremodo gratificante per il livello intrinseco della cultura dei riformatori di turno.
Il governo Berlusconi, ovviamente, non ha fatto eccezione a questa regola, già sperimentata con la Moratti nel precedente governo di destra, e la signora Gelmini, ministro di turno dell’Istruzione Pubblica, non ha saputo trattenere l’impulso di esibire le proprie competenze promuovendo una serie di novità – recupero del voto di condotta, grembiulini, tempo pieno e tagli di dotazioni ed organici – che di fondo non fanno che peggiorare il quadro della formazione scolastica, pretendendo di demolire anche quel poco di buono che residuava dalle precedenti riforme e controriforme. Nel caso di specie, inoltre, dovendo soddisfare le direttive di un Tremonti sempre pronto ai tagli indiscriminati di spesa quando si tratta di pubblico, di una Lega patologicamente angosciata da una visione razzista del mondo, di un Brunetta ossessionato dagli slogan sulla fannulloneria dei pubblici dipendenti, insegnanti compresi, di un’ Alleanza Nazionale che non ha mai rinunciato all’idea di riportare indietro gli orologi e trasformare le aule scolastiche in fucine di balilla, la Gelmini ha dovuto sudare le mitiche sette camicie per allestire una proposta di riforma in grado di soddisfare le indicazioni dei colleghi, ma che, a lavoro ultimato, definire ridicola sarebbe già un complimento. Né va trascurato che la proposta in sé è un ulteriore segnale preoccupante del privilegio che si intenderebbe riservare alla scuola privata, quella discriminante e di censo, rispetto alla pubblica, nella quale in nome di tagli e depauperamento della cultura imposto per legge non potrebbero trovare che frequentazione i figli di quell’Italia povera ed emarginata sempre più numericamente corposa.
Per onestà intellettuale, va certamente ammesso che la scuola ante-Gelmini non è certo un esente da malanni, come la fannulloneria di tanti insegnanti assenteisti o la modestia culturale di tanti sedicenti docenti, né il comparto, specialmente nell’ambito universitario, è esente da sprechi rappresentati dalla moltiplicazione delle cattedre inutili o dall’istituzione di corsi di laurea demenziali. C’è, infine, certamente un lassismo diffuso sul piano dell’indirizzo dei comportamenti, a specchio del crollo dei valori del clima sociale che viviamo. Ma da qui a dover giustificare progetti riformistici che nulla cambiano, se non traghettare la formazione scolastica di qualità dal pubblico al privato, e rendere l’istruzione pubblica un bronx in cui convogliare poveri e figli d’immigrati, sicuramente ne corre.
La stessa chiesa cattolica, potere rilevante nella vita politica del nostro Paese, ha espresso il proprio rifiuto ad un’ipotesi di classi differenziali per i giovani immigrati, in quanto rappresenterebbero veri e propri lager in cui confinare persone diverse per lingua, religione e radici sociali, perpetuandone l’isolamento, mentre è sempre più avvertita l’esigenza di creare le condizioni per un’integrazione effettiva, che spezzi la spirale di razzismo non più latente che attraversa la Penisola.
La gravissima crisi economica incombente, inoltre, non giustifica riduzioni di organico nella scuola, dato che comunque si tratta di posti lavoro dietro i quali ci sono famiglie. Ciò non significa che la scuola, e la pubblica amministrazione in genere, debbano rappresentare un ammortizzatore delle tensioni del mercato del lavoro. Ma se lo stato non è in grado di garantire una funzione sociale nei confronti dei suoi cittadini, almeno nelle fasi d’emergenza, significa aver fallito in una delle sue missioni fondamentali, - sebbene si comprenda lo sgomento di chi oggi al governo vede la cosa pubblica come una società per azioni con tanto di azionisti privati a cui dover dar conto e con un management dalla mente offuscata dal dio profitto.
La scuola, o meglio l’educazione culturale delle nuove generazioni, è dunque il laboratorio nel quale la politica predilige profondere impegno, ma, attenzione, non per migliorarne i contenuti, che nel corso degli anni si sono notevolmente impoveriti ed in nome di un antinozionismo massimalista sono divenuti sempre più annacquati e superficiali, ma con l’intento di ipotecare nei giovani la costruzione di valori e conoscenze funzionali alle proprie filosofie politiche, - che parlare di ideologie sarebbe oltremodo gratificante per il livello intrinseco della cultura dei riformatori di turno.
Il governo Berlusconi, ovviamente, non ha fatto eccezione a questa regola, già sperimentata con la Moratti nel precedente governo di destra, e la signora Gelmini, ministro di turno dell’Istruzione Pubblica, non ha saputo trattenere l’impulso di esibire le proprie competenze promuovendo una serie di novità – recupero del voto di condotta, grembiulini, tempo pieno e tagli di dotazioni ed organici – che di fondo non fanno che peggiorare il quadro della formazione scolastica, pretendendo di demolire anche quel poco di buono che residuava dalle precedenti riforme e controriforme. Nel caso di specie, inoltre, dovendo soddisfare le direttive di un Tremonti sempre pronto ai tagli indiscriminati di spesa quando si tratta di pubblico, di una Lega patologicamente angosciata da una visione razzista del mondo, di un Brunetta ossessionato dagli slogan sulla fannulloneria dei pubblici dipendenti, insegnanti compresi, di un’ Alleanza Nazionale che non ha mai rinunciato all’idea di riportare indietro gli orologi e trasformare le aule scolastiche in fucine di balilla, la Gelmini ha dovuto sudare le mitiche sette camicie per allestire una proposta di riforma in grado di soddisfare le indicazioni dei colleghi, ma che, a lavoro ultimato, definire ridicola sarebbe già un complimento. Né va trascurato che la proposta in sé è un ulteriore segnale preoccupante del privilegio che si intenderebbe riservare alla scuola privata, quella discriminante e di censo, rispetto alla pubblica, nella quale in nome di tagli e depauperamento della cultura imposto per legge non potrebbero trovare che frequentazione i figli di quell’Italia povera ed emarginata sempre più numericamente corposa.
Per onestà intellettuale, va certamente ammesso che la scuola ante-Gelmini non è certo un esente da malanni, come la fannulloneria di tanti insegnanti assenteisti o la modestia culturale di tanti sedicenti docenti, né il comparto, specialmente nell’ambito universitario, è esente da sprechi rappresentati dalla moltiplicazione delle cattedre inutili o dall’istituzione di corsi di laurea demenziali. C’è, infine, certamente un lassismo diffuso sul piano dell’indirizzo dei comportamenti, a specchio del crollo dei valori del clima sociale che viviamo. Ma da qui a dover giustificare progetti riformistici che nulla cambiano, se non traghettare la formazione scolastica di qualità dal pubblico al privato, e rendere l’istruzione pubblica un bronx in cui convogliare poveri e figli d’immigrati, sicuramente ne corre.
La stessa chiesa cattolica, potere rilevante nella vita politica del nostro Paese, ha espresso il proprio rifiuto ad un’ipotesi di classi differenziali per i giovani immigrati, in quanto rappresenterebbero veri e propri lager in cui confinare persone diverse per lingua, religione e radici sociali, perpetuandone l’isolamento, mentre è sempre più avvertita l’esigenza di creare le condizioni per un’integrazione effettiva, che spezzi la spirale di razzismo non più latente che attraversa la Penisola.
La gravissima crisi economica incombente, inoltre, non giustifica riduzioni di organico nella scuola, dato che comunque si tratta di posti lavoro dietro i quali ci sono famiglie. Ciò non significa che la scuola, e la pubblica amministrazione in genere, debbano rappresentare un ammortizzatore delle tensioni del mercato del lavoro. Ma se lo stato non è in grado di garantire una funzione sociale nei confronti dei suoi cittadini, almeno nelle fasi d’emergenza, significa aver fallito in una delle sue missioni fondamentali, - sebbene si comprenda lo sgomento di chi oggi al governo vede la cosa pubblica come una società per azioni con tanto di azionisti privati a cui dover dar conto e con un management dalla mente offuscata dal dio profitto.
Com’era facile prevedere la proposta Gelmini ha avuto il potere di mettere insieme la protesta di insegnanti, allievi e famiglie, che non intendono rassegnarsi passivamente ad una trasformazione del modello scolastico che non migliora i contenuti dell’istruzione, ma che interferisce di facciata su meri elementi estetici e, nei fatti, azzera la qualità del sapere. E bene fanno i cittadini studenti, insegnati, genitori a scendere in piazza e a manifestare sdegno e dissenso verso una riforma che si rivelerebbe un ulteriore spartiacque tra classi povere, sempre più massicce, e categorie ricche, sempre più ricche anche se meno numerose. Ed da questi fatti che l’attuale governo sta mettendo in luce le sue vere intenzioni, il suo disegno perverso di rigenerazione di una società classista nella quale le posizioni di rilievo sono appannaggio di pochi privilegiati, sostenuti dal danaro, sebbene poi l’onere della produzione della vera ricchezza del Paese ricada sulla comunità dei diseredati, sulla stragrande maggioranza dei cittadini a cui si chiede di credere, obbedire e combattere, senza alcun supporto nel bisogno, nella migliore tradizione di un triste ventennio, che si credeva definitivamente sepolto.
(nella foto, immagini degli scontri tra studenti e forze di polizia a Milano nella protesta contro i provvedimenti Gelmini)
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